1.Paesaggio, territorio, società
Il paesaggio rappresenta ed esprime il rapporto, diverso nelle diverse fasi della storia, che lega la società al territorio. Un rapporto che non va in una direzione soltanto. La società, collaborando con la natura (o violentandola) costruisce il paesaggio, come ha magistralmente dimostrato Emilio Sereni1. Ma il paesaggio, condizionando la vita dell’uomo, contribuisce a sua volta a modificare la società, come ha raccontato brillantemente Piero Bevilacqua2.
Ragionare sul paesaggio in Italia, domandarci in che modo in questi anni appena trascorsi e nei prossimi si trasforma e si trasformerà il paesaggio della Bella Italia ci porterà quindi ad affrontare i due aspetti della questione: il paesaggio e il territorio. Cominciamo da quest’ultimo.
2. Il territorio
Il territorio non è uno spazio neutrale e indifferente, come lo possiamo immaginare vedendo una piatta carta geografica. Il territorio è una realtà complessa, è un sistema nel quale tutte le parti sono in reciproca relazione, e un’azione su una esercita modificazioni su tutte le altre. Del territorio il paesaggio è la forma, il volto: come un viso esprime l’anima di un uomo, così il paesaggio riflette il carattere, la struttura, la storia – e infine la bellezza o la bruttezza – del territorio.
Il carattere del territorio italiano è espresso da due elementi essenziali, che lo rendono del tutto particolare. È un territorio accidentato e fragilissimo. È un territorio ricchissimo di testimonianze storiche. Ed è proprio l’intreccio tra questi due caratteri che ne fa la singolarità, la bellezza, la ricchezza.
L’uno e l’altro carattere, ciascuno per se stesso, meriterebbe (dobbiamo dire:”avrebbe meritato”) un massimo di cura e attenzione. Per evitarne il degrado fisico, reso facile dalla sua fragilità. Per evitarne il degrado estetico e culturale, la cancellazione della storia di cui è intriso e della bellezza che ne sintetizza le qualità.
Eppure, sappiamo tutti che questo territorio, questo paesaggio, questo insieme di bellezze e ricchezze e qualità, è soggetto a un deperimento che sembra irreversibile. Ne hanno distrutto (ne abbiamo distrutto) una grandissima parte. Si sono accaniti sulle sue parti più belle: le coste, le valli, i boschi. Si sono accaniti nelle pianure più fertili, nei terreni resi fecondi da milioni di anni di depositi vulcanici o alluvionali.
E si sono accaniti su margini delle città, creando una nuova caratteristica del paesaggio italiano d’oggi: mi riferisco alla perdita del confine tra la città e la campagna, tra il costruito e il libero, tra l’urbano e il rurale. In qualunque altro paese dell’Europa civile questo confine permane netto: basta sorvolare il territorio in aereo o col computer per rendersene conto.
3. La società
Veniamo all’altro protagonista della storia del paesaggio, e all’altro responsabile del suo presente e del suo futuro: la società. È facile affermare che la nostra società è radicalmente mutata dai secoli che hanno conformato i nostri paesaggi più belli. Meno facile è comprendere il senso del cambiamento, la sua radice, le sue conseguenze sul territorio. Meno ancora è l’afferrare i cambiamenti che sono in corso nei decenni più vicini a noi: vi siamo ancora dentro.
La radice del cambiamento sta in quel grandissimo evento che fu la rivoluzione borghese – che si svolse tra il XVIII e il XIX secolo – e la conseguente affermazione del sistema economico capitalistico. Quell’evento provocò grandissimi benefici al genere umano (soprattutto nelle regioni del mondo dove mise più profonde radici) ma anche grandissimi disastri.
La nostra cultura impiego molto tempo per rendersi conto che uno dei disastri più grandi fu quello che è derivato dal cambiamento del rapporto tra uomo e natura. Questo cambiamento toccò due punti fondamentali: l’uso del territorio e la sua appartenenza.
Per secoli l’uomo ha utilizzato la natura rispettandola, adeguandosi ai suoi ritmi, alle sue regole, alle sue forme. L’ha trasformata e foggiata, ha costruito – come ha scritto Emilio Sereni – una “seconda natura”, conformata dal lavoro dell’uomo. Ma non l’ha violentata, non l’ha negata, non l’ha cancellata. I nostri più bei paesaggi, quando non sono quelli direttamente prodotti dalla natura, sono quelli prodotti dalla collaborazione (verrebbe da dire “paritetica”) tra l’uomo e la natura. Il senso della misura, dell’equilibrio, della riproducibilità delle risorse naturali sono stati per secoli i connotati del lavoro dell’uomo. La Repubblica Serenissima di Venezia, nel XV secolo, ordinò che tutte le trasformazioni della natura lagunare dovesse essere ispirate ai tre criteri della gradualità, sperimentalità, reversibilità: era la codificazione di una norma non scritta che già vigeva da secoli.
E per secoli il territorio è stato considerato un bene comune. Gli “usi civici”, le “università agrarie”, le “regole” che definiscono gli usi comunitari di vaste zone dell’Italia sono una permanenza ancora viva di questa realtà.
Tutto questo è cambiato. Proprio quando l’aumento della popolazione avrebbe richiesto una maggiore parsimonia nell’uso della natura questa da coprotagonista è diventata schiava. Anzi, la natura è diventata materia prima d’ogni trasformazione richiesta dall’esigenza del continui e inarrestabile allargamento del processo di produzione: del processo di trasformazione dei beni in merci, delle qualità in quantità. La società è diventata, da partecipe alla costruzione del territorio e del paesaggio, divoratrice dell’uno e dell’altro. Uno dei passaggi decisivi di questo processo è stato l’appropriazione privata del territorio, la frantumazione dei beni comuni in una miriade di proprietà private.
4. La fase aristocratica della tutela
La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalsu una visione aristocratica del paesaggio in tre sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”. (3) Anche in conseguenza di ciò, la tutela era affidata allo Stato.
Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.
Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:
“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteristica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo”3.
È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale. È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, sia pure cogliendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.
5. La fase democratica della tutela
Il quadro cambia radicalmente con la costituzione della Repubblica. Nella Carta costituzionale della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo attualmente vigente (speriamo che resista ancora alle spallate demolitorie!) dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
La Repubblica, non lo Stato: la Repubblica è costituita da stato,regioni,province e comuni. È a questo insieme di istituzioni che è affidata la tutela:non a una soltanto di esse, sebbene la Costituzione lasci aperta la possibilità di attribuire ruoli e preminenze diverse alle diverse istituzioni – e sappiamo che successivamente si sono configurate responsabilità in capo soprattutto, ma non esclusivamente, a Stato e regioni.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché questa attribuzione molteplice della tutela del paesaggio significa anche che, quando una delle istituzioni non adempie correttamente alla sua responsabilità, altre possono esercitarla in sua vece. Si può sostenere insomma una sorta di diritto (o dovere) di supplenza: se lo Stato non tutela adeguatamente, la regione o la provincia o il comune hanno il diritto/dovere di intervenire. E viceversa, se la Regione opera male e non tutela, il dovere dello Stato è di intervenire anche laddove la competenza formale sia stata attribuita alla regione.
L’equilibrio delle istituzioni è un elemento fondamentale di una democrazia ben operante. Credo che parteggiare per l’una di esse contro l’altra, per il centralismo statale oppure per il localismo comunale, sia un errore, e un limite al raggiungimento di risultati positivi. Utilizzando il detto di Deng Tsiao Ping, direi che bisogna scegliere volta per volta il gatto che afferra meglio il topo.
Nella concretezza delle situazioni territoriali, per molti anni, il compito della tutela è stato svolto più dai livelli locali della Repubblica che da quelli centrali. Negli anni 60 e 70 del secolo scorso spesso sono stati comuni virtuosi, con una pianificazione urbanistica avveduta e lungimirante, ad esercitare una tutela efficace sui loro territori. Soprattutto là dove la loro azione era accompagnata, e spesso preceduta, da una politica dei partiti (soprattutto ma non esclusivamente dai partiti della sinistra) che vedeva nella tutela delle qualità del territorio un elemento della sua proposta politica. Mi riferisco ad aree come la Toscana, l’Emilia-Romagna, l’Umbria, il Trentino e il Sud Tirolo, ma anche il Piemonte, parti della Lombardia e del Veneto. Se in molte parti di questa regioni noi vediamo ancora paesaggi sopravvissuti all’onda cementizia lo dobbiamo anche a valorosi sindaci e ad avveduti dirigenti politici di quegli anni.
