La notizia vola negli ambienti politici e culturali bolognesi, si diffonde arricchendosi di particolari non controllabili. La decisione di smantellare l’ufficio sarebbe partita qualche mese fa dalla federazione dei DS, e avrebbe colto di sorpresa la Margherita. Ne sarebbero state liete le imprese immobiliari (tra cui quelle potentissime della Lega delle cooperative), i cui interessi non avrebbero potuto espandersi se si fosse consolidata la politica di contenimento del consumo di suolo promossa dal Piano territoriale provinciale. Ridurre il peso dell’ufficio e “burocratizzarlo” avrebbe eliminato un elemento di confronto politico e culturale, rischioso per alcune scelte municipalistiche che starebbe assumendo il governo Cofferati.
Un fatto è certo. Piero Cavalcoli, contro la sua volontà, è estromesso dalla gestione dell’ufficio (il Settore pianificazione territoriale e trasporti) che ha creato e diretto per 15 anni e che aveva avviato una trasformazione radicale dell’assetto del territorio bolognese. Il personale tecnico, raccolto e “allevato” con pazienza e divenuto, nel suo complesso, un modello per l’Italia, ha cominciato a essere dirottato verso altri uffici della provincia o in altre istituzioni. Un’esperienza di pianificazione intelligente, capace di utilizzare tutte le leve dell’intervento pubblico sul territorio, di promuovere la collaborazione tra le amministrazioni comunali fino ad allora divorate dal municipalismo, di tradurre in concrete decisioni amministrative un disegno di riduzione della congestione, di arresto dello sprawl, di protezione effettiva (e non solo a chiacchiere) delle risorse territoriali – un’esperienza unica in Italia e all’avanguardia in Europa - viene ridotta al rango degli uffici delle “vecchie province”: quelle che con la riforma della legge 142/1990 si era tentato di rinnovare ab imis, assumendo quale loro centro la responsabilità della pianificazione territoriale.
Ciò che sta avvenendo a Bologna, ha per l’Italia lo stesso significato che ebbe per la Gran Bretagna della Tatcher lo smantellamento del Greater London Council. È la rivincita degli interessi municipalistici (e in primo luogo dei municipi più grandi) sugli interessi di un’organizzazione equibrata delle risorse territoriali. È la rivincita degli interessi economici di breve periodo, basata sullo sfruttamento immediato della risorsa fondiaria, sugli interessi aperti al lungo periodo della tutela dell’acqua, del paesaggio rurale, della natura. È la rivincita, infine, dalla politique politicienne su una visione strategica, di ampio respiro, dei valori e della vita della comunità
Ma ciò che avviene attorno al bunker nel quale sembra assediato Cofferati, è fonte di grave preoccupazione anche al di là caso del specifico. Perché significa che le forze che aspirano a sostituire Berlusconi nel governo dello Stato patiscono alcune insufficienze gravi di intelligenza politica: la concezione del funzionario pubblico, il civil servant, come figura subalterna al potere (icastica la vignetta di Bucchi), l’incapacità di aprire una discussione di merito su strategie territoriali che non si condividono (e che si preferisce annullare surrettiziamente mediante interventi di mero potere), l’utilizzazione di “linee di comando” tipiche dei peggiori risvolti di quella Prima Repubblica che tutti sembrano deprecare, ma di cui troppi rinnovano i (ne)fasti.
Lo testimonia limpidamente la legge per il governo del territorio che la Regione Friuli-Venezia Giulia si appresta ad approvare. Ed è significativo che il segno più evidente del disastro nazionale venga da una regione nella quale plurisecolari tradizioni di saggio governo imperiale sembravano essersi reincarnate in un nuovo tessuto culturale.
La legge della giunta Illy non entrerà probabilmente mai in vigore, tanti sono i motivi di illegittimità costituzionale di cui è intrisa (si veda in proposito l’arduo ma precisissimo documento in proposito di Luigi Scano). Conviene comunque segnalarne alcuni aspetti più gravi perché sono l’espressione estrema, e più scollacciata e rozza, di posizioni e atteggiamenti che sono abbastanza diffusi.
La legge in corso di approvazione dichiara che, per quella regione, sono sullo stesso piano “finalità strategiche” cui viceversa la Costituzione, l’ordinamento giuridico della Repubblica e la coscienza civile attribuiscono ben differenti gerarchie e priorità. Per i governanti del Friuli-Venezia Giulia sono sullo stesso piano (“equiordinate”) “la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico, ecc.” e “le migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitività del sistema regionale”.
In altri termini, l’interesse della tutela di un bosco, di una falda idrica, di un paesaggio agrario, di un corso d’acqua, di un centro storico, di un terreno franoso o carsico, di una zona archeologica è del tutto equivalente all’interesse per la realizzazione di una nuova zona industriale o la costruzione di un’autostrada o l’escavo di un porto o l’edificazione di un villaggio turistico, se questi contribuiscono alla “crescita economica” (per l’amor di Dio “sostenibile”) e della “competitività regionale”.
Questa affermazione di principio trova fedele traduzione in tutto l’impianto della legge: nella definizione dei contenuti della pianificazione ai differenti livelli, nei rapporti tra questi, nelle procedure confuse e opache.
Prime vittime della nascente legge friulano-giuliana il paesaggio e i beni culturali, e l’intera legislazione statale che, dalla legge Galasso al testo unico Melandri al Codice Urbani-Buttiglione, li tutela.
Il contrasto con il Codice spira da ogni articolo del rozzo testo. Come accade anche in altri contesti regionali (ad esempio in Toscana) si capovolge il rapporto tra legge statale e legge regionale.
Così, ad esempio, la legge statale dice che un piano territoriale regionale, per avere valore di piano paesaggistico, deve disciplinare sia gli immobili vincolati o con specifici provvedimenti amministrativi, oppure ope legis, sia ogni altro immobile, compresi quelli ricadenti nelle aree gravemente compromesse o degradate. Precisa che il piano paesaggistico deve riferire le sue regole sia a elementi territoriali, individuati in base ai loro caratteri identitari distintivi (boschi, praterie, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, paludi, ecc. ecc.) che ad ambiti (definiti in relazione ai profili fisiografici, vegetazionali, di sistemazione colturale, di modello insediativo, e simili, valutati anche in relazione alle dinamiche).
Invece di specificare, dettagliare, o almeno riprendere tali formulazioni, la legge regionale si limita a dichiarare che “il PTR esprime altresì la valenza paesaggistica di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 42/2004 e successive modifiche, e contiene prescrizioni finalizzate alla tutela delle aree di interesse naturalistico e paesaggistico di cui alle direttive comunitarie e relativi atti di recepimento, nonché alle norme di legge nazionale e regionale”.
Per la Regione Friuli - Venezia Giulia le leggi dello Stato, anche in materie che sono costituzionalmente di competenza e responsabilità del livello più alto della Repubblica, anziché rigorosi argini che fondano l’autonomia e la responsabilità regionali, sono considerate unicamente musica di sottofondo. Così come l’intesa tra Regione e ministeri competenti non è lo svolgimento di un lavoro comune di definizione delle regole e delle attività più idonee a tutelare i valori d’interesse nazionale presenti nel territorio della regione, ma semplicemente l’apposizione di qualche firma rituale su un protocollo generico.
Lo Stato non conta, conta solo la Regione. Analogamente, non conta la Provincia: questa si occupi solo di strategie e quadri conoscitivi, che sono – nella logica friulano-giuliana – argomenti che poco incidono sulle concrete trasformazioni territoriali. Per Illy, il suo team e la sua maggioranza la pianificazione d’area vasta non esiste: non deve esistere. Spazzando via d’un sol colpo decenni di elaborazione e sperimentazione (cui in anni lontanissimi la regione aveva fruttuosamente concorso), dimenticando le mille ragioni che militano a favore della necessità di disporre di un definito livello di pianificazione intermedio tra quello regionale e quello comunale, il legislatore ha infilato una delle sue perle più preziose.
Ha affermato che la pianificazione sovracomunale la possono fare tutti: i comuni capoluoghi (bella, questa, che la pianificazione sovracomunale la fanno i comuni!), le città metropolitane, le comunità montane, le unioni di comuni, le neonascenti “associazioni comunali di pianificazione”. Senza stabilire criteri, procedure, garanzie, contenuti.
Il disegno complessivo è chiarissimo.
Lo stato non esiste, e con esso liquidiamo anche paesaggio e ambiente e teniamoci le mani libere per costruire autostrade, ferrovie, viadotti, tunnel, porticcioli, impianti di degassificazione, villaggi turistici e quant’altro, per ogni dove.
Chi comanda è la regione, che all’interno del suo dominio non vuole concorrenti. Via quindi le province.
Restino solo i comuni: a questi le spoglie succose della gestione dei “diritti edificatori” (un’altra aberrazione giuridica introdotta a piene mani nel testo legislativo), e in cambio ci lascino fare senza proteste (e magari reprimendo gli eventuali protestatari) tutto ciò che discrezionalmente riterremo “di interesse regionale”. Così abbiamo regolato i conti con il sistema dei poteri democratici.
La fortuna è che il testo è così sgrammaticato, confuso, farcito di grossolanità e illegittimità che difficilmente sarà vitale.
La sfortuna è che molte delle posizioni espresse sono condivise in porzioni consistenti del mondo politico: in una logica bipolare, tant’è che Forza Italia ha espresso interesse per il prodotto del team del presidente Illy.
Una persona soprattutto dobbiamo ringraziare, per ciò che ha fatto molto concretamente: il senatore Sauro Turroni, Verde, eletto nel Collegio di Prato per la lista dell’Ulivo. È stato (a nostra conoscenza) l’unico parlamentare che non abbia ceduto né alla distrazione né alle lusinghe bipartisan, l’unico che abbia dimostrato di possedere una consapevolezza piena della posta in gioco e la capacità di convincere i suoi “compagni di laticlavio” a smorzare gli entusiasmi e rifiutare le accelerazioni. Grazie. Speriamo di rivederlo nel Senato che uscirà dalle elezioni del 9-10 aprile.
Il lavoro da fare sarà molto, e uno spazio grande spetterà al Parlamento. Le idee su cui lavorare per elaborare proposte positive per un rinnovato “governo del territorio” ci sono; molte le abbiamo raccolte in questo sito, rendendo così disponibili contributi provenienti da fonti e voci diverse, ma tutte ispirate ad alcuni principi comuni: alla centralità del territorio come bene pubblico e collettivo e alla conseguente esigenza che il primato delle decisioni in materia di pianificazione urbanistica e territoriale spetti al potere pubblico: a un potere pubblico democratico non solo per le modalità di elezione degli organismi rappresentativi. Voci diverse, ma tutte consapevoli che il maggiore conflitto che avviene sul territorio, e ne decide il destino, è quello tra interessi economici nemici di ogni possibile sviluppo durevole (quali quelli della rendita) ed esigenze di una vita personale, sociale ed economica soddisfacente, in un quadro di vita gradevole e bello, in un’organizzazione territoriale razionale ed efficiente: per le cittadine e i cittadini di oggi, e anche per quelli di domani.
Consideriamoci all’inizio di un lavoro da fare: non per distruggere proposte che sono ormai morte, ma per costruire. Qualche base c’è nei programmi elettorali.
Questi (mi riferisco in particolare a quello presentato da Romano Prodi e dai leader dell’Unione) sembra volto in una direzione giusta. Possono trarsi conseguenze rilevanti e positive dall’affermazione che le politiche saranno “orientate a garantire la qualità ambientale, culturale e paesistica, la biodiversità, il risparmio del suolo, la prevenzione e la riduzione dei rischi”, come dalladichiarazione “che i principi della sostenibilità, della prevenzione e della precauzione debbano improntare tutti i piani e programmi che intervengono sul medesimo territorio, garantendo la massima trasparenza e partecipazione”. L’accento posto al risparmio di suolo suona come una novità nei documenti politici degli ultimi decenni. E così può leggersi una certa contrapposizione tra la manutenzione del territorio, che “è la più importante opera pubblica”, e l’ideologia delle Grandi Opere. (Ma perché due giorni dopo Prodi ha annunciato che la TAC in Val di Susa si farà “senza si e senza ma”?). Insomma, c’è qualche segno di speranza e d’inversione di tendenza, al confronto con l’imperante “lupismo”.
Su un punto mi sembra perciò ragionevole richiamare l’attenzione. A una prima lettura del documento, e in particolare della parte relativa alle politiche territoriali, si ha l’impressione che i diversi provvedimenti necessari al suo governo siano visti con un’ottica settoriale. Anche quando si richiama – opportunamente – la necessità di “realizzare una gestione integrata che tenga conto della biodiversità, della qualità ambientale, culturale e paesistica, del ruolo multifunzionale dell’agricoltura e insieme della qualità sociale e urbana”, si trascura ogni cenno (non vorrei per ignoranza) al fatto che gli strumenti inventati per realizzare una “gestione integrata” delle trasformazioni territoriali e urbane sono quelli della pianificazione: proprio quelli che sono stati smantellati dalle pratiche e dalle teorie del “lupismo” d’ogni colore, non solo nell’ultima stagione berlusconiana. Strumenti che da tempo meritano di essere adeguati, migliorati, perfezionati, resi aderenti alle nuove esigenze e possibilità (come molte regioni e molti enti locali si erano apprestati a fare tra il 1990 e il 2000), ma certo in primo luogo conosciuti e praticati come elementi cardine del governo pubblico del territorio.
Forse c’è un primo passo da fare - al di là delle opportune dichiarazioni di volontà e d’intenti sul terreno dei principi - per avviare una fuoriuscita dalla stagione che si vorrebbe consegnata alla storia,. Partire cioè dalla consapevolezza, e dalla ricognizione, di ciò che nel sistema giuridico italiano si è consolidato, secondo un percorso che è iniziato con Giolitti all’inizio del secolo, si è sviluppato con Bottai e Gorla nel rovinoso e tragico declinare del regime fascista, si è sviluppato (ministri sono stati Sullo, Mancini, Bucalossi, Galasso) nella stagione delle “riforme di struttura” degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso,.
Innestare insomma il nuovo nel tessuto intrecciato nei decenni in cui la preoccupazione per gli interessi generali e la tutela dei valori comuni erano più vivi e diffusi che negli anni di Berlusconi. E se proprio si vuole che il legislatore non trascuri i prodotti del Parlamento che è stato appena sciolto, invece che dalla Legge Lupi e dalle squallide e approssimative elaborazioni che sono alla sua base, sarebbe meglio, molto meglio, partire da quella diligente ricostruzione delle regole vigenti nell’ordinamento italiano in materia di governo del territorio, contenute nello “schema di decreto legislativo di ricognizione dei principi fondamentali nella materia governo del territorio”, il quale con grande modestia e con grandissima utilità si adopera nell’individuazione “dei principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui all’articolo 117, terzo comma della Costituzione, che si desumono dalle leggi vigenti”.
Lo schema di decreto legislativo, sottoposto all’attenzione delle regioni nel gennaio scorso, è stato formato ai sensi della legge 5 giugno 2003, n. 131, articolo 1, comma 4, ed è scaricabile qui.
La questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia. In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare, accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa), quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle decisioni. Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al “potere che decide”, che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta.
Mi rendo conto di dare un’interpretazione pessimistica della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una risposta “dal basso". La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro, ricercando intese dove era possibile raggiungerle,e denunciando differenze dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni.
Il rito pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le istituzioni. A partire dalla caduta del muro di Berlino e del simmetrico svelamento dei torbidi misfatti di Tangentopoli, la credibilità dei partiti è venuta meno. Contemporaneamente è nata un’altra aberrante forma di potere, che l’analisi marxiana non aveva potuto conoscere, sebbene l’avesse intuita indicando nella religione “l’oppio dei popoli” Alla religione si sono sostituiti i mass media, al predicatore di Nazaret il cavaliere di Arcore.
Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto? A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono entrambe un impegno reciproco: da pate delle istituzioni, e da parte dei membri della società.
Innanzitutto bisogna ricordare che la prima tappa, il primo requisito della partecipazione è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare compitamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione. Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione, persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si esprime la partecipazione oggi.
In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati, finché non se ne costruiscono di migliori.
Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni, lottando per il loro corretto funzionamento. (Da questo punto di vista stupisce che a Napoli, dove stanno fiorendo iniziative molteplici di partecipazione non sempre informata, nessuno abbia protestato contro la legge per il governo del territorio, approvata recentemente dal Consiglio regionale della Campania, che sottrae ai consigli la facoltà di decidere sui piani urbanistici, riservandola alle giunte). E significa che le istituzioni devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso, divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città italiane testimonia.
Questa domanda la pone Enrico Falqui, un ambientalista ricco di esperienze politiche, amministrative e universitarie, nelle sua consueta rubrica sul sito Greenplanet (28 aprile). Si riferisce in particolare al fatto che la maggioranza della cultura urbanistica italiana ha trascurato di adeguarsi ai contenuti del “Libro verde sull’ambiente urbano” del 1990 (1). Falqui riprende un analogo problema sollevato da Ugo Baldini, sull’Osservatorio dell’Archivio Osvaldo Piacentini: “l’Urbanistica dei nostri giorni sembra poco orientata alla soluzione dei problemi, poco attenta alla condivisione sociale delle scelte da operare e rischia un’autoreferenzialità che la porta verso una deriva pericolosa. Insensibile e disattenta al clima di diffidenza da parte della società civile che si sta generando, ed alla riduzione della ‘disponibilità a pagare’ che ne consegue”. Proverò a esprimere un’opinione sull’argomento, davvero intrigante, che Falqui e Baldini pongono.
Ma innanzitutto una precisazione. Falqui, citando un mio intervento al Città Territorio Festival di Ferrara, afferma che sosterrei che la pianificazione “deve essere sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni urbane di intervenire sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate”. La mia posizione è esattamente opposta. Nel mio intervento ho detto che quella citata da Falqui è la posizione di “alcuni”, tra i quali certamente non mi colloco. Dopo aver affermato, come Falqui ricorda, che la pianificazione “è oggi più che mai necessaria”, ho detto che la posta in gioco oggi è se essa debba essere competenza e responsabilità della mano pubblica, oppure la mera conseguenza di decisioni delle corporations. Ho sostenuto anzi che “scegliere decisamente il carattere pubblicistico della pianificazione” è preliminare a qualsivoglia successivo ragionamento sui caratteri, metodi, strumenti della pianificazione.
Anche a me sconcerta che la cultura urbanistica ufficiale, e anche gran parte degli urbanisti, non si schieri apertamente su questo quesito. E mi sembra che la questione del consumo di suoli – che costituisce il punto di partenza dell’argomentazione di Falqui – sia una significativa testimonianza di un simile atteggiamento. Da quasi vent’anni la politica europea combatte – sia a livello dell’Unione che a livello dei singoli stati – contro il consumo di suolo, considerandolo uno dei rischi più gravi al patrimonio culturale e sociale dell’Europa e dei suoi paesi. Dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania ai Paesi Bassi (per non parlare dei paesi scandinavi) si sono attivate politiche volte a contrastare il fenomeno.
Eppure, una parte consistente della cultura urbanistica italiana assume nei confronti del consumo di suolo un atteggiamento molto più vicino all’assecondamento che alla critica. Sia pure con modulazioni e declinazioni differenti, gli stessi autori delle prime e più interessanti analisi della diffusione urbana (Francesco Indovina, Bernardo Secchi, Stefano Boeri) non riescono a passare dall’analisi alla valutazione critica e, quando passano alle proposte, giungono a presentare quel fenomeno come inevitabile: quindi tale da dover essere, oltre che compreso, adoperato per progettare “nuove forme della città” (Secchi). E quand’anche individuino tra le cause dello sprawl la modifica degli stili di vita e l’alto valore degli affitti nelle città (Indovina), non si domandano quali disastri provocherebbe la loro tranquilla perpetuazione, nè si pongono quindi la questione se quelle cause vadano combattute. E neppure sembrano comprendere la differenza che passa tra il voler scoraggiare e contrastare la proliferazione disordinata delle urbanizzazioni, che devasta aree sempre più vaste dell’Italia, e il volerle semplicisticamente cancellare. Qualcuno di loro, particolarmente furbo, è arrivato a dire che chi combatte la dispersione urbana si propone di mandare i B 52 a demolire la “città diffusa”.
Del resto, lo stesso storico istituto nazionale degli urbanisti, l’INU, si è deciso ad avvicinarsi alla critica del consumo di suolo solo recentemente, anni dopo che erano state presentate al Parlamento nazionale proposte legislative, nate proprio da questo sito, che avevano nel contrasto al consumo di suolo il loro asse; ha continuato e continua a predicare e praticare invece proposte fondate sul riconoscimento dei “diritti edificatori” e sulla generalizzazione della “perequazione urbanistica”, quindi provocatrici di ulteriore sregolato consumo di suolo. È da moltissimi anni, del resto, che l’INU aveva abbandonato la posizione critica nei confronti dei poteri extraistituzionali che di fatto governano le trasformazioni territoriali (2)
Sarebbe però ingeneroso nei confronti della cultura urbanistica italiana (o della sua maggioranza) non guardare che cosa c’è dietro l’atteggiamento di assecondamento delle tendenze in atto. C’è qualcosa che permea l’intera società italiana (e non solo italiana), in tutte le sue dimensioni. La radice è ideologica. La caduta delle ideologie novecentesche, che tanti hanno celebrato come il segno di una nuova epoca di libertà, ha coinciso con il trionfo di un’altra ideologia, prossima a diventare egemonica, cioè a conquistare l’intero mondo senza bisogno di adoperare la forza (se non sulle masse dei “diversi”). È quell’ideologia che ha la sua premessa nella dissoluzione dell’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, e nell’appiattimento di questo sull’individualismo; l’ideologia che celebra come massimi valori il successo individuale, la ricchezza, la rincorsa dell’affermazione personale, che contano più di qualsiasi principio. Mentre parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio.
Il sapere e la coscienza delle persone non vengono più formati dalla famiglia e dalla scuola per tutti, e neppure dalla parrocchia o dalla sezione del partito, ma dallo sterminato potere mediatico. Questo è sempre più finalizzato a promuovere la voglia di spendere per comprare merci sempre più inutilmente nuove, attraverso il cui acquisto si afferma la propria individualità. Lo stesso significato delle parole (questo elementare strumento di comunicazione tra gli uomini) viene via via logorato, s’impoverisce fino a non esprime più lo spessore delle cose, ma il loro fantasma. Ne ha fatta di strada la capacità del potere mediatico di plasmare gli uomini, nel mezzo secolo che ci separa dall’analisi di Vance Packard sulle tecniche dei persuasori occulti!
È in questo quadro che occorre, a mio parere collocare la domanda di Enrico Falqui e quella di Ugo Baldini. Perciò è secondo me necessario – come sostenevo alla fine del mio intervento citato da Falqui, che qui riassumo - condurre in primo luogo una azione per superare il sistema di valori e di pratiche sociali che attualmente sembra prevalere. È un sistema di valori – vorrei ricordare a Baldini - che ha permeato così profondamente l’opinione pubblica che non è sempre facile ottenere, sulle proposte concrete dell’urbanistica seria, la “condivisione sociale delle scelte”, quando queste contrastano interessi individuali diffusi. È per questo che ritengo che oggi occorra lavorare contemporaneamente in due direzioni.
Da una parte, sforzarsi di comprendere come si configura oggi quella “complessità del territorio” cui si riferisce Falqui: una complessità la cui odierna realtà non sfugge solo agli urbanisti, ma anche ai portatori dei saperi meglio attrezzati a comprendere le trasformazioni della vita sociale ed economica, che condiziona la struttura fisica e funzionale della città interagendo con essa. Non solo per comprendere la sua dinamica e le caratteristiche dei suoi dispositivi, ma anche per individuare gli interessi, gli argomenti e le forze su cui si possa far leva per modificarne il cammino: ciò che indubbiamente appartiene al mestiere dell’urbanista, oltre che all’impegno del cittadino che non abbia perso la sua dimensione di uomo pubblico.
Dall’altra parte, lavorare nel concreto delle specifiche realtà territoriali nelle quali l’urbanista è chiamato ad operare, per promuovere e sviluppare tutto quello di pubblico, di sociale, di comune che è stato conquistato nella storia nella città e nel territorio, e che in larga misura costituisce lo specifico campo del lavoro degli urbanisti. Tenendo però fermi alcuni principi: che la città e il territorio costituiscono un bene comune; che nessuno spreco di risorse è tollerabile in un mondo finito; che il patrimonio della civiltà umana va consegnato alle generazioni future; e che, last but not least, l’eguaglianza dei cittadini e dei popoli non è un bene meno prezioso della libertà degli individui.
NOTE
(1) Il rapporto citato da Enrico Falqui è stato pubblicato in La città sostenibile, a cura di E. Salzano, Edizioni delle autonomie, Roma 1992. Il libro contiene il documento europeo e gli atti di un convegno ad esso dedicato a Venezia, nel 1991.
(2) Una interpretazione del punto di svolta e delle sue ragioni è nel mio editoriale di commiato da Urbanistica informazioni.
Quelle tre opere sono simili per alcune ragioni sostanziali: sono di utilità dubbia o nulla; il loro costo è incerto, e comunque enorme; produrranno arricchimento privato e indebitamento pubblico; comportano rischi e danni immediati all’ambiente.
Il Ponte sullo Stretto. Dovrebbe servire allo sviluppo della Sicilia: ma c’è ancora qualche balordo che pensa che basti collegare un’area con una infrastruttura per portarvi duratura ricchezza? Non sembra che la Calabria abbia cambiato faccia quando l’autostrada del sole l’ha collegata al resto dell’Italia, e alle ricche regioni del Nord.
Per affrontare sul serio il problema delle connessioni e del ruolo dell’Isola occorrerebbe lavorare sui collegamenti tra il Continente e le altre sponde del Mediterraneo, quindi sulle “autostrade del mare” e le loro connessioni con la rete delle comunicazioni terrestri. Ma è più facile proporre (quanto a realizzare, è un altro discorso) una grande opera d’ingegneria o d’architettura che lavorare seriamente a un serio programma nazionale dei trasporti.
In compenso, non c’è nessuna garanzia seria sulla sicurezza sismica, c’è la certezza del guasto a un sito che affonda le radici del suo valore nella profondità del mito e offre occasioni eccezionali alla vita della natura e alla ricchezza delle specie. Il suo costo è gigantesco, e altrettanto grandi sono i profitti di chi lo studia, progetta, promuove, realizza; ma non è il mercato che lo misura: il deficit lo paga Pantalone.
Il Treno ad alta velocità in Val di Susa. Anzi, non è più ad alta velocità, ma ad alta capacità: trasporterà le merci, perchè per i passeggeri non conviene. Però il tracciato è rimasto lo stesso: forse un treno che trasporti lentamente grandi quantità di merci richiede le stesse caratteristiche geometriche di una freccia lanciata nello spazio?
Chi ha spiegato a che cosa, a chi, perchè serve un “corridoio intermodale” tra Lisbona e Kiev, quali traffici debba smaltire lungo il suo percorso, come si connetta con il resto della rete delle comunicazioni? Qualcuno (che non sia un ambientalista estremista) ha riflettuto sull’utilità di trasportare patate, bottiglie e automobili da un punto nel quale queste merci vengono prodotte a un altro punto dove le medesime merci sono prodotte (magari dalle stesse holding)? Luciana Castellina ha ricordato di recente che il TIR che s’incendiò nella galleria del Frejus portava carta igienica dalla Francia all’Italia: non sappiamo produrla qui?
In compenso, gli economisti dei trasporti ci dicono che i conti economici sono del tutto inattendibili. Se l’opera si farà, verificheremo una volta ancora che il project financing è uno specchietto per le allodole: alla fine, viva il Mercato, ma il conto lo paga Pantalone. E magari Pantalone pagherà pure agli abitanti della Val di Susa qualcosa per il disturbo; la distruzione del paesaggio, lo sconquasso di un’economia locale, li pagheranno i figli e i nipoti di Pantalone.
Il MoSE nella Laguna di Venezia. Dovrebbe servire a tenere al riparo dalle “acque alte eccezionali” (prodotte delle maree marine e dell’esondazione dei fiumi) la città, che per un millennio è stata salvaguardata da un’intelligente e quotidiana opera di manutenzione del delicatissimo equilibrio ecologico. Lo fa con tecniche ingegneristiche devastanti, divenute rapidamente obsolete, che saranno sicuramente inefficaci se le modifiche planetarie saranno un po’ diverse dalle incerte previsioni.
In compenso, lo studio la progettazione la sperimentazione l’esecuzione sono state affidati da Nicolazzi (lo ricordate? è il primo ministro dei LLPP insignito del premio Attila) a un consorzio di imprese private, lucrosamente remunerate. In compenso, i lavori (che sono iniziati nonostante una relazione d’impatto ambientale negativa) devastano aree di grande pregio sia in sè sia in relazione all’intero ecosistema lagunare. Il costo della realizzazione è enorme, ma quello della gestione (che sarà gigantesco, trattandosi di enormi macchinari sommersi) ancora non è stato valutato, e non si sa neppure chi lo sosterrà. Pantalone sta già pagando, pagheranno figli e nipoti per molte generazioni.
Se mettiamo insieme i tre pannelli di questo trittico comprendiamo la strategia che c’è sotto. SI tratta di immagini potenti (l’ardita opera del genio ingegneristico che scavalca il mare tra Scilla e Cariddi, la grande direttrice dei movimenti delle persone, delle merci, dell’energia che collega l’Atlantico alle soglie dell’Asia, le geniali barriere d’acciaio che si ergono per proteggere la Perla della Laguna dall’irrompere minaccioso dei flutti marini), che trovano in se stesse la loro giustificazione.
Si tratta di mettere in moto grandi affari, rinviando al futuro i costi collettivi: e rinviando al futuro, quando gli improvvidi decisori non ci saranno più, anche la verifica della presunta utilità delle opere.
Si tratta di mobilitare il consenso di chi da opere faraoniche ha comunque da guadagnare: profitto, rendita, salario.
La sostenibilità? Ormai è un termine che ha perso la severità del significato originario: è stato ridotto a sinonimo di sopportabilità. E comunque chi sopporta è Pantalone, e i suoi figli e i figli dei loro figli.
Le 250 pagine del programma dell’Unione dicono qualcosa in proposito? Non sembra. Eppure, l’abrogazione esplicita di questo trittico, quale che sia il prezzo che occorrerò pagare, sarebbe comunque un grande risparmio per il futuro. E il segnale di una diversità dal berlusconismo che darebbe qualche speranza, e qualche ragione per votare non solo contro Berlusconi, ma anche per Prodi.
Mi riferisco a una lettera dell’intelligente climatologo Luca Mercalli e alla replica della brava economista Mercedes Bresso, candidata felicemente vittoriosa alla carica di presidente (non “governatore”, ha intelligentemente precisato) del Piemonte. E mi riferisco all’uscita dalla scena del tentativo di costituire un’unità dell’arcipelago della “sinistra radicale”, e alla conseguente penalizzazione che quest’ultima (anzi, le sue componenti) ha avuto nel risultato elettorale: fino al limite estremo (nel senso di più basso, infimo) nella baruffa veneziana, dove quella sinistra si è spaccata nelle due entità antagoniste, tra le quali la destra ha avuto buon gioco a scegliere quella a sé più vicina. Fra i due avvenimenti c’è forse un nesso. Ma vorrei soffermarmi soprattutto su quello “minore”.
In una lettera aperta a Bresso, dopo averne richiamato i grandi meriti scientifici (è stata la prima in Italia a proporre una visione ecologica dell’economia) ed amministrativi, Mercalli le rimprovera alcune ambiguità del suo programma elettorale. Da questo “trapelano gli echi delle sirene della crescita continua”, si dichiara di proporsi “uno sviluppo sostenibile per evitare il declino del Piemonte”, ma di fatto ci si riferisce implicitamente a indicatori che misurano il declino in termini non adeguati (PIL, crescita della produzione di automobili, ecc.). Mercalli le rimprovera la scelta di ammettere la realizzazione di nuove infrastrutture, e quindi di non riconoscere “il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione”. La lettera è molto bella, merita di essere letta con attenzione e diffusa. Essa è naturalmente disponibile in questo sito, insieme alla risposta altrettanto pregevole di Bresso.
La candidata (ora felicemente eletta al vertice della Regione Piemonte) risponde molto puntualmente e seriamente al suo interlocutore. Il succo della sua replica è questo: “anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di ‘blocco dello sviluppo’; mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile”. Bresso sostanzialmente condivide l’impostazione data da Mercalli alla questione della crescita, ma indica la decrescita come il risultato di un percorso, culturale e politico, che non può non partire dall’impegno a rendere più innocuo possibile, nei confronti delle risorse della terra, l’aggiunta di nuove trasformazioni a quelle, in larga misura devastanti, già apportate.
Il dialogo mette lucidamente allo scoperto un problema, che a me sembra il nodo politico rilevante della nostra epoca. Da una parte, questa crescita, questo sviluppo, sono condannati all’esaurimento oppure alla distruzione dell’attuale civiltà (come acutamente segnala Ian McEwan nello scritto inserito ieri in Eddyburg). Ma dall’altra parte, interrompere oggi il percorso avviato molti secoli fa non è possibile per alcune buone ragioni: perché non è chiaro quale meccanismo economico può sostituire quello attuale, il quale lega i redditi individuali (quindi la personale capacità di vita) al funzionamento di un sistema compattamente basato sulla crescita indefinita della produzione di merci; perché le forze sociali (nessuna esclusa) non sono disposte a incamminarsi su una strada (quello di uno sviluppo alternativo a quello fin qui praticato) il cui orizzonte è incerto; perché, comunque, non è ripetibile una scelta analoga a quella che fu compiuta quando, nell’URSS, si decise di “costruire il socialismo in un paese solo”.
Occorre allora assistere impotenti alla distruzione delle nostre terre e del nostro pianeta? No certamente. Ma è altrettanto sicuro che il destino della civiltà umana sarà cupo se la politica non si farà carico di quella che con ogni evidenza è la contraddizione di fondo della nostra epoca. Forse la vera differenza tra le politiche progressiste e quelle conservatrici, tra sinistra e destra, sta proprio in questo.
Il massimo che si può chiedere alla destra (a chi è soddisfatto dell’attuale sistema economico-sociale, come a chi non pensa che un altro sia possibile) è di accompagnare il pianeta verso una dignitosa agonia. È evidente che il conglomerato di forze che si aggrega attorno a Berlusconi ci nega perfino questo, e quindi sbarazzare il terreno dall’ingombrante cadavere che ancora occupa il potere è un primo passo essenziale, al quale tutti sono chiamati a concorrere. Ma la sinistra, e soprattutto e in primo luogo la sinistra “radicale”, deve comprendere che può ritrovare un sua consistenza e un suo ruolo storico, che la renda alternativa sia alla destra “sporca” attuale che a una possibile (e auspicabile) destra “pulita”, solo se affonda la sua critica nel vivo della contraddizione sostanziale dell’attuale civiltà: quella contraddizione che ha la sua radice in una concezione oggi rivelatasi errata e mortifera dello sviluppo. Frammenti di una simile critica, barlumi di un possibile percorso alternativo, vagiti di nuove possibilità di relazione tra bisogno dell’uomo e uso delle risorse esistono già, dispersi sulla superficie del mondo. Si tratta solo di comprendere che la questione ambientale è questo, e non si riduce all’abolizione della caccia o all’istituzione di un parco.
E la strenua difesa della democrazia e delle sue ragioni, delle sue radici (domani festeggiamo la Resistenza) e dei suoi istituti (ci prepariamo a contrastare l’abolizione della Costituzione), portano vittorie durevoli se rendono più favorevole il terreno per costruire una società radicalmente diversa da quella attuale, e sorretta da altri valori. Le stesse battaglie per la difesa di quanto resta del patrimonio accumulato da secoli (dalla Laguna di Venezia ai beni culturali dissipati dal tremontismo, dalle coste della Sardegna ai paesaggi della Toscana) hanno un senso se sono vissuti non come estremi sguardi a un passato che va scomparendo, ma come segnali di saggezza e bellezza che dalla storia saluta un futuro possibile.
E neppure pensavamo che la sinistra scomparisse di nuovo (dopo il ventennio fascista) dal parlamento italiano. Speravamo invece che, nonostante la brusca rottura del centro-sinistra freddamente operata da Veltroni, rimanesse aperto uno spazio per costruire una nuova alleanza capace sconfiggere il berlusconismo e ricostruire un’Italia coerente con i principi della Resistenza e della Costituzione. Così non è avvenuto. L’individuazione delle responsabilità non è difficile, ma ciò che importa adesso è comprendere come si può andare avanti.
Sappiamo che dovremo soffrire molto, giorno per giorno, per le conseguenze della débacle elettorale; ne soffrirà il paese, i gruppi sociali più deboli, il territorio, il futuro di noi tutti. Se guardiamo solo ai prossimi anni non è facile vincere la disperazione: eppure guardare nel presente è necessario, e il profilo dell’Italia di Berlusconi tracciato da Franco Cassano è lì per ricordarci l’essenziale.
Ma se guardiamo al di là dei prossimi anni (ed è lì che bisogna guardare dopo questo risultato) il dato più preoccupante è la scomparsa dal Parlamento di ogni formazione politica che abbia esplicitamente espresso una posizione critica nei confronti dell’attuale sistema economico-sociale: della condizione che questo sistema riserva al lavoro, all’ambiente, alla pace, all’eguaglianza. Non è tale infatti, ovviamente la destra, e neppure la formazione di Casini. Non lo è neppure il nuovo partito di Veltroni, per il quale il neoliberismo (il vero vincitore di queste elezioni) non è un rischio e la lotta di classe semplicemente non esiste.
Mi sembra che in questa situazione i compiti che spettano a chiunque sia scontento (per usare un eufemismo) di questo risultato elettorale siano numerosi. Innanzitutto c’è da lavorare (studiare) per comprendere che cosa è diventata l’Italia. Il mondo è cambiato. Non è migliore di quello di ieri: è diverso, profondamente diverso. Non sono diversi i meccanismi di fondo (l’alienazione del lavoro, la riduzione d’ogni cosa a merce, l’impiego della violenza per risolvere i conflitti, lo sfruttamento miope delle risorse della terra). È diverso il modo in cui si manifestano, in cui incidono nei rapporti sociali e nella percezione di ciò che accade, in cui plasmano le coscienze. Si sa molto di ciò che è cambiato, ma ne manca (salvo eccezioni) una consapevolezza critica. È questa che occorre in primo luogo riacquistare per comprendere come mai l’Italia è diventata “un paese egoista e miope”, fortemente permeato di razzismo, in cui la destra di Berlusconi e Bossi supera di dieci punti il centro e spazza via la sinistra.
Comprendere non per compiacersene, o per giustificare le sconfitte, ma per cambiare. E cambiare si deve, a partire dalle aree di protesta e di rifiuto che esistono, e che non possono non crescere. Se la società che la destra costruisce è una mondo dove l’ingiustizia e la disuguaglianza, la sopraffazione e la violenza diventano pratiche dominanti, dove gli interessi comuni vengono calpestati e dissolte le conquiste raggiunte, per quanto le cortine fumogene del sistema mediatico possano mascherare la realtà questa si rivelerà sulla pelle delle cittadine e dei cittadini. E la sofferenza materiale e morale non mancherà di esprimersi – come già lo sta facendo, in larghe aree del territorio e della società. Si tratta di incanalare il disagio e la rabbia, di indicare le direzioni giuste: quelle che costruiscano una società diversa, o indichino la strada per farlo.
È sul terreno della società che occorre operare, visto che quello della politica è per ora reso particolarmente difficile. Ma senza dimenticare che ogni soluzione dovrà trovare prima o poi (e meglio prima che poi) il suo sbocco negli strumenti della politica e delle istituzioni. Altrimenti, non è garantita la durata dello sforzo che è necessario per sconfiggere davvero i poteri oggi dominanti.
Qui l'articolo di Rossana Rossanda
Anche a destra lo si è capito. L’avevano compreso subito uomini come Giovanni Sartori, Franco Cordero, Oscar Luigi Scalfaro, nessuno dei quali appartiene alla sinistra radicale. Lo hanno compreso altri, dopo il colpo di maggioranza che ha distrutto la Costituzione: Giulio Andreotti, Domenico Fisichella ed Ernesto Galli Della Loggia, per citare i tre che hanno colpito di più l’opinione pubblica.
La sua strategia è chiara, ed è evidente il sistema di valori cui essa si ispira. L’interesse privato come molla esclusiva d’ogni evoluzione sociale, senza temperamenti se non quelli della “carità” (non quella cristiana, quella perbenista). Il ruolo servile dello Stato nei confronti degli interessi privati più forti, e quindi il drenaggio sistematico di risorse dal lavoro alla rendita, dal povero al ricco, dal passato al presente. L’assunzione dell’Azienda come modello di ogni possibile organizzazione, e quindi il primato esclusivo del Padrone e dell’efficienza in termini di massimo sfruttamento di tutte le occasioni e risorse. La rottura di ogni solidarietà che abbia fondamento nella giustizia e non nell’interesse privato. Quindi riduzione d’ogni dimensione al proprio orticello: la miopia trasfigurata da patologia a fisiologia, la patria ridotta al paesello, l’idioma al posto della lingua e l’abbandono d’ogni koinè.
In questo quadro, la democrazia non è più l’attento equilibrio tra i diversi interessi espressi dalle diverse aggregazioni di cittadini, tra le diverse opzioni culturali, ideali, politiche. Non è più la garanzia per tutti che la responsabilità del governo spetta a chi esprime di più, ma la responsabilità altrettanto decisiva del controllo spetta a chi domani potrà sostituirlo. Non è più la ricerca continua di un consenso attraverso la libera espressione di tutte le opzioni presenti. No. Democrazia diventa la conquista, con tutti i mezzi, del consenso: con l’ipnosi dei media, l’acquisto, la menzogna, la corruzione. Di Machiavelli si conosce solo la lettura da Bar dello Sport, “ogni mezzo è lecito per raggiungere qualsivoglia fine”, non quella autentica, “il mezzo sia commisurato al fine”.
Se questi sono i valori, allora diventa evidente la ragione e la logica di tutti i passi compiuti sulla via della distruzione: sono tasselli d’un ordinato mosaico. Che importa se l’economia creativa, le cartolarizzazioni, le una tantum, i condoni rastrellano risorse distruggendo il futuro? Solo il presente, il MIO presente vale. Che importa se i miei ministri (da Lunardi a Moratti, da Matteoli a Urbani) distruggono il paesaggio, dissipano i beni culturali, la nostra eredità, il passato che serve ai posteri? Il passato non serve a ME, il futuro nemmeno. E se l’onorevole Lupi, riesce a imporre la supremazia dell’interesse privato dei potenti perfino nel governo delle città e dei territori, se riesce ad eliminare quei balzelli (spazi pubblici, verde pubblico, scuole pubbliche) che ostacolano la rendita fondiaria, se riesce ad abolire le procedure garantiste degli interessi comuni espresse dal sistema della pianificazione, allora la prossima volta lo faremo dirigente (pardon, ministro).
Ha allora ben ragione Romano Prodi a chiamare al “serrate le file”. Hanno ragione quanti invitano ad assumere la difesa dei valori e della strategia della Costituzione repubblicana e antifascista come l’estrema difesa contro il prevalere definitivo d’un disegno dello stato e della società compatto, coeso, determinato, che ha già mietuto molti successi e sgretolato molte conquiste di civiltà.
C’è un abisso tra i nostri anni e quelli nei quali la Costituzione firmata da Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi vide la luce. Allora esisteva un nucleo di valori comuni sui quali costruire le regole d’una dialettica democratica tra posizioni diverse. Oggi il conflitto è tra due sistemi di valori, l’uno irriducibile all’altro e con esso incomponibile.
Lo si fosse compreso prima, non si sarebbero compiuti gli errori (dalla Bicamerale, al conflitto d’interessi, alla revisione del Titolo V della Costituzione…) che hanno portato Silvio Berlusconi al comando dell’Azienda Italia. Ma ancora non è troppo tardi. Dalle prossime elezioni regionali può venire un segnale di speranza, può iniziare un percorso che conduca il Paese fuori dalla spirale di distruzione e degrado nella quale si dibatte.
È delle prime due che vogliamo occuparci brevemente oggi, soprattutto per il peso notevole che hanno nei confronti delle trasformazioni di un territorio prezioso e fragile quale quello dell’Italia.
Modernizzazione, innovazione: esprimono il bene, il futuro, la prospettiva verso la quale ineluttabilmente bisogna tendere. Ciò che è oggi e sarà domani, poiché è diverso da ciò che era ieri, è – deve essere – l’obiettivo di ogni azione che voglia essere legittimata dal consenso sociale. Tradizionale, passatista, conservatore diventano i termini che esprimono disvalori: sentimenti e tendenze che devono essere combattuti e sopraffatti. Ai fautori dei dogmi della modernizzazione e dell’innovazione (largamente dominanti nel Palazzo come nell’Accademia), a quanti credono che la Storia vada solo avanti e non conosca regressi il secolo scorso – e la paurosa regressione del nazismo – non ha insegnato nulla. Anzi, per essi la storia non serve: è meglio distruggerla nella memoria che trarre da essa i lineamenti e i principi di un possibile e migliore futuro.
Guardate le tendenza dell’architettura, che sempre più condizionano l’urbanistica (o trovano significativi riscontri culturali con gli urbanisti della modernizzazione). Guardate la fede indiscussa nella tecnologia, maestra d’ogni retorica e serva d’ogni individualistica bizzarria. Sembriamo tornati all’epoca in cui si nutriva illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità affidata alle mirabolanti capacità delle tecniche dell’acciaio e del cavallo-vapore. Come diceva Marx, la storia si ripete, ma la seconda volta è farsa.
Che cosa vuol dire oggi, per il territorio, questo ritorno all’ideologia progressista dell’Ottocento? In una realtà in cui città e territori sono intrisi di storia e in cui la sedimentazione del passato è la ragione e la matrice della bellezza e della qualità dei luoghi, esso significa devastazione e regresso. Significa trascurare le regole che secoli di cultura e lavoro hanno impresso al modo in cui furono costruite le città, e trasformarle in un’accozzaglia disordinata di oggetti che non celebrano la società ma i loro Autori. Significa violentare i paesaggi rurali e mettere a rischio le risorse della natura costruendo dovunque infrastrutture stradali, spesso immotivata e sempre indifferenti ai contesti che attraversano. Significa seppellire le campagne sotto la coltre di espansioni urbane prodotte più dalla spinta della “valorizzazione immobiliare” (o alle pratiche della “perequazione” e “compensazione”) che da oggettive necessità non risolvibile in altro modo.
A Venezia, per esempio, significa pretendere di risolvere i problemi del degrado della Laguna e del deperimento (otto-novecentesco) della sua funzione regolatrice delle acque mediante le strutture “tecnologicamente avanzate” del MoSE anziché ripristinando gli equilibri ecologici compromessi dalle “modernizzazioni” del secolo scorso (per non parlare dell’inutile ponte di Calatrava e della devastante metropolitana sublagunare) . Tra il Continente e la Sicilia significa affidare l’agevolazione dei traffici alla costruzione di un mirabolante Pontone, capace di figurare nel Guinness dei primati dopo essere apparso nei fumetti di Paperino, invece di riorganizzare seriamente i trasporti via mare e aver adeguato alla normalità la rete ferroviaria interna della Sicilia. A Torino e a Milano significa agevolare gli interessi immobiliari di alcuni operatori privilegiati mortificando gli interessi comuni della cittadinanza e, laddove esiste, la legalità urbanistica, e minacciando il tradizionale paesaggio.
Il fatto è che con questa scelta di Opere, preferibilmente Grandi e perciò appariscenti e costose, si ottengono più risultati, utili sia al Palazzo che all’Accademia. Su un versante si favoriscono gli affari delle grandi holding nelle quali la rendita immobiliare e quella finanziaria si sono saldate (e si scaricano sulle generazioni future i costi dei fallimenti dei project financing e quelli delle manutenzioni e gestione delle opere). Sull’altro versante si appagano le smanie di affermazione personale (e monumentale) delle Grandi Firme dell’Architettura, divenute i massimi esperti della “modernizzazione urbana”, si utilizzano strumentalmente le loro ambizioni di “lasciare il segno sul territorio” per coprire col pennacchio operazioni immobiliari discutibili.
Chissà se un giorno chi decide (e chi sceglie i decisori) comprenderà che la vera modernità, la vera innovazione sono quelle che traggono dalla storia l’insegnamento di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi, tra parsimonioso impiego delle risorse e appagamento delle nuove necessità sociali, tra creatività individuale e maturazione della cultura comune. Una regione del mondo la cui bellezza e la cui civiltà sono così profondamente radicate nella forma del territorio e delle città potrebbe davvero, se praticasse e predicasse un simile insegnamento, contribuire a rendere migliore un pianeta sempre più pervaso dall’anonimia, dall’omologazione, dall’appiattimento, dall’imposizione di modelli nati obsoleti, dalla cancellazione delle diversità culturali che dell’umanità costituiscono la ricchezza.
Qui lo scritto di Gustavo Zagrebelsky su valori e principi.
Per il 2007 eddyburg augura
Una buona legge per il territorio,
- che riduca il suo consumo a ciò che è strettamente necessario,
- che riconosca il valore dei paesaggi senza ridurli a merce,
- che subordini le sue trasformazioni alle esigenze collettive,
- che affidi le decisioni che lo riguardano al potere pubblico democratico.
Una legge che contribuisca
- a rendere le città più belle e funzionali per chi le abita e per chi le frequenta,
- a distrarre risorse dalla rendita per impiegarle nelle attività socialmente utili,
- a garantire ai nostri eredi almeno tante risorse quante ne abbiamo usate noi.
Una legge che aiuti
- partendo dalla piccolissima parte del mondo di cui si occupa
- a rendere il pianeta Terra
- più longevo, più ricco di diversità biologiche e culturali,
- e finalmente equilibrato nel rapporto
tra i bisogni delle persone e dei popoli e il loro appagamento
Da noi, per la verità, l’esempio viene dall’alto; è noto che l’attività dell’attuale presidente del consiglio ha come suo motore essenziale, fin dai tempi della “discesa in campo” del cavalier Berlusconi, la difesa, con gli strumenti dello Stato, di tutti i suoi numerosissimi interessi personali: da quelli finanziari a quelli processuali, da quelli del potere mediatico a quelli edilizi, da quelli dei suoi parenti a quelli dei suoi amici, collaboratori e accoliti. Restando nel palazzo della politica, se parte dell’opposizione tende a mitigare lo scandalo italiano e a smorzare le critiche più sincere (e perciò più aspre), per fortuna il suo leader sembra aver avvertito tutto il peso della “questione morale”, e del ruolo che essa in ha nelle coscienze di una parte non indifferente dell’elettorato. Chi ha sentito l’enfasi con la quale Romano Prodi, nel sostenere le ragioni di una nuova politica, ha sottolineato la necessità di una nuova dimensione etica, ha sentito rinverdire la speranza.
In altri palazzi la “questione morale” non sembra invece essere considerata più di un ferrovecchio. Così in settori importanti della cultura: e proprio di quella cultura urbanistica tradizionalmente legata, in Italia, alla politica democratica e progressista. Come se il clima generale lo giustificasse, anche esponenti della più aggiornata cultura urbanistica considerano così normale che un uomo rinviato in giudizio per favoreggiamento al peggiore nemico dello Stato - la mafia - resti al suo posto di presidente della Regione,che addirittura lo invitano a inaugurare la seduta conclusiva della loro assise.
È ciò che è accaduto nel predisporre e nell’accettare il programma della IX Conferenza della Società italiana degli urbanisti, che si terrà a Palermo il 3-4- marzo prossimi. Essa si svolge in due giornate, entrambe dedicate al tema “Terre d’Europa e fronti Mediterranei, Il ruolo della pianificazione tra conservazione e trasformazione per il miglioramento della qualità della vita”. Vi parlano urbanisti di grande spessore culturale e civile, come Bernardo Secchi e Bruno Gabrielli, vi partecipano numerosi ospiti stranieri, si svolge nell’ambito della prestigiosa Facoltà di architettura palermitana: vi saranno perciò numerosi studenti. Ma alla tavola rotonda conclusiva, “Verso un’urbanistica dell’Europa mediterranea”, le prime parole saranno pronunciate da Salvatore Cuffaro, che la magistratura ha rinviato a giudizio ritenendo che lee prove fossero sufficienti per giudicarlo colpevole di aver venduto (o regalato) informazioni di Stato ai nemici dello Stato.
Sarà interessante conoscere le ragioni per le quali stimati (per la loro capacità e per la loro onestà) professionisti dell’urbanistica e dell’insegnamento non abbiano sentito imbarazzo in una simile, autorevole presenza. Ma ancora di più sarà utile ragionare su quest’episodio. Comprendere se c’è un nesso tra quello che accade alla SIU e quello che è accaduto all’INU, dove l’incontrastato gruppo dirigente ha sostenuto una legge che privatizza la pianificazione urbanistica e cancella le conquista dell’età delle riforme, e ne ha facilitato il cammino “coprendola a sinistra”.
C’è chi sostiene che le ragioni della professione (intesa come strumento di affermazione personale e di accresciuto potere accademico ed economico) hanno prevalso su quelle degli ideali: del servizio civile e della collaborazione alla costruzione di una città e una società migliori. Che questo sia avvenuto in Italia ma stia avvenendo anche altrove, e che sia il prodotto di un clima nel quale le ragioni della comunità sono diventate subalterne di quelle dell’individuo. Non so se sia davvero così, ma varrebbe la pena di ragionarne.
Post Scriptum (1 marzo 2005) - Domenica 27 febbraio, nel “pensiero del giorno”, registravo con amarezza la scelta della SIU di attribuire un ruolo di rilievo a Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, e ciò nonostante rimasto al suo posto. Lunedì 28 ho commentato, in questo eddytoriale, l’evento. Oggi mi informano che la SIU ha modificato il suo programma riducendo la presenza di Cuffaro a un ruolo marginale. Di questo sono, naturalmente, molto soddisfatto, sia se il cambiamento di programma è stato favorito dalla tempestiva presa di posizione di questo sito, sia (a maggior ragione) se questo è avvenuto per autonoma decisione della SIU.
Prendiamo il lemma “ambientalismo”. È stata recentemente coniata, ed ha avuto larga diffusione e apprezzamento, l’espressione “ambientalismo del fare”. Si è voluta propagandare, con questa espressione, la volontà di affrontare la crisi dell’ambiente della nostra vita con un impiego massiccio di tecnologie: inceneritori, pale eoliche a go-go, degassificatori ecc.. Di affrontarla e risolverla, cioè, intervenendo a valle del processo da cui la crisi origina: operando sugli effetti trascurando le cause – e anzi, in qualche caso, addirittura aggravandole.
Prendiamo il caso dei rifiuti, che grazie alle gravissime carenze politiche e amministrative di Napoli e della Campania è esplosa e continua a impegnare i mass media. Quante voci si sono levate a porre in primo piano la questione della eccessiva produzione di rifiuti e la necessità di ridurla drasticamente – come è possibile – intervenendo nella fase della produzione e commercializzazione delle merci che diventano rifiuti? Eppure Italo Calvino l’aveva compreso 36 anni fa, quando descrisse Leonia. La società dei consumi, descritta da John K. Galbraith nel 1958, e la sollecitazione a consumi sempre più inutili, denunciata da Vance Packard nel 1957, sono realtà del tutto sconosciute ai nostri governanti e ai loro corifei; oppure costituiscono una zuppa nella quale affondano volentieri i loro cucchiai. Lungi dal proporsi di criticare il meccanismo economico nel quale viviamo, non si adoperano neppure a correggerlo intervenendo almeno - per restare all'esempio dei rifiuti - sulla riduzione degli imballaggi, che dei rifiuti rappresentano una componente rilevantissima.
L’esemplificazione potrebbe continuare. Ma dietro questa apparente ignoranza si nasconde la mistificazione di un altro lemma rilevante: “sviluppo”. Questo è un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia. Ma nell’orrenda operazione compiuta sul linguaggio si è ridotto il termine sviluppo a una sola dimensione: oggi quel termine non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro effettiva utilità.
Come si vede, se si riflette un poco sulle cose, tra la concezione totalitaria dello sviluppo e la produzione abnorme di rifiuti (avete letto di quella nuova grandissima isola scoperta nell’Atlantico, composta unicamente di rifiuti flottanti aggregati dalle correnti?) c’è in nesso inscindibile. L’”ambientalismo del fare” è accolto e promosso perché contribuisce a produrre sviluppo (economico), cioè ad aumentare le ragioni di fondo della crisi dell’ambiente. Se esso fosse preceduto dall’”ambientalismo del pensare” si scoprirebbe che le cose che bisognerebbe davvero fare hanno connessioni strette con altre parole, dimenticate e seppellite sotto montagne di rifiuti. Parole come parsimonia, risparmio, razionalità. E con espressioni considerate ormai demoniache, come “ricerca di un’alternativa a questo sviluppo”.
Torniamo un attimo, prima di concludere, sul primo termine dal quale siamo partiti: “ambiente” e “ambientalismo”. L’orrenda semplificazione del linguaggio che ottunde i cervelli e li plasma arriva al punto da leggere le battaglie ambientalistiche come “scontro frontale tra bello e utile” (A. Cianciullo, su la Repubblica del 20 febbraio). Come se il nesso tra utilità e bellezza non dovesse essere strettissimo in una civiltà non trogloditica, e se non si dovesse applicare a qualsiasi trasformazione della crosta terrestre, come suggerisce Alberto Magnaghi, quella triade di “firmitas,utilitas, venustas” che Vitruvio aveva decretato per l’architettura (con buona pace per qualche architetto pennacchione, che proclama la bellezza delle ecoballe).
Nota. La città di Leonia è descritta da Italo Calvino, Le città invisiibili , Torino 1972. Il libro di John K. Galbraith, The affluent society , Boston 1958,è stato pubblicato in italiano col titolo La società opulenta, Milano 1965. Quello di Vance Packard, The Hidden Persuaders , New York 1957, è stato pubblicato in Italia col titolo I persuasori occulti, Torino 1958.
Sui rifiuti c'è in eddyburg una cartella, Rifiuti di sviluppo, nella quale c'è molto materiale.
L'icona è un disegno di Saul Steinberg.
Il piano paesaggistico della Sardegna, come è noto, è stato redatto in tempi brevissimi dagli uffici della Regione e approvato con tempestività dalla Giunta Soru. La sua premessa è stata un vincolo di salvaguardia temporanea su una fascia molto estesa delle coste, da decenni devastate da furiose iniziative immobiliari. Il tempo stabilito per sostituire al vincolo il piano era brevissimo, ed è stato rispettato, grazie alla dedizione di un numero elevato di tecnici mobilitati dalla Regione (sarebbe utile confrontarlo con il tempo della produzione di piani di analoga complessità di livello locale o d’area vasta). Appena adottato è stato reso noto urbi et orbi con rarissima tempestività.
Le opposizioni generate dal piano dopo la sua approvazione sono di due ordini. Da una parte, quella degli interessi costituiti, politici ed economici. Interessi vasti e diffusi, soprattutto i secondi, ramificati in molti settori potenti della vita nazionale. La loro opposizione non stupisce: era nel novero delle cose attese. L’altro ordine di critiche ha una matrice diversa, che invece induce alla riflessione. Si critica l’invadenza della Regione nei confronti dei poteri locali. I toni della critica non mancano di asprezza, non solo là dove i portatori delle critiche sono sollecitati anche da interessi politici ed economici, ma anche dove si tratta di persone e gruppi che condividono l’impostazione, gli obiettivi, la strategia territoriale della Giunta Soru.
Dalla Sardegna alla Toscana la distanza non è molta. E mentre in Sardegna si critica l’invadenza della Regione, sul versante continentale si protesta per i documentati danni che l’eccessiva compiacenza della Regione verso i comuni provoca: Monticchiello non è che la punta di un iceberg, si dice, la Regione si è legata le mani e i piedi, ha decretato l’autonomia piena dei comuni e così non può intervenire anche quando i municipi promuovono “schifezze” che guastano paesaggi celebrati nel mondo.
Riconosciamolo con franchezza: nelle file sparpagliate dei difensori del paesaggio e dell’ambiente, e nei mondi culturali e politici di cui sono l’espressione, alberga una grande confusione. E proprio su una questione che è fondamentale per la decenza stessa del sistema democratico rappresentativo. Quando le divisioni si manifestano all’interno di un fronte che è minacciato dalla pervasiva potenza degli interessi immobiliari occorre fare il massimo sforzo per superarle. E quando esse derivano dalla confusione, il primo obiettivo è far chiarezza al più presto: pena, la sconfitta dei valori di cui si vuole essere i difensori.
Per fare chiarezza, crediamo che si debbano innanzitutto superare alcuni miti che si sono diffusi negli ultimi anni. Il primo mito è che la cooperazione tra enti diversi (la “copianificazione”, come l’hanno ribattezzata gli urbanisti) sia una panacea, e non una procedura da applicare rispettando un principio essenziale: quando più decisori tentano l’accordo, occorre che sia chiaro chi decide nel caso che l’accordo non si raggiunga entro tempi stabiliti. Il secondo mito è che “piccolo” sia sempre “bello”, che l’istanza della democrazia “più vicina ai cittadini” sia la migliore di tutte per definizione stessa della democrazia (come se non fosse sempre il medesimo popolo a eleggere il governo del comune, della provincia, della regione e dello stato).
Sarebbe forse il caso, sul terreno dei criteri da assumere nelle regole della democrazia, di cominciare di nuovo a riflettere su quel “principio di sussidiarietà” che, nato in Europa per accrescere il potere del governo dell’Unione nei confronti di quelli degli stati nazionali, è stato adoperato in Italia in senso inverso: da alcuni – la destra leghista - come manganello per sconfiggere lo stato, da altri – il centrosinistra - come ripiego strumentale per rendere innocuo il manganello. Sussidiarietà non significa (quante volte lo si è scritto su queste pagine!) che tutto il potere possibile deve essere gestito dal livello più basso, e che solo il residuo merita di essere lasciato alle istanze provinciali, regionali, statali. Significa che di ogni decisione è attribuita a quel livello che meglio degli altri può assