Signore, Signori, Amici,
A queste mie parole, anzi ai lavori del nostro convegno, dovrebbe essere posta come base (e quindi sottointesa) una definizione volta a precisare l’ambito della sfera dell’operare urbanistico.
Dovremmo, a parer mio, definire come urbanista quel pianificatore che è capace di tradurre in un piano tecnico pluridimensionale il suo programma. Condizioni sine qua non per questa traduzione sono, da un lato, la capacità di risalire a una sintesi dall’analisi degli elementi di giudizio; dall’altro la capacità di operare questa sintesi in termini di espressione (in senso estetico).
Da tutto ciò discendono vari corollari.
Il primo è che l’urbanista è un pianificatore e che vi possono essere pianificatori che non sono urbanisti.
Il secondo è che l’urbanista opera nella multiforme sfera della tecnica e della conoscenza, ma solo al fine di giungere ad una sintesi che è il piano: e per far ciò si vale di tutti i mezzi che gli consentono di agire in tutti i campi e in tutte le dimensioni (edilizia, viabilità, legislazione, igiene, economia, vita sociale, ecc., ecc.).
Il terzo è che, se il piano è espressione, esso appartiene alla sfera del particolare e nona quella dell’universale; ossia che non esiste un unico piano urbanistico e scientifico che traduca inequivocabilmente e matematicamente un dato programma, ma bensì quest’ultimo può anche essere espresso contemporaneamente in vario modo da diversi piani, ciascuno dei quali rifletterà, più o meno chiaramente, il modo di vedere e di sentire dei vari urbanisti che li possono aver redatti. Ossia la sintesi espressa dal piano pluridimensionale pur valendosi di una tecnica rigorosa, appartiene più alla sfera dell’Arte (in senso vasto) che a quella della Scienza.
Questa definizione, con i suoi logici corollari, scaturisce da una esperienza abbastanza recente e, comunque, il porre a base dell’operare urbanistico il concetto fondamentale della pianificazione economico-sociale è posizione abbastanza nuova nel nostro Paese. Qui da noi fino a non molto tempo fa l’urbanistica si identificava con l’edilizia cittadina, con l’architettura delle città, con la tecnica della città, tendendo soprattutto a risolversi in una intuizione architettonica, sia pure in certo senso vastissima. Tale è stata posta nei compiti dei pochi edili-urbanisti italiani dello scorso secolo, tale in fondo nacque come disciplina, sia pure con più vasti concetti, nelle facoltà d’Architettura una trentina d’anni or sono.
Era questo certo un retaggio dello spirito individualista del Rinascimento non superato, come già invece in Francia attraverso l’Illuminismo e la grande Rivoluzione; aiutato in Italia dalla divisione politica dei Principati e delle Signorie, alimentato dallo spirito della controriforma e dalla assenza quasi totale, fino alla fine del secolo, del lievito dei grandi problemi sociali, posti in altri Paesi dalla rivoluzione industriale.
Invero quella meravigliosa creazione italiana del libero Comune, palestra feconda di contatti sociali, qui, proprio in Italia, morì troppo presto sotto il peso delle Signorie, forse perché, come ebbe a dire il Gramsci, incapace di tradurre il suo ordinamento corporativo in uno Stato. Ma in altri Paesi lo spirito comunale visse più a lungo, generò la base strutturale di tutte le infinite città della colonizzazione europea del basso medioevo e delle città Anseatiche, diede forza e vita a quella coscienza sociale comunale che fa sentire il risolversi del problema dell’individuo in quello della comunità, che permette la democratica partecipazione di tutti i cittadini alla vita politico-economica, che rinvigorisce il senso di responsabilità, che accerta infine in un quadro collettivo più vasto gli interessi economici dei componenti della comunità. Coscienza questa che si conserverà fino alla fine negli altri Paesi e che ha permesso ad esempio il compiersi ininterrotto, attraverso cinque secoli, del piano unitario di Amsterdam e che ci si rivela lungo la storia con segni inequivocabili anche nelle condizioni più difficili, sotto la pressione della autocrazia.
Ne è un segno per esempio il rescritto di Colbert (il creatore della rete stradale organica della Francia) con il quale, in occasione dell’approvazione del piano di Parigi del 1676, proibiva l’ampliamento della città fuori dei suoi baluardi “affinchè sia posto un limite all’ingigantirsi della metropoli, la quale non abbia poi a fare la fine di Babilonia, di Alessandria e di Roma, soffocate dalla loro stessa grandezza”.
E ne è un altro la bella lettera di Vauban a Luigi XIV scritta nei suoi ultimi giorni, quasi una confessione, nella quale egli dice: “Spinto dalla mia coscienza sento il dovere di dire alla Maestà Vostra come, nelle moltissime città da noi create, si sia sempre trascurato e tenuto in nessun conto la vita e le condizioni degli abitanti; di quel popolo cioè che pure ha portato e porta sulle sua spalle i pesi maggiori del regno”.
Per trovare un pur debole segno di tale coscienza in Italia, bisogna scendere alle soglie dell’ottocento, quando Ferdinando IV chiamava il Filangieri per il codice di vita della sua Ferdinandopoli; ma questa era una città da operetta, morta sul nascere, divertimento di sovrano, nata dalla scimmiottatura di Versaglia. E il sovrano riuscì a dar vita piuttosto al Reale Albergo dei Poveri, chiudendoci dentro i diecimila poveri della città di Napoli.
Non v’ha dubbio dunque che la Rivoluzione Industriale, con i suoi problemi acuti, e la grande esperienza colonizzatrice Americana contribuirono a trasformare questa latente coscienza sociale in un vero processo di sviluppo, specialmente nel mondo anglosassone: ed è lì che troviamo il primo delinearsi della figura del pianificatore.
E’ in Inghilterra (proprio a reazione del mondo del liberismo economico) che nascono i primi pensatori moderni, sotto la spinta di un primo socialismo, i quali pongono il problema di una nuova organizzazione economica della società capace di dar vita ad una nuova urbanistica e quello di una nuova urbanistica, capace di garantire una nuova economia. I primi furono gli apostoli del gruppo Ruskiniano che, in un certo senso, sfociarono nella concezione Howardiana; i secondi furono gli industriali del sapone, della cioccolata, del vetro che, all’opposto, ragionarono in termini di puro interesse economico personalistico.
Il tema di un’urbanistica sociale, ossia quello di un’urbanistica (che altra io non ne vedo) è stato dunque posto prima dai sociologi che dai tecnici; e proprio qui, nel mondo anglosassone, si è precisata più che altrove la figura dell’urbanista pianificatore quale ho proposto al principio. In questa atmosfera si è formato il pensiero di Patrick Geddes, quello di Mumford; in questa atmosfera sono nati, ancor prima che fossero proposti da una adatta legislazione, i primi piani regionali inglesi ed il piano della regione di New York, offerto in dono da un mecenate e, benché privo di qualunque sanzione giuridica, accettato spontaneamente.
L’attuale posizione dell’urbanistica in Inghilterra e in America è delineata dunque in un quadro nel quale si compongono da un lato le esperienze accademiche di singole figure di architetti urbanisti; dall’altro le esperienze empiriche di organizzazioni sociali. Gli uni e le altre affermano la base economico-sociale del contenuto del piano; e perciò stesso è possibile colà quella aderenza logica tra il piano e la società che garantisce la bontà e l’efficacia del piano stesso. Diversa invece la posizione dell’urbanista nei Paesi del mondo latino.
Qui è il tecnico urbanista che, per primo e da solo, pone questo principio, mentre intorno a lui vi è, si può dire, il vuoto. Appena ora si delineano in Francia, nell’America latina e in Italia quelle forze di pensiero che intravedono una unità dei fenomeni dell’economia e, perciò stesso, si pongono ad indagare questi fenomeni, preparando quel terreno fertile per l’operare urbanistico attraverso una pianificazione. Ma ancor oggi, di più, si pensa in termini puramente tecnici estetizzanti.
Nella Russia sovietica, all’opposto, la pianificazione ha preceduto, in un certo senso, l’urbanista e gli ha preparato la base, gli ha dato il quadro, gli ha consegnato una Società, superandolo nella rapidità. Semmai dunque, in Russia, è l’urbanista che tarda nel far aderire i suoi piani alla realtà della nuova società che sotto i suoi occhi si sta formando.
Per afferrare compiutamente la dualità: urbanistica - pianificazione (o ciò che è lo stesso, lo sforzo interpretativo da parte dell’urbanista verso la società per la quale egli opera) dobbiamo renderci conto che progresso non è civiltà e che quest’ultima altro non è che la capacità di servirsi del primo in termini etico-sociali; dobbiamo renderci conto che il vertiginoso moltiplicarsi negli ultimi quattro secoli, delle emergenti poste dal progresso tecnico ha proceduto molto più rapidamente che non la facoltà di tradurre in termini di civiltà la comprensione di tali emergenti. Per ciò stesso la società nostra è in crisi.
In verità la interpretazione ottimistica della Storia, posta dalla Francia del diciottesimo secolo con il postulato secondo il quale scienza e civiltà corrono sullo stesso binario, non ci sorregge più.
Noi oggi sappiamo per certo che, affinché quel postulato sia valido, occorre che tutte le facoltà umane si sviluppino proporzionalmente, camminando allo stesso passo; occorre insomma che il dominio razionale della società e dell’individuo sui propri impulsi marci alla pari con lo sviluppo tecnico. Ciò non si è più avverato dal Rinascimento in poi: e se ciò non è, la società stessa si disintegra. E quando una città è distrutta dalle bombe, ciò accade (come dice il Mannheim) perché il dominio tecnico sulla natura è molto più avanzato che non il conoscimento dell’ordine e del governo sociale.
Ora: per giudicare il livello etico-sociale della comprensione del progresso e il suo peso effettivo sulle questioni pratiche della vita della comunità, o (ciò che è lo stesso) per pesare la capacità urbanistica, non ci sono che due indici di misura: quello che segna la portata della capacità di previsione della gente e quello che mostra la portata del suo senso di responsabilità. Mai questi indici ci possono sembrare così bassi come oggi.
In realtà, la nostra società sta compiendo un lungo cammino: dallo stato della solidarietà della orda essa è passata alla tappa storica dell’uomo della concorrenza individuale; ed ora sta entrando in quella della solidarietà del gruppo superindividuale.
Da un lato l’uomo, che fino a ieri si sforzava nella lotta con i soli propri mezzi, giunge oggi a rendersi conto della necessità di unire i suoi capitali con i capitali degli altri, formando così i gruppi di capitali indispensabili nelle grandi imprese industriali. D’altro lato gli operai distaccati dalla terra, i produttori di eccedente economico, attraverso la collaborazione cooperativistica e le lotte sindacali, riescono ad intravedere un mondo socialmente più grande di quello del singolo individuo.
Quello stesso processo che ha spinto gli uomini alla competizione della concorrenza (che altro non è se non una previsione limitata a parti staccate del processo sociale) è causa oggi di una maggiore comprensione della interdipendenza dei fatti e tende a risolversi in una visione totale del meccanismo sociale. Insomma, il livello più elevato di ragione e di moralità sveglia, sia pure oscuramente, negli uomini in gara, una coscienza della pianificazione.
Siamo ancora nella tappa di sviluppo; ed ogni gruppo dominante si sforza di ottenere con ogni mezzo, anche brutale, per sé solo la possibilità di pianificazione: ciò che noi urbanisti chiamiamo pianificazione tendenziosa.
Di qui quel fenomeno strano e curioso, al quale assistiamo, dei vari piani particolari, staccati l’uno dall’altro, anzi contrastanti l’uno con l’altro.
In questo momento assurdo tutti pianificano, ma ancora nel proprio interesse che è individualistico, anche quando abbraccia una sfera più vasta di quella del singolo individuo, la sfera del gruppo.
Quella di oggi è dunque l’epoca della pianificazione tendenziosa a gruppi. Tutti pianificano: fanno i loro piani le città; gli Enti pubblici; le società private, i vari Ministeri; i Comuni e le Provincie; le bonifiche e le ferrovie; i Magistrati delle acque e i Provveditorati delle Opere Pubbliche; le grandi industrie e la Sanità ... ma tutti distaccati gli uni dagli altri, spessissimo anzi in lotta feroce tra loro.
In fondo tutta la nostra vita si svolge dentro a diversi settori pianificati. Ogni giorno milioni di bambini si levano al mattino alla stessa ora e vanno a scuola per studiare secondo programmi prestabiliti, su libri identici e pianificati; migliaia di treni e di piroscafi partono ed arrivano secondo i piani di orari nazionali ed internazionali. Tutti fanno piani e programmi: i padroni di casa, gli industriali, gli impiegati e gli operai ... persino la massaia agisce secondo un piano ed un certo programma quando esce per fare le sue compere!
Ma questi piani sono ancora staccati e tendenziosi: poiché, in fondo, tutti, statisti e teorici, pensano ancor oggi in termini di liberismo economico, mentre invece le istituzioni e gli organi stanno preparando, giorno per giorno e sempre più velocemente, il cammino verso una più vasta e vera pianificazione: verso la pianificazione dei pianificatori, verso il “piano dei piani”. Anche lo stato più liberale sta correndo sui binari della pianificazione ed i suoi organi lavorano pe preparare uno stato sempre più pianificato.
E qui si pone l’altro problema: quello della libertà; e si suole fare distinzione tra dirigismo e pianificazione, e si dice che lo stato deve accontentarsi di intervenire (in tutto s si vuole) ma non porre catene alla libertà.
Ma noi sappiamo che intervenire non è affatto ancora pianificare: intervenire è un fattore negativo o positivo, a seconda se incide semplicemente sulle forze sociali o se dirige le vere forze vitali senza reprimerle. Solo in questo caso l’intervento coincide con la pianificazione ed in questo quadro, e solo in questo, si può concepire la libertà.
In verità il mondo di oggi è ancora prigioniero (ben più di quanto lo fosse il mondo ellenico degli stati cittadini o quello medioevale delle città-stato) della complessità e della vastità dello sviluppo della tecnica: questo così grande fenomeno è ancora troppo grande per noi per permetterci di tradurlo in termini di civiltà e di società. E la sua complessità ha fatto sì che quella indispensabile capacità dello spirito di pensare la nuova serie complessa di azioni sia sempre più limitata ad una élite.
Occorre oggi, non solo creare una nuova e più vasta élite per una società di massa, quanto convertire questa capacità in una vera coscienza universale.
Questo è, appunto, il compito delle nostre università e quello dell’insegnamento dell’urbanistica. E la ragione del nostro convegno di docenti, da un lato, è quella di studiare i mezzi più idonei per preparare i pianificatori capaci di tradurre i programmi in piani tecnici pluridimensionali (ossia gli urbanisti); dall’altro, quella di cercare di universalizzare la capacità dello spirito di pensare e comprendere i complessi fenomeni interdipendenti della società. Ciò che è la base della pianificazione.
In questo quadro, e solo in questo, è possibile operare, ed è raggiungibile la vera, la sola libertà.
Il Presidente apre la discussione sulla prolusione del Prof. Piccinato, invitando i presenti a definire la loro visione dei compiti e della figura dell'urbanista.
Il Prof. Basile ritiene che la figura dell’urbanista come ancora è concepita oggi poteva corrispondere alle finalità che l’urbanistica si proponeva nel secolo scorso. Oggi invece questa disciplina, trascendendo i limiti della sistemazione delle città, si è gradualmente estesa fino a comprendere la sistemazione e la valorizzazione degli spazi, prevedendone l’attrezzatura e l’assetto in relazione alle loro caratteristiche e al loro funzionamento. Considera quindi che sia più appropriato adoperare il termine spazioletica per comprendere questa più vasta concezione. Ne consegue che l’urbanistica altro non è che una branca della suddetta dottrina e precisamente la spazioletica urbana, così come la ruralistica è la spazioletica rurale e la colonistica la spazioletica coloniale. Tale ripartizione è da ritenersi organica e armonica e queste considerazioni riflettono le esigenze evolutive della vita d’oggi e la crescente complessità dei problemi di organizzazione spaziale.
Il Presidente richiama i convenuti sul pericolo di estendere la discussione a campi che richiederebbero una trattazione più profonda di quella consentita dalla natura e dagli obiettivi del Convegno.
Il Prof. Muzio vorrebbe che fossero definiti i compiti dell’urbanista nel campo della pianificazione. Gli urbanisti dovrebbero avere come compito essenziale lo studio delle condizioni di vita dei cittadini e la ricerca dei mezzi per arrivare ad una pianificazione, lasciando ad altre persone il compito della organizzazione dei piani civili, economici e sociali. Il bilancio di vent’anni di urbanistica è piuttosto modesto, e troppi sono i piani redatti senza una vera base e mancanti di un criterio generale; è quindi necessario dimostrare con degli esempi validi quali devono essere le condizioni fondamentali di un piano urbanistico.
Il Prof. Marconi mette in rilievo il dramma della formazione sociale moderna: la ricerca di un nuovo equilibrio tra le esigenze dell’individuo e quelle della collettività. Negli stati comunisti si pensa che la soluzione possa trovarsi nel collettivismo integrale, a costo di sacrificare ogni aspirazione individuale; ma l’individualismo, come il collettivismo, rappresenta una attitudine insopprimibile del nostro spirito. Dalla dialettica composizione dei due verso la quale tende il mondo contemporaneo scaturisce ogni forma sociale. In Italia l’eccessivo individualismo, contro il quale urta ogni provvedimento urbanistico, infirma molte concezioni moderne attinenti alla pianificazione. Sebbene sia possibile, adeguandosi alle condizioni di fatto e ai problemi concreti, ottenere qualche risultato positivo, non vi è dubbio che per giungere a soluzioni più radicali e più vaste sia necessario dare maggior peso agli interessi collettivi. Nell’ambito dell’evoluzione dell’organismo politico-sociale del nostro Paese è inevitabile continuare nella via fin qui pero corsa, senza perdere di vista però gli obiettivi urbanistici più naturali.
L’Arch. Bottoni riprendendo le considerazioni esposte dal Prof. Muzio, sottolinea l’importanza del fatto che i piani vengano impostati con una chiara direttiva politica, sulla cui base l’urbanista sia in condizione di agire. La pianificazione non può essere suddivisa in settori tecnici particolari, in quanto il problema politico-economico-sociale deve essere risolto su un piano unitario e generale, tenendo presente le esigenze nuove che nascono con lo sviluppo della società, la quale sempre più sarà compenetrata di uno spirito umano.
Il Prof. Capocaccia premette che, non essendo egli urbanista, trova nelle parole di Piccinato un’impostazione del problema che lo fa letteralmente rabbrividire: l’urbanista, a suo parere è artista, prima ancora di essere tecnico Se mai nella figura dell’urbanista si dovrebbero ritrovare congiunte quelle dello scienziato e dell’artista; ma non è concepibile che questa figura di artista possa essere subordinata a un programma di carattere politico. Il pericolo della pianificazione quale definita da Piccinato è quello di livellare le esigenze e i bisogni dell’individuo fino a socializzare ogni ora, ogni minuto. “La tecnica livellatrice soddisfa i bisogni più comuni e generali dell’individuo, ma il nostro spirito tende ad uno sviluppo in senso opposto. Il nostro compito dovrebbe essere quello di incoraggiare la natura e non metterci contro di essa: una volta soddisfatte le esigenze della tecnica, l’urbanista ha il dovere di aumentare questa individualizzazione e differenziazione umana, la cui libertà deve essere conciliabile con quella degli altri individui. È necessario valorizzare lo spirito che non può essere pianificato e che si differenzia anche quando l’uomo vive in una casa, in un quartiere; occorre in altre parole mantenere questo bellissimo disordine nell’ordine di cui la natura è maestra”.
Il Presidente ringrazia il Prof. Capocaccia, osservando che la sua argomentazione è caratteristica di un’impostazione non tecnica: il problema, per un tecnico, è appunto quello di soddisfare questi bisogni attraverso le difficoltà inerenti al contrasto tra spirito e materia; e nell’indirizzo da darsi alla scuola si riflettono appunto queste stesse difficoltà. Il Presidente invita quindi il Prof. Piccinato a riassumere la discussione e a concludere sull’argomento.
Il Prof. Piccinato si duole che le sue parole non siano state interpretate nella loro esatta portata. L’urbanista definito come pianificatore deve essere in grado di introdurre il suo piano tecnico in un programma, ma questo programma gli è fornito dalla società. Se non c’è la base di una società già concepita che sappia esprimere i suoi bisogni, è compito dell’urbanista il suscitare questo programma prima che esso sia formulato con esattezza. L’uomo urbanista è anche uomo politico in quanto antevede, intuisce, induce.
“Quanto ai limiti del contenuto dell’insegnamento della disciplina urbanistica, non posso non convenire che nelle nostre Facoltà e nei seminari facciamo fare ai nostri allievi faticose indagini, ricerche di dati e rilevamenti statistici, quale materiale da porsi come base fondamentale per la compilazione del piano regolatore. È chiaro che questo materiale dovrebbe invece essere fornito dagli uffici statistica specializzati in tali indagini, mentre spetta invece all’urbanista l’interpretazione dei dati stessi. Ma poiché gli uffici di statistica non sono ancora in grado di mettere a disposizione dell’urbanista i dati necessari (o per lo meno i dati elaborati nelle forme utili all’applicazione interpretativa urbanistica) dobbiamo logicamente sopperire a tale carenza e spingere i nostri allievi a compiere indagini ed esplorazioni. Ciò ha anzitutto un enorme valore propedeutico e rende cosciente l’allievo che, senza la premessa dell’interpretazione e dello studio della realtà, l’opera dell’urbanista risulterebbe vana esercitazione formalistica e astratta. In secondo luogo questa ricerca contribuisce ad approfondire la conoscenza dei fenomeni ed a formulare proprio in forma urbanistica quel corpus di schede, di dati e di indagini che oggi ancora sono esplorati e redatti con tutt’altro spirito che quello necessario al nostro lavoro e, come tali, a noi sono spesso inutili.
“Rispondendo al Prof. Capocaccia, invece, mi sento in dovere di raccomandare di non fare confusione, come talvolta si fa, tra pianificazione e dittatura; Sono due cose assolutamente diverse. La pianificazione non è in se stessa né buona né cattiva, né democratica né dittatoriale. Può essere una cosa o l’altra a seconda degli uomini e della società che la applicano.
Tanto meno si deve confondere pianificazione con standardizzazione. Gli esempi da me riportati (i treni, le scuole, le industrie, le massaie, perfino gli eserciti) volevano puntualizzare il fatto che noi tutti siamo inquadrati in certe pianificazioni particolari cosiddette tendenziose; ma manca all’opposto la vera, la sola pianificazione, che ha come base il piano generale, il piano dei piani. Tutt’altra cosa che standardizzazione !
“Quanto poi al preteso incidere della pianificazione nel quadro della libertà, non v’à che da riferire ancora una folta al concetto stesso di libertà, il quale non spazia affatto nell’assoluto (sarebbe in tal caso anarchia) ma trova sempre il suo quadro nei limiti dell’interesse generale collettivo e non in quelli dell’interesse soggettivo individuale. La pianificazione urbanistica, lungi dal sopprimere la libertà, da a questa la sua sfera, ne amplia il contenuto ed il significato.
L’attuale catastrofica alluvione del Polesine à un esempio probativo delle conseguenze di una non-pianificazione. Piani parziali hanno presieduto fino ad oggi alle arginature, alle bonifiche, alle strade, all’agricoltura: ma se il problema fosse stato affrontato attraverso il generale coordinamento li tutti i suoi fattori a mezzo di un piano totale dell’intera pianura padana, coordinando il rimboschimento, il tema idraulico, la irrigazione, i bacini idroelettrici, le bonifiche, gli insediamenti umani, le industrie, ecc., non saremmo arrivati a tanto disastro, e avremmo invece dato impulso a nuove energie e a nuove attività, a una più vasta economia entro la quale avrebbe potuto esplicarsi la libertà.
È dentro a questo quadro che opera l’urbanista. E se la società non è in grado oggi di offrirgli questo quadro sta a lui suscitarlo, comporlo, collaborare alla sua formazione. Formare l’urbanista in questo senso è il compito delle nostre Università: chiarire i mezzi per la sua formazione è il tema del nostro Convegno”.
Il Prof. Dodi si richiama al problema della figura dell’urbanista definita nella prolusione del Prof. Piccinato, e propone che il Convegno si pronunci sull’opportunità di assegnare all’urbanista un compito più vasto che non sia quello esclusivamente tecnico, di fornirgli cioè, al di fuori della tecnica, una sua vera cultura. Questo dovrebbe essere il tema della seduta pomeridiana: il problema dell’estensione culturale mirante a formare un urbanista sociale capace di apportare, sia nel campo politico sia in quello amministrativo, un contributo decisivo alla creazione di una nuova coscienza urbanistico-sociale nel nostro Paese.
Il Prof. Pera desidera esprimere, anche se in ritardo, il suo pensiero nei riguardi della definizione della figura dell’urbanista. In questa figura si plasmano i compiti che vengono normalmente assegnati all’insegnamento della disciplina urbanistica; il Convegno si deve proporre di dare un orientamento più positivo a questo insegnamento e all’urbanistica nel senso lato della parola. I compiti dell’urbanista, almeno da quanto appare dalla discussione precedente, sono compiti eminentemente artistici e i suoi problemi sono di natura prevalentemente architettonica; in conseguenza la figura dell’urbanista tenderebbe ad essere prevalentemente artistica. Ma l’uomo urbanista deve affrontare nello svolgimento della sua attività, problemi non solo di natura artistica ma anche di natura tecnica, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, dell’igiene, ecc., e di questi problemi non à stato ancora parlato. La sistemazione dei vecchi centri, e in modo tutto particolare dei centri italiani, comporta problemi di natura igienica-economica o sociale che devono essere affrontati e risolti; l’urbanista quindi dovrebbe essere ad un tempo igienista, economista, sociologo. Se si tiene conto di questi multipli aspetti dell’attività dell’urbanista, si vedrà come il compito del docenti sia quello di formare urbanisti sufficientemente preparati ed informati su questi molteplici temi, che contribiscono a formare la complessa natura della professione.
Il Presidente apre la seduta dando lettura delle numerose adesioni ricevute, tra le quali un telegramma del Ministro dei Lavori Pubblici, nel quale egli esprime i suoi migliori voti per il Convegno. Propone in seguito di riassumere oralmente la relazione a stampa della Segreteria e invita quindi l’Architetto Turin a voler brevemente riassumere la parte riguardante l’insegnamento nelle scuole estere, da lui curata.
Dopo il riassunto della relazione fatta dall’Arch. Turin e prima di iniziare la discussione sul primo tema del Convegno, il Presidente ritiene opportuno che si dia lettura delle relazioni pervenute, e invita quindi gli autori presenti a riassumere personalmente e colla massima brevità le loro relazioni.
Si legge la relazione dell’Architetto Berlanda sul tema: “Corsi liberi di specializzazione”. In essa si riconosce la necessità urgente di istituire corsi di specializzazione urbanistica, per laureati in Ingegneria e Architettura. Per favorire la realizzazione pratica di tali corsi presso le Università si propone in un prossimo tempo la creazione di corsi liberi sul tipo delle numerose esperienze estere nello stesso campo. Il compito di questi corsi sarebbe quello di migliorare la preparazione individuale dei professionisti e di impostare la pratica del lavoro in gruppo. Gli scarsi risultati raggiunti dai numerosi concorsi per i piani regolatori delle piccole città dimostrano la necessità di una più vasta preparazione; simili lavori, invece, potrebbero essere vantaggiosamente realizzati come parte delle esercitazioni pratiche di detti corsi liberi, eventualmente integrati da visite e conferenze di altri studiosi. In un secondo tempo questi corsi potrebbero essere trasferiti presso le Università, contribuendo a perfezionarne le esperienze didattiche e metodologiche.
Partendo da queste considerazioni e tenendo presente che le difficoltà di ordine finanziario non dovrebbero costituire un ostacolo insormontabile, l’Arch. Berlanda invita il Convegno a sollecitare il Consiglio Direttivo dell’INU affinché provveda alla costituzione di un organismo autonomo collaterale di gestione temporanea che abbia il compito di promuovere corsi di lezioni regolari in varie città; pubblicare un corso di dispense; prestare la consulenza alle amministrazioni locali valendosi delle possibilità di produzione dei corsi sopradetti per completare con un lavoro pratico la preparazione teorica dei nuovi tecnici; raccogliere infine tutte le esperienze didattiche e metodologiche per meglio impostare l’auspicabile creazione della nuova scuola di specializzazione universitaria per urbanisti.
L’Ing. Pratelli presenta una relazione sul tema: “Dall’educazione alla scienza urbanistica”. Egli considera che l’insegnamento dell’urbanistica debba essere impartito secondo quattro diversi gradi di necessità: educativa; professionale-amministrativa, tecnica di collaborazione; tecnica di progettazione. Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, si lamenta spesso la mancanza di una “coscienza urbanistica”. È evidente che le norme della convivenza umana hanno anche aspetti urbanistici e che con l’evolversi e con il complicarsi della vita collettiva e dei principi sociali il diritto stabilisce sempre nuove leggi e regolamenti, tra cui quelli della convivenza nelle sedi. Affinché le leggi sorgano e operino occorre siano precedute e affiancate da una educazione, la cui azione, per quanto riguarda il campo specifico dell’urbanistica, dovrebbe essere esplicata nelle scuole del ciclo dell’istruzione inferiore obbligatoria e nei licei classici-scientifici. Per quanto riguarda l’aspetto professionale, l’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere impartito a tutti quei professionisti e funzionari che dovranno occuparsene, non tanto nei suoi aspetti tecnici, quanto in quelli amministrativi e giuridici. Nel terzo punto della relazione, l’autore mette in evidenza la necessità di una collaborazione di sempre più numerose categorie di specialisti nello studio preparatorio dei piani urbanistici. Le necessità dell’insegnamento presumono la determinazione delle forme di questa collaborazione, la quale sarà tanto più complessa quanto più progredita sarà la pianificazione stessa. Tra le varie specialità di esperti chiamati a collaborare nell’attività urbanistica, occupano un posto notevole i geografi che apportano il valido contributo dei loro studi sulla geografia urbana, sugli insediamenti, sulle dimore rurali, ecc. Bisogna però tenere costantemente presente che il comune obiettivo di queste diverse discipline non implica una comunità di impostazioni, e che la natura di questa auspicata collaborazione sarà estremamente complessa e richiederà un’accurata definizione. Per ciò che concerne infine gli aspetti tecnici della progettazione, questo sarà il compito specifico degli ingegneri e degli architetti. L’autore si dimostra favorevole alla creazione di corsi di aggiornamento, più adatti che non i corsi di specializzazione, ormai resi superflui dall’obbligatorietà dell’insegnamento dell’urbanistica nelle carriere d’ingegnere e d’architetto. La necessità di tale integrazione culturale si è resa evidente nei recenti convegni tecnici di diversa natura, i quali sono facilmente passati a considerare problemi riguardanti direttamente l’urbanistica.
Il Prof. Andriello dà lettura alla sua relazione a stampa dal titolo: “Sulla necessità di formare urbanisti specializzati”.
“Tra le parole più essenzialmente indicative dell’attitudine caratteristica della mente umana dei nostri tempi figura quella di “pianificare”. La nostra è un’età di piani e di programmi, più o meno necessari, più o meno attuabili; i risultati di questa attività, sono talvolta positivi, spesso discutibili, a volte puri virtuosismi brillanti ma inattuabili. Pianificare non è facile: oltre al personale intuito che deve guidare nella scelta delle migliori soluzioni, c’è bisogno di una conoscenza profonda del problema che si vuole affrontare, in tutte le sue forme e sotto tutte le sue manifestazioni. Più specificamente nel nostro campo la pianificazione comprende, come dice il Mumford, “... la coordinazione delle attività umane nel tempo e nello spazio fondata sui fatti noti riguardanti la terra, il lavoro e l’uomo”. Un’opera così complessa non può più estrinsecarsi coll’ausilio di un semplice tecnico, per quanto esperto e lungimirante; comunque sarà necessario integrare la preparazione di quest’ultimo con una serie di nozioni sociali, scientifiche, estetiche, economiche ed amministrative che gli diano chiara visione dello scopo che egli si propone. Numerosi studiosi stranieri concordano nel riconoscere la necessità di una serie di specializzazioni nel campo della pianificazione, così come si è verificato nel campo della medicina. La necessità di tale specializzazione appare evidente se si esaminano i tre stadi in cui si suddivide attualmente la fatica pianificatrice, e cioè il campo nazionale, il campo regionale e quello locale. Il pianificatore tecnico a cui sarà affidata la parte esecutiva dei piani, non potrà però impadronirsi del contributo dei suoi coadiutori (l’economista, il giurista, il geografo, i diversi esperti tecnici in agricoltura, in comunicazioni, ecc.) se con la sua precedente preparazione non si sarà messo in grado di comprendere e di delimitare l’entità e la portata dei fenomeni a cui tale contributo si riferisce. Il compito dell’urbanista è oggi molto più ampio e complesso di quanto s’intendeva fino ad una generazione fa. Con l’affermarsi delle nuove teorie che sostituiscono al concetto puramente tecnico ed architettonico della sede umana quello organico ed evolutivo, l’urbanista deve possedere l’attitudine a comprendere e ad interpretare i bisogni dei suoi concittadini. Solo immergendo tutta la disciplina urbanistica nello studio dei reali bisogni dell’uomo, sarà possibile evitare i pericoli di un punto di vista rigidamente tecnico o quello di una visione “cosmetica” (o, etimologicamente, ornamentale) egualmente sterile e superficiale.
È necessario conferire allo studioso quell’attitudine diagnostica che lo renda capace di afferrare a prima vista caratteristiche del caso che egli deve trattare. A tale scopo secondo il Lock, sono necessari tre stadi: il primo, di elementare civicità o “citizenship”, il secondo di investigazione o “survey”, il terzo infine di raccolta e di elaborazione delle scienze teoriche. In ogni momento sarà sempre necessario tener presente che lo studioso deve costituire un legame ideale tra il pubblico da una parte e le pubbliche amministrazioni dall’altra. Indipendentemente dall’opportunità dell’insegnamento dei principi urbanistici nelle altre Facoltà che non siano quelle di Architettura e Ingegneria, e della costituzione di appositi corsi post-laurea per coloro che s’indirizzano a carriere tecniche-amministrative, noi insistiamo sulla necessità assoluta di fornire ai laureati sia in ingegneria che in architettura un corredo completo di cognizioni sulla pianificazione oltre che su quella fisica, nonché su tutte le scienze ausiliarie”. II relatore propone un corso biennale suddiviso in due parti: una parte teorica comprendente un gruppo di materie culturali e uno di materia tecniche, e una parte pratica, consistente in applicazioni sulle materie del secondo gruppo.
L’Ing. Beguinot, nella sua relazione: “Sull’insegnamento e sull’istituzione di nuovi corsi”, si riferisce innanzi tutto alla specializzazione, fenomeno che si osserva nello sviluppo di tutte le scienze durante gli ultimi due secoli, e che ha portato alla formazione di una quantità di materie di studio e d’insegnamento che prima erano semplici capitoli di altre discipline. Di fronte alle numerose manifestazioni di tale movimento, non c’è da stupirsi che gli studiosi di urbanistica sostengano che l’insegnamento della loro materia debba diffondersi ancor più nei vari rami di scuole ed essere maggiormente approfondito in quelle in cui viene attualmente impartito. L’urbanistica, racchiusa un tempo nella sua stretta definizione di “arte di costruire città”, ha seguito una grande evoluzione che ha esteso il suo campo d’interesse e le ha conferito dignità di scienza. Tuttavia esiste allo stato attuale una sensibile soluzione di continuità tra l’evoluzione della scienza, della tecnica e dell’arte urbanistica, da un lato, e le pratiche realizzazioni dall’altro; è necessario pertanto diffondere la coscienza urbanistica e superare l’incomprensione e gli ostacoli che si frappongono nell’attuazione pratica di questa disciplina. Nel campo delle proposte di ordine pratico il relatore considera opportuno estendere l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Ingegneria a due anni invece di uno; di impartire poche lezioni, in forma di premessa introduttiva di tale materia nelle scuole pre-universitarie; infine di sviluppare il concetto della diffusione della coscienza urbanistica in tutti i ceti della popolazione, in modo da rendere viva, attiva e palpitante la cosidetta politica urbanistica.
Il Presidente ritiene che sarebbe necessario concretare in forma un po’ meno vaga i concetti espressi nelle singole relazioni. Invita quindi i docenti ad esprimere la loro opinione sui vari punti del programma del convegno ed a proporre, sulla base della discussione degli elementi fondamentali, che dovrebbero costituire l’insegnamento dell’urbanistica, un migliore coordinamento dei programmi e dei piani di studio.
Il Prof. Muzio espone le sue idee a proposito dei programmi di studio delle Facoltà di Architettura e di Ingegneria, nelle quali può vantare una lunga esperienza. A suo avviso il numero delle materie di queste due carriere è eccessivo e sarebbe controproducente aumentarlo. Il compito della nostra scuola non è di fare degli urbanisti; dobbiamo solo cercare di intensificare questo studio per agevolare l’educazione degli urbanisti e creare le condizioni più propizie alla loro formazione. Il miglior mezzo per realizzare questi scopi sarebbe quello della creazione, presso le Facoltà di Architettura e di Ingegneria, di Seminari di Urbanistica post-laurea, i quali non dovrebbero necessariamente conferire un titolo di studio o un diploma di urbanisti. Attraverso questi istituti di urbanistica, ai quali sarebbero ammessi i migliori laureati delle facoltà, si potrebbe procedere a una raccolta preziosa di materiale ed a un coordinamento effettivo dello stesso, per una miglior comprensione dei problemi urbanistici. L’impostazione delle scuole straniere, tra le quali tipiche le americane, è una conseguenza della coscienza urbanistica dei Paesi; da noi l’attività di propaganda per la formazione di questa coscienza nel pubblico dovrebbe partire dalle nostre Facoltà, ma estendere la sua azione a tutti gli stadi dell’educazione, da quello elementare, attraverso il medio, fino all’universitario. Noi dobbiamo cercare d’intensificare lo studio dell’urbanistica istituendo dei laboratori, internati, o seminari di urbanistica in modo da ottenere una specie di specializzazione spontanea; da questi istituti dovrebbero poter uscire ogni anno due o tre urbanisti capaci di affrontare i problemi del nostro Paese.
Il Prof. Muzio si dimostra contrario alla creazione di corsi di perfezionamento, suggeriti da altri convenuti, perchè considera che questo genere di corsi viene per lo più frequentato da persone la cui sola ambizione è quella di aggiungere un titolo o un diploma al loro curriculum. Noi abbiamo bisogno di urbanisti esecutori, di funzionari dell’urbanistica: e questo è un compito che spetta più alle Facoltà di Ingegneria che a quelle di Architettura. Occorrono dei tecnici capaci di raccogliere e interpretare il materiale cartografico e statistico necessario all’urbanistica; questi tecnici non hanno bisogno di essere dei veri e propri urbanisti, in un senso creativo, ma piuttosto dei funzionari, dei veri e propri “sergenti dell’urbanistica”. Queste due premesse: la creazione di una profonda coscienza urbanistica e la ricerca del materiale di studio, sono le condizioni indispensabili per un effettivo progresso degli studi che qui ci interessano; senza di esse mancherà il tessuto fondamentale per una effettiva realizzazione dell’attività urbanistica.
Il Presidente ringrazia il Prof. Muzio per la sua brillante esposizione, frutto della sua nota esperienza e del suo maturato pensiero urbanistico condiviso da molti dei presenti, ed invita altri docenti ad esprimere la loro opinione in proposito.
Prende la parola il Prof. Testa. Egli ricorda di essere l’unico, tra i presenti, dei professori della Scuola di Perfezionamento di Urbanistica creata a Roma negli anni 1935-1937; questo fatto però non gli impedisce di apportare la sua opinione sfavorevole alla creazione di una nuova scuola, di simili caratteristiche. Le scuole professionali di perfezionamento sono generalmente frequentate da un numero estremamente limitato di giovani, e la scuola di Roma non sfuggì a questo destino; nella società odierna i giovani professionisti hanno bisogno di vivere e di guadagnare e non possono quindi disporre del tempo necessario per gli studi cosidetti di perfezionamento. L’esempio delle borse di studio che così spesso vanno deserte conferma questa triste realtà. Si rende quindi necessario creare questo perfezionamento nel seno stesso delle scuole che formano gli individui chiamati domani ad affrontare e risolvere i problemi urbanistici, e inquadrare questo programma in quello più vasto di una riforma della scuola. In un certo senso noi possiamo fare a meno dell’urbanista, ma non della conoscenza delle nozioni urbanistiche; architetti ed ingegneri non possono svolgere coscientemente la loro attività senza avere la base di alcune nozioni fondamentali in proposito. È necessario integrare lo studio dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura e di Ingegneria e superare il semplice studio di acquisizione di un certo numero di nozioni o teorie, totalmente insufficienti per affrontare la realtà dei problemi urbanistici. Una delle lacune più frequenti, per esempio, nella formazione degli urbanisti, è quella riguardante i problemi di natura giuridica o amministrativa; troppi sono gli esempi di ingegneri ed architetti che affrontano problemi edilizi senza conoscere le norme o gli aspetti amministrativi che li regolano. Non esiste nell’insegnamento universitario italiano una materia obbligatoria di legislazione urbanistica. Nella Facoltà di Architettura di Roma, fra le molte materie, ce ne è anche una chiamata “materie giuridiche”, la quale per volontà specifica dei dirigenti della Facoltà è stata trasformata in “politica urbanistica”; ma è questo un corso complementare a carattere facoltativo. In altre parole si può dare il caso (ed è anche troppo frequente) di architetti che conseguono la laurea senza la conoscenza delle materie giuridiche e che, posti di fronte a problemi di questo carattere, sono costretti a ricorrere al consiglio di specialisti e legali. Le conseguenze di questa mancanza di nozioni tecniche amministrative possono essere disastrose; errori apparentemente insignificanti possono recare danni immensi ai privati o alla pubblica amministrazione, come lo dimostrano numerosi esempi quotidiani. In conclusione, il Prof. Testa si manifesta contrario, per il momento, alla creazione di corsi di perfezionamento, i quali potranno semmai venire in un secondo tempo, sulla base di una salda coscienza urbanistica. Occorre piuttosto intensificare l’insegnamento nelle nostre Facoltà ed estenderlo, oltre alla tecnica della progettazione urbanistica, alla vera e propria politica urbanistica, comprendente le nozioni fondamentali di problemi economici, amministrativi e giuridici, che stanno alla base di tutte le soluzioni urbanistiche.
Il Prof. Caracciolo ritiene che l’attività didattica degli Istituti universitari possa scindersi in due parti: una scientifica ed un’altra sociale. Gli elementi di studio sono purtroppo disparati e vengono esaminati successivamente in forma spesso caotica. Attraverso un disciplinamento dei nostri programmi di studio e un coordinamento più effettivo delle diverse attività degli istituti di insegnamento universitario, si dovrebbe poter conferire ai programmi di studio una certa concretezza pratica, tale da preparare i giovani al passaggio dall’attività speculativa dell’università a quella pratica della professione. È necessario stabilire un metodo di lavoro unitario e realizzare un effettivo avvicinamento degli insegnanti; a questo scopo si potrebbe creare ma commissione incaricata di pianificare i programmi di studio e di coordinarli sia dal punto di vista didattico che da quello strettamente scientifico. È questa una piccola proposta di carattere pratico che il Prof. Caracciolo presenta alla considerazione degli altri docenti.
Risponde il Prof. Piccinato, il quale riconosce di non possedere le doti forensi del Prof. Testa per poter legittimamente assumere la difesa degli urbanisti; si propone invece di portare un atto di accusa agli istituti che preparano gli amministratori e i giuristi. Se da un lato è giustificata la protesta per la mancanza di conoscenze della organizzazione amministrativa e legislativa nell’insegnamento degli istituti che preparano i tecnici, altrettanto ingiustificata e sentita è la carenza quasi totale della conoscenza dello spirito dell’urbanistica nelle sedi degli amministratori e dei giuristi. È appunto il tecnico urbanista che chiede nuova legislazione per poter realizzare i nuovi ordinamenti tecnici: è lui che puntualizza il suo fine tecnico, al quale il giurista deve apprestare il mezzo giuridico per raggiungerlo. Giuristi ed amministratori si difendono costantemente contro i postulati della nuova urbanistica, trincerandosi dietro i ”principi sacri” della legge del 1942, la quale pone dei limiti che non consentono a noi tecnici di raggiungere gli obiettivi indispensabili: noi domandiamo che essi si rendano conto del nuovo spirito della disciplina e dei nuovi nostri bisogni. Se non si vuol giungere ai corsi di specializzazione urbanistica, è indispensabile almeno che sia diffusa la conoscenza dello spirito dell’urbanistica e dei suoi postulati in tutte le altre discipline.
Il Prof. Pera procede a dar lettura della sua relazione contenente le proposte per il coordinamento e il miglioramento dell’insegnamento nell’attuale piano di studi. L’attuale insufficienza della preparazione tecnica e culturale richiesta agli urbanisti si deve attribuire prevalentemente al fatto che nelle nostre Facoltà d’Ingegneria l’insegnamento della tecnica urbanistica è stato introdotto circa venti anni addietro. Un ventennio ha rappresentato, nel campo urbanistico, un evolversi così rapido della situazione, un maturarsi dei problemi esistenti e di nuove esigenze, che l’insegnamento inizialmente sufficiente oggi appare totalmente inadeguato; peraltro questo fenomeno si osserva in tutti i campi dell’insegnamento tecnico.
Un primo passo diretto a mitigare l’inadeguatezza dell’insegnamento urbanistico alle necessità dei tempi correnti può essere compiuto attraverso un più stretto coordinamento dei corsi esistenti nelle Facoltà, mediante più intimi contatti con le materie affini (architettura tecnica, architettura e composizione architettonica, costruzioni stradali e ferroviarie, igiene, materie giuridiche, ecc.); mediante lo scambio dei programmi di corso tra i diversi docenti in modo da colmare le eventuali lacune; infine mediante la collaborazione dei docenti nelle applicazioni pratiche e nelle tesi di laurea. Tale integrazione è già in corso di realizzazione presso la Facoltà di Ingegneria di Pisa, e ha portato a risultati veramente notevoli. Per giungere ad una sempre più perfetta integrazione culturale dei futuri urbanisti, si potrebbe arrivare, nel campo applicativo conclusivo delle tesi di laurea, all’inserimento di un esperto per ogni materia affine, in tal modo che ogni problema possa venire trattato e sviscerato sotto i suoi molteplici aspetti. Accanto a questo più stretto coordinamento dei corsi esistenti si potrebbe conseguire un miglioramento culturale procedendo a sfrondare il corso base da tutto ciò che ne abbrevia e ne riduce il necessario sviluppo. Con questa duplice azione sarebbe possibile giungere ad una più completa e perfetta preparazione degli urbanisti che si vanno maturando nelle nostre scuole.
Il Prof. Quaroni, dopo aver polemizzato con gli assertori della identità tra architettura ed urbanistica, ed aver portato come prova della sua tesi la totale assenza dal convegno di coloro che sostengono appunto quella identità, passa ad esaminare l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura. “Scopo principale delle Scuole di Architettura è quello di formare la coscienza dell’architetto. Ma quale altra via si potrà seguire per raggiungere questo scopo se non quella di portare la mentalità dello studente a contatto con quella che è la realtà della vita per la quale dovranno dare il loro contributo di lavoro? L’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere appunto questa azione di sensibilizzazione alla vita degli uomini senza la quale è impossibile progettare; l’urbanistica è la preparazione all’architettura. Purtroppo, però, il tempo a disposizione è pochissimo, e viene tutto impiegato a smantellare la costruzione artificiosa dell’architetto astratto operata in tre anni di insegnamento a base esclusivamente scientifica o artistica, senza posto per l’uomo”. Pur dichiarandosi d’accordo col Professor Testa sulle materie giuridiche come insegnamento fondamentale, reagisce però alla proposta di questo di cambiare il nome della materia in “politica urbanistica “.
Il Prof. Valle desidera associarsi a quanto ha detto il precedente oratore sulla durata dei corsi di urbanistica, così come alle proposte dei professori Testa e Piccinato per quanto riguarda le lacune dei presenti programmi di insegnamento. È evidente che occorre da un lato che gli organi amministrativi capiscano i principi dell’urbanistica, dall’altro che i nostri tecnici conoscano gli aspetti amministrativi, legislativi, ecc. I vantaggi che da tale approfondimento delle nozioni legislative risulterebbero per la pratica professionale sono troppo evidenti perchè vi sia bisogno di insistervi. In un altro piano di considerazioni, si osserva spesso una profonda incomprensione tra architetti e ingegneri, tutte le volte che si debbono affrontare insieme problemi di carattere generale; questa incomprensione è tanto più nociva in quanto ha luogo tra professionisti i quali hanno bisogno di più frequenti contatti nel campo dell’attività urbanistica. La natura dell’urbanistica esula oramai dal piano urbano, e ogni sua nuova estensione implica maggiori e più profondi contatti tra l’architetto-urbanista da un lato e le diverse specializzazioni di ingegneri dall’altro. Purtroppo questa collaborazione non si manifesta nemmeno nel campo dell’insegnamento dove malgrado le numerose materie comuni ad ambedue le discipline, ogni Facoltà costituisce un compartimento a sé. È necessario eliminare fin dalla base questo fenomeno di incomprensione reciproca e di naturale diffidenza tra architetti ed ingegneri, che è evidente in tutti gli stadi dell’insegnamento, particolarmente nelle Commissioni miste per l’esame delle tesi di laurea. Per riassumere, la nostra azione si deve esplicare in due campi: 1° estendere l’insegnamento dell’urbanistica e delle materie affini di natura amministrativa, giuridica, ecc., dove ciò sia possibile; 2° estendere l’insegnamento delle nozioni fondamentali e dei principi dell’urbanistica a tutte le specializzazioni dell’ingegneria affinché il fenomeno d’incomprensione sopra osservato tenda a sparire e dia luogo invece ad una valida collaborazione sul piano del lavoro comune.
Il Prof. Dodi - senza contraddire quanto proposto dal collega Prof. Muzio - ritiene che l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura potrebbe essere facilmente portato a tre anni, senza con questo aumentare il numero totale di materie. Difatti il corso di scenografia potrebbe esser fuso in un unico corso con quello di urbanistica, trasferendo in tal modo la trattazione di alcuni problemi dal 4° al 3° anno. Per quanto riguarda l’estensione dell’insegnamento e della conoscenza dell’urbanistica nelle altre Facoltà, il Prof. Dodi si dichiara perfettamente d’accordo sulla necessità di tale provvedimento e cita in proposito una sua personale esperienza, acquisita durante un corso di lezioni di urbanistica impartite, presso il Commissariato di Sanità e d’Igiene, a medici il cui interesse per i problemi della materia si è dimostrato addirittura appassionato. Per ultimo il Prof. Dodi si preoccupa della tendenza, osservabile presso ingegneri civili edili, ad identificare l’urbanistica con l’edilizia cittadina. L’urbanistica è una disciplina di carattere formativo sociale, e non soltanto un ammasso di cognizioni; ed è preoccupante il fatto che i giovani laureati in ingegneria si credano in grado di affrontare, da un punto di vista urbanistico, senza la necessaria base colturale generale, la soluzione di problemi stradali, edilizi, ferroviari, ecc.
Il Prof. Chiodi confessa la sua perplessità di fronte allo svolgimento della discussione che, partendo dalle alate premesse del Prof. Piccinato, è a poco a poco discesa alla considerazione di problemi pratici ed a difficoltà minute dell’insegnamento dell’urbanistica nelle nostre scuole. Occorre riportare il problema su un campo molto più largo ed impostare la questione da un punto di vista urbanistico generale e non solo tecnico. Vogliamo estendere l’insegnamento in altre scuole? È da augurarsi che si vada formando una certa coscienza urbanistica, ma siamo proprio convinti che quattro o cinque lezioni di urbanistica in un corso di legge, di medicina o di agraria, possano veramente formare una “coscienza urbanistica”? È da temere che l’urbanistica insegnata al di fuori del nostro diretto controllo possa portare a risultati diversi da quelli che noi vorremmo e che Piccinato auspica. Occorre anzitutto che gli insegnanti esperti nella scuola esaminino l’essenza fondamentale di questa disciplina, per poi passare a considerare quali siano gli elementi che debbono formare parte del suo insegnamento. Il Prof. Chiodi si associa al Prof. Piccinato nella visione più ampia, sociale ed umana dell’urbanista, ma tiene a far presente che questi concetti debbono essere impartiti a giovani che pur essendo nell’età migliore per apprendere, forse non posseggono ancora la maturità necessaria per assimilare a fondo tali principi. “La scuola ha certi suoi limiti naturali: essa può insegnare i metodi di lavoro, ma non può insegnare a fare il lavoro. In qualunque campo un giovane laureato è un inesperto per definizione e per età; e se questo è vero per tutte le discipline, quanto più vero sarà per l’urbanistica che richiede da chi la pratica una conoscenza del mondo che i giovani - beati loro! - ancora non hanno. Le nostre aspirazioni sono forse un po’ esagerate; si potrà discutere se invece di un anno sarà meglio farne due o tre, se l’insegnamento dell’urbanistica debba essere esteso a tutte le scuole d’ingegneria civile (sperando che cessi l’assurda divisione dell’ingegneria civile in civile edile, idraulica, e trasporti, ecc.). Che cosa hanno imparato questi ingegneri dei trasporti nella loro pseudo specializzazione ? Nulla che noi non fossimo in grado di fare ai nostri tempi senza bisogno di un titolo speciale. È da sperare per prima cosa che la scuola d’Ingegneria Civile torni ad essere una scuola d’Ingegneria Civile unica, e che quel tanto di urbanistica che è giusto insegnare agli ingegneri debba essere realizzato con un senso di misura e di opportunità”. Tenendo presente le inevitabili limitazioni imposte dall’insegnamento da impartirsi ad una determinata categoria di tecnici, si potrà discutere la convenienza o no di insegnare l’urbanistica in due otre anni. Il Prof. Chiodi si dimostra favorevole piuttosto a un corso di due semestri distribuiti su due anni ; questo sistema permetterebbe allo studente di assimilare più proficuamente le nozioni apprese nel primo corso. È d’uopo tener presente la limitazione dei compiti dell’insegnamento e i pericoli dell’estensione di questa disciplina a categorie di persone che non sono in grado di assimilarne i principi culturali più profondi, come per esempio i periti tecnici o i geometri. Tutt’al più si potrà, nella parte relativa alle costruzioni, insegnare ai geometri quello che dell’urbanistica può servire a questo scopo; ma è consigliabile osservare la maggior prudenza in questo campo.
Sono parimenti evidenti le difficoltà che s’incontrano per la realizzazione pratica dei corsi di perfezionamento o di specializzazione. A meno che questi corsi, tenuti presso gli Istituto di Urbanistica, siano corredati da borse di studio, essi correranno la stessa sorte di tutti gli altri corsi per laureati delle nostre Università, i quali sono frequentati da laureati che non hanno ancora trovato un impiego e che disertano il corso man mano che riescono a trovare una sistemazione. “Per concludere: lasciamo pure che altri insegnamenti facciano, se credono, delle incursioni nel campo urbanistico, ma dal nostro canto tentiamo di sviluppare, nei limiti di tempo e di capacità, tutto ciò che già si fa nelle nostre scuole. Guardiamoci soprattutto dal mettere l’urbanistica in mano a tecnici e periti che non sono in grado di fame il miglior uso”.
Interviene il Prof. Michelucci per chiarire la posizione critica di alcune specializzazioni di Ingegneria, ad esempio gli ingegneri industriali, i quali dopo un anno di architettura tecnica si credono senz’altro in diritto di firmare progetti di architettura, protetti dalla legge e forti della loro convinzione di poter assolvere a questo compito sulla base della loro scarsissima preparazione. Un simile fenomeno (e anche su maggior scala) si osserva tra gli ingegneri civili: c’è da domandarsi quindi se impartendo loro un anno di urbanistica essi non si sentiranno in condizione di realizzare progetti urbanistici, così come si ritengono in grado di praticare l’architettura sulla base di un solo corso in materia. La superficiale conoscenza di una disciplina porta alla pericolosa presunzione di saper fare, e questo è un problema molto più generale e caratteristico di tutta l’attività dell’ingegneria. Il problema urbanistico è estremamente complesso, e il Prof. Michelucci si dichiara profondamente perplesso circa l’insegnamento di questa disciplina: a rigore egli ammette di non insegnare afflitto l’urbanistica!
Per quanto riguarda il problema di estendere l’insegnamento dell’urbanistica in altre scuole, il Prof. Michelucci rammenta la sua esperienza presso la Scuola di Servizio Sociale di Firenze, i cui allievi, dopo due anni d’insegnamento, dimostravano un grandissimo interesse per l’urbanistica e perfino un notevole spirito critico. I risultati di queste esperienze così riuscite si vedranno più tardi nell’attitudine che questi laureati dimostreranno nei confronti dei problemi di carattere urbanistico che essi dovranno affrontare. Questo fatto è senz’altro positivo; ma è pur sempre necessario tener presente i limiti di questo interesse e i pericoli inerenti a uno sconfinamento in campi e discipline dei quali si posseggono solo nozioni sommarie.
Nel caso specifico delle Facoltà d’Ingegneria, vi è il problema degli Ingegneri Industriali che, a differenza degli altri Ingegneri, arrivano al corso di Architettura Tecnica senza alcuna preparazione in materia; essi si trovano così a dover realizzare il progetto di una casa, o a volte perfino di un ospedale, senza nessuna delle conoscenze fondamentali dei caratteri distributivi o elementi costruttivi degli edifici.