Ma in quegli stessi anni abbiamo anche registrato episodi in cui sono stati gli organi centrali a correggere scelte comunali perverse e distruttive. Ricordo ancora la riscrittura di un PRG di Napoli devastante, nel 1972, compiuta dal Consiglio superiore dei LLPP (artefici principali Antonio Iannello e Michele Martuscelli). E ricordo l’intervento del ministro allo stesso dicastero, Giacomo Mancini, che salvò l’integrità dell’area dell’Appia Antica con una correzione autoritativa del PRG di Roma.
Bisogna dire che in quegli anni non c’era solo una Costituzione che costituiva un punto di riferimento certo, ma anche una cultura politica e un senso dello Stato che consentivano di guardare lontano: anche agli interessi del futuro.
Mi sembra di poter dire in sostanza che con la Costituzione si era entrati, dalla fase aristocratica della tutela, alla fase democratica, di cui forse il Codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce l’ultimo momento. Purtroppo devo aggiungere che, a mio parere, siamo entrati in una fase ulteriore, che definirei la fase post-democratica. Una fase dalla quale solo il consolidarsi, propagarsi ed estendersi di iniziative come la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio potrà consentirci di contribuire all’uscita. Ma vediamo in che cosa la presente fase si caratterizza.
6. La fase post-democratica
Della fase attuale vorrei mettere in evidenza tre caratteristiche, che riguardano i cambiamenti intervenuti nella politica, nella società, nella cultura dominante, e che sono le cause vicine o lontane di tutti i disastri che dobbiamo registrare e patire, sia nella vita del territorio che in quella della città – e quindi, nella vita delle generazioni presenti e di quelle future: il rapporto tra il tempo del territorio e il tempo della politica; il rapporto tra la dimensione pubblica e quella privata nell’uomo; il rapporto tra l’economia, la politica e il territorio.
Sul primo punto. Si è determinata una frattura crescente tra i tempi lunghi del territorio, della sua formazione e delle sue trasformazioni, e i tempi brevi della politica. Il territorio vivi tempi lunghi, a volte lunghissimi. Milioni di anni sono stati necessari per foggiare la forma dei nostri territori: per far emergere le montagne, corrugarsi le valli, formarsi con i sedimenti vulcanici e con quelli alluvionali e fertili pianure. Millenni di lavoro e la cultura di generazioni sono stati necessari per formare i paesaggi che oggi ammiriamo, e che fanno della nostra terra un mosaico di bellezze. Lustri e a volte decenni sono necessari perché gli effetti indotti dalle trasformazioni programmate, per esempio, da un piano regolatore, si traducano in concrete modificazioni del modo in cui città e territorio sono organizzati e vissuti dai cittadini.
Una saggia politica del territorio avrebbe bisogno di una politica lungimirante, capace di costruire una strategia, un progetto di società e un conseguente progetto di città, e di realizzarlo con pazienza e con costanza. Oggi, invece, la politica si è interamente appiattita sul breve periodo: è diventata miope. Non ha la pazienza di seminare e di attendere il raccolto: vuole raccogliere subito, portare via quello che già c’è. Il fatto è che, anche nella politica, ciascuno (ciascuna persona, ciascun gruppo, ciascun partito) guarda al suo interesse immediato. Vale solo ciò che è spendibile prima delle prossime elezioni. È evidente che una visione simile è distruttiva per il territorio.
Sul secondo punto. Nel corso della sua lunghissima vicenda l’uomo ha imparato che non tutte le esigenze della sua vita possono essere soddisfatte individualisticamente. Così, nel corso della lunghissima elaborazione dei bisogno e del suo progressivo soddisfacimento, l’uomo ha arricchito la sua stessa natura. L’uomo ha così acquisito una duplice componente della sua natura: in ciascuno di nui c’è la componente individuale, personale, privata, e la componente comunitaria, sociale, pubblica. Questa due componenti, l’uomo privato e l’uomo pubblico,hanno storicamente raggiunto un equilibrio. Nell’ultima fase, la fase che attraversiamo, l’uomo privato ha cacciato l’uomo pubblico: la persona umana si è individualizzata: siamo entrati nella fase, per adoperare le parole del sociologo Richard Sennett, del “declino dell’uomo pubblico”4.
L’individualismo è diventato trionfante: è la pulsione dominante. Si è persa la consapevolezza che più la società diventa complessa più cresce la necessità di risposte comuni a problemi comuni. La città e il territorio, i problemi che pongono, la necessità di governare in modo ragionevole e lungimirante le loro trasformazioni esigono invece una forte presenza dell’uomo pubblico che c’è in ciascuno di noi: un forte senso della responsabilità collettiva, una forte disponibilità ad azioni collettive.
Il terzo punto. In una società bene ordinata l’economia è certamente una dimensione importante. Ma ogni fase dell’economia ha avuto un suo motore, un suo obiettivo dominante. L’economia nel cui ambito viviamo da alcuni secoli, l’economia capitalista, ha come suo motore la ricerca del massimo profitto da parte di ciascuno dei possessori dei mezzi di produzione. Questo obiettivo è raggiungibile mediante la massima produzione di merci. Ora non è detto che questo obiettivo corrisponda al massimo del benessere sociale. Perciò la politica si è sempre posta il problema di guidare l’economia, o almeno si è posta, nei confronti dell’economia, come un altro potere. La storia della democrazia può essere letta proprio in questo modo: come quella diell’affermazione di un potere che, esprimendo gli interessi della maggioranza dei cittadini, potesse contrastare, o almeno condizionare e condividere, gli interessi dei padroni dell’economia.
È ormai chiaro a tutti che la politica si è completamente appiattita sul potere economico. Si è costituita una ideologia, un modo corrente di pensare, per il quale l’economia data, questa economia, è considerata inevitabile: al punto che la politica non riesce più a pensare alla sperimentazione di alternative percorribili. E poiché per questa economia non esistono beni (cioè cose cha abbiano valore per sé) ma solo merci (cioè oggetti scambiabili con denaro) ecco che si tende a trasformare in merci anche beni preziosi come il paesaggio, la storia, la bellezza del nostro territorio, le sue risorse irriproducibili: in una parola, il suo patrimonio.
7. Occorre ripartire: da dove?
Queste sono le tendenze in atto. E credo che, se ci sforziamo un poco, riusciamo a leggerle in ciascuno degli episodi di dissipazione del paesaggio a cui assistiamo, e in ciascuna delle cause immediate a cui li facciamo risalire. Sul fatto che, lasciando il mondo in balia di queste tendenza, si tenda verso una catastrofe esiste ormai una vstissima letteratura. Il bellissimo ultimo libro di Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo5, ne costituisce un quadro di grandissima efficacia.
È impossibile, almeno per me, comprendere se il sistema economico sociale capitalistico sarà in grado di auto correggersi (Franco Rodano sosteneva che il capitalismo è come Proteo, il mostro che cambiava continuamente forma e natura per sfuggire alla stretta di Ercole), oppure se sarà necessario e possibile immaginare e costruire un sistema del tutto diverso. Quello che so è che, in qualunque modo il cambiamento si manifesti, sulla direzione di marcia influiranno le sollecitazioni che verranno dalle controtendenze che si manifesteranno nella società.
E devo dire (lo scrivo da tempo sul sito web eddyburg e sul settimanale Carta) che vedo ben poche cose si muovono in controtendenza nelle istituzioni e nell’accademia, non ne vedo nessuna nella politica ne vedo invece molte nella società.
In tutt’Italia si manifestano ormai tensioni e interessi che si esprimono in quasi tutte le regioni d’Italia e spesso si concretano nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.
In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze).
Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale pubblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati. Del resto, gli studiosi che analizzano gli effetti del neoliberalismo negli ambiti urbani prevedono già lo svilupparsi di nuovi conflitti, generati dall’aggravarsi del problema della casa, dalle carenze o dai maggiori costi dell’acceso a servizi ormai indispensabili alle famiglie, dal crescere del disagio derivante dall’organizzazione dei trasporti.
I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.
È un lavoro nel quale spetta anche agli esperti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. E insieme alla corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliorano o peggiorano, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.
1 Emilio Sereni. Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1961.
2 Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1969
3 B. Croce, Relazione al disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali, Atti parlamentari, Roma 1920.
4 Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006
5 Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma Bari 2008