Vi sono diverse ragioni per cui vale la pena di leggere il libro di Camagni, Gibelli e Rigamonti. In primo luogo, perché affronta un problema reale, imponente, cui è legato il destino della città; se è vero, come sostiene Francesco Indovina, che “questa nuova strutturazione dello spazio tende a diventare una modalità ricorrente di organizzazione dello spazio nel nostro paese” (F. Indovina, La città diffusa, DAEST 1990, p. 22). In secondo luogo, perché affronta quel problema sulla base di una posizione culturale, di una idea di città, che condivido: compattezza, mixité, vicinanza, riconoscibilità, confine mi sembrano infatti attributi necessari della città in quanto tale. Ancora, perché inquadra l’argomento in una prospettiva non provinciale, ma aperta all’Europa e attenta anche a ciò che avviene oltre Atlantico: sebbene – mi sembra – senza alcuna subalternità culturale; ciò che è abbastanza inconsueto tra quanti “parlano le lingue”. Infine, perché appoggia le sue conclusioni su un lavoro di misura economica che mi sembra molto serio e rigoroso – benché questo non sia il mio campo.
Nel lavoro di Camagni, Gibelli, Rigamonti si opera una distinzione molto corretta tra costi collettivi e costi pubblici (ho apprezzato molto l’attenzione continua a precisare il significato dei termini adoperati). E si elencano in modo che mi sembra completo i temi “cruciali” del costo della dispersione urbana (pp. 25-26). Li riassumo così:
- il costo economico del consumo/spreco dei suoli agricoli e dei beni naturali,
- il costo ambientale delle esternalità negative scaricate sui comuni vicini in termini di mobilità,
- il costo di un ammortamento accelerato della città centrale
- i costi di impatto ambientale relativi al consumo di risorse finite o scarse
- i costi sociali in termini di perdita dell’”effetto città” e in termini di segregazione
- i costi di inquinamento estetico
- il costo pubblico per la costruzione di infrastrutture di trasporto.
All’inizio del capitolo dedicato all’analisi quantitativa si riprende l’elencazione delle categorie di costo, polarizzandola sostanzialmente su quelli attinenti alla mobilità, al traffico, alla costruzione e gestione di reti e di servizi pubblici (pp. 79-80).
Dalla successiva analisi quantitativa mi sembra che scompaiano, o che vengano considerati solo metaforicamente ed allusivamente, alcuni dei costi, quelli
- dello spreco di risorse naturali, se non in termini di estensione delle aree consumate o dell’energia impiegata nei trasporti,
- dell’ammortamento accelerato della città centrale,
- della perdita dell’”effetto città” e della segregazione,
- dell’inquinamento estetico.
Non credo affatto che questo dipenda da scarsa attenzione degli Autori. E però da questo rilievo vorrei far scaturire due osservazioni:
La prima, di carattere pratico: mi sembra che comunque il costo collettivo della dispersione urbana sia molto maggiore da quello quantificato dal lavoro di analisi quantitativa il quale, appunto, deve trascurare alcune sue componenti. E questo, se fosse vero, mi sembrerebbe un elemento da sottolineare.
La seconda, di carattere teorico: nonostante gli interessanti studi empirici di alcuni studiosi, non mi sembra che le attuali categorie della scienza economica (e quindi della sua derivata applicativa, l’econometria) siano pienamente capaci di misurare il valore – e quindi il costo – dei beni non riducibili a merci: il valore che non sia valore di scambio. E quei quattro costi ai quali mi riferivo mi sembrano esprimere appunto beni e valori d’uso.
Ma veniamo ad argomenti che conosco meglio.
Molto opportunamente nel libro si precisa il termine adoperato (“città dispersa”) in relazione a quelli presenti in letteratura (pp. 17-18). Condivido in particolare la volontà di distinguere la propria analisi (e il termine adoperato per individuarne l’oggetto) da quelle che in qualche modo tendono a prendere atto passivamente del nuovo “modello urbano”. Riprendendo i termini di ville eparpillée, ville éclatée, mitage urbain, si vuole insomma scegliere
un approccio dinamico ed evolutivo, meno legato alla sola descrizione fenomenica, maggiormente attento alle pratiche sociali ed economiche e alle possibili conseguenze sul benessere collettivo e dulla sostenibilità di lungo periodo.
Implicita in questa scelta (ma del tutto esplicita per chi legga il libro) è la presa di distanza dalle interpretazioni giustificazioniste di questo modo di occupare il territorio e di organizzare l’insediamento dell’uomo. E il rifiuto del modello analizzato è già chiaro nelle prime pagine del libro, la dove si definisce in modo secondo me convincente la dispersione urbana:
(…) possiamo identificare la dispersione urbana recente con un modello di urbanizzazione a bassa densità relativa, dilatato fino ai margini estremi della regione metropolitana, ad alto consumo di suolo, discontinuo, tendenzialmente segregato e specializzato per destinazioni monofunzionali, prevalentemente dipendente dall’automobile, fondato su processi di filtering down che consentono l’accesso dell’abitazione in proprietà a gruppi sociali a reddito prevalentemente basso, caratterizzato dall’assenza di strumenti di pianificazione strategica, e quindi con debole capacità di pianificazione e gestione alla scala vasta dei processi di trasformazione insediativa (p. 17)
Mi domando però se il rifiuto non apparisse più netto ove si facesse un ulteriore passaggio. Se al termine “città dispersa” si sostituisse quello di “urbanizzazione dispersa”, o “dispersione urbana” o – meglio ancora – “dispersione insediativa”, chiarendo così che a questa forma di urbanizzazione non compete il titolo di “città”, comunque temperata da attributi riduttivi.
Sono espressioni, quelle che suggerisco, che pur vengono impiegate nel libro come sinonimi di quello scelto come “maggiore” Capisco però che gli editori ragionano in un altro modo, e che “città dispersa” è un titolo più accattivante che altri termini magari più precisi. Del resto, il titolo che avevo proposto per il mio ultimo libro era “La Storia e la Norma”, e l’editore ha preferito “Fondamenti di urbanistica” per ragioni di appeal commerciale.
La cosa che più mi ha affascinato e sorpreso (e non parlo adesso del libro, ma della realtà che esso restituisce) è l’apprendere che non solo in gran parte d’Europa il fenomeno della diffusione urbana esiste (sebbene forse sia necessario distinguere i diversi modi in cui avviene), ma che in tutti i paesi d’Europa (e anche negli stessi USA) si dia luogo alle medesime riflessioni sul che fare, e in particolare sul come correggere quella distorsione del liberalismo che è il neoliberismo deregolativo.
Si afferma infatti conclusivamente, dopo averlo ampiamente documentato, che
A partire dagli anni ‘80 la “città dispersa” si è affermata anche in Europa, per effetto di stili abitativi e di tendenze localizzative delle attività economiche che hanno privilegiato gli spazi suburbani, ma anche per effetto delle politiche di deregolamentazione che, in molti paesi, hanno delegittimato la pianificazione d’inquadramento d’area vasta consentendo l’affermarsi di politiche locali svincolate da un quadro di coerenze complessive (p. 150)
Ecco, semmai mi verrebbe voglia di aggiungere che, a differenza che in altri paesi europei, in Italia non si è delegittimata solo la pianificazione d’area vasta, ma la pianificazione tout court. Per cui negli altri paesi la reazione di oggi è reazione rispetto a un fenomeno che – in Francia come in Germania, in Olanda come in Gran Bretagna – si è sviluppato in modo meno perverso e più controllato che da noi.
Nel libro si fa più volte riferimento alla “pianificazione strategica d’area vasta”: sia individuando nella sua assenza o nella sua debolezza, e nella deregolamentazione urbanistica, una delle cause delle dispersione insediativa, sia proponendo nella ripresa della pianificazione strategica d’area vasta uno (e forse il principale) degli strumenti impiegabili per contrastare il fenomeno.
Concordo del tutto con questo insistito rilievo. È indubbio che la frantumazione localistica delle decisioni sull’uso del suolo è una ragione importante della dispersione urbana quando non è corretta e sorretta da una efficace politica di area vasta. È indubbio che non il principio di sussidiarietà, ma la “banalizzazione e (…) interpretazione in chiave deregolativa” (p. 55) di quel principio è stata l’ideologia che ha consentito la prassi della dispersione. È indubbio che restituire (o, in Italia, conferire) potere e centralità al governo d’area vasta della dinamica del sistema insediativo è un passaggio decisivo per ridurre la massa di sprechi connessi alla dispersione insediativa.
Vorrei però chiedere a mia volta una precisazione, che non è solo terminologica.
A me sembra che il termine “pianificazione strategica” sia abbastanza ambiguo. Che vi siano vari modi di esprimere il coordinamento sovracomunale. Che in definitiva sia necessario precisare che “la pianificazione d’area vasta” che è richiesta oggi è una pianificazione che compia scelte sul territorio secondo modalità, e sulla base di poteri, che rendano le decisioni di pianificazione “opposables au tiers”: privati e pubblici che siano.
La pianificazione d’area vasta che è necessaria richiede certo la visione di lungo periodo (la strategia), la capacità di disegnare e proporre scenari, di costruire su questi il consenso. Ma essa deve essere anche regolativa. Deve proporre, a alla fine imporre, vincoli, condizioni, confini (gli Urban Growth Boundaries e i Red Contour – p. 62), deve stabilire invarianti e condizioni non negoziabili. Cero,non in modo impiccione, come ha presunto di fare a volte la pianificazione tradizionale, ma rispettando sul serio il principio di sussidiarietà correttamente inteso.
Mi sembra che la necessità di questa pianificazione sia chiara agli Autori del libro, i quali la sostengono non solo per le personali convinzioni, ma sulla base di un’ampia analisi di ciò che si sta muovendo fuori dai confini dell’Italia. Come quando si afferma che, in Europa,
non emergono tendenze alla deregolamentazione urbanistica e alla semplificazione procedurale a livello comunale senza uno speculare rafforzamento dei compiti di inquadramento strutturale, degli ambiti di decisione non negoziabili attribuiti ad enti di pianificazione di livello intermedio (p. 75)
E quando si ricorda, citando Dino Borri, che prevale la direzione di
una presa di distanza dai modelli di pianificazione strategica di derivazione “aziendale” praticata negli anni ’80, e una precisa preoccupazione che l’”interazione”, nei processi di pianificazione, anche se certamente necessaria, non sia però sufficiente a garantire risultati socialmente desiderabili e di lungo periodo, ma che anzi rischi di tradursi in forme continuamente rinnovate di deregolamentazione e di “ ad hoc-isme” (…) se non è accompagnata da alcune regole formali condivise che impegnino i differenti partner sul piano etico (p. 73)
Del resto, mi sembra che anche in Italia, sia pure con diversità e approssimazioni, ci si muova nelle stessa direzione: in quella, cioè di
un approccio top-down – sia pure corretto da procedure di concertazione intergovernativa, consultazione degli interessi e coinvolgimento della popolazione – che garantisca autorevolezza,stabilità ed efficacia all’azione pubblica in materia di salvaguardia ambientale e salvaguardia sociale (p. 73)
Mi riferisco ad alcune leggi urbanistiche regionali dell’ultimo decennio, da quelle della Toscana, della Liguria e del Lazio a quelle della Basilicata e dell’Emilia Romagna, nelle quali vorrei sottolineare tre elementi che mi sembra vadano in quella direzione.
- il carattere strutturale (e non solo strategico) dei momenti e strumenti sovracomunali della pianificazione,
- l’efficacia (sia pure spesso solo indiretta attraverso la pianificazione comunale) delle scelte della pianificazione d’area vasta,
- la distinzione – nelle pratiche di concertazione – tra il ruolo degli interessi pubblici e di quelli privati, e quella tra l’attore responsabile del procedimento e quelli consultati.
Concordo infine pienamente con le indicazioni concernenti il “che fare”, contenute nell’ultima pagina del libro.
Concordo con le tre “direttrici strategiche che emergono” in ambito internazionale: realizzare un modello “giudiziosamente compatt0”; integrare le politiche di urbanizzazione e le politiche di trasporto pubblico; aumentare la diversificazione funzionale (la mixitée) alla scala locale.
Concordo ugualmente con le “nuove regole” proposte: il divieto di nuove urbanizzazioni di frangia in assenza di piani sovracomunali (a condizione che questi abbiano un efficace carattere regolativo); l’obbligo alla perimetrazione di un preciso confine di crescita (i Red Contours e le Urban Growth Boundaries, dovrebbero costituire un limite invalicabile e una invariante strutturale).
A queste direttive e a queste regole ne aggiungerei però un’altra. Che la positiva tendenza alla compattazione e alla densificazione, che le auspicabili politiche orientate al recupero delle aree urbane centrali, non si traducano in un’indiscriminata occupazione edilizia degli spazi ancora liberi, né di quelli a più alto gradiente di trasformabilità. Che, anzi, gli spazi liberi e liberabili delle aree urbane, e gli spazi e i tracciati dotati di qualità naturali e storiche delle aree della dispersione insediativa, vengano ricomposti in un disegno volto alla costruzione di un sistema, una rete degli spazi di qualità storica, naturale, sociale, liberamente fruibili e percorribili: una sorta di alternativa, o almeno di controcanto, alla continuità della rete formata dagli edifici ed dalle strade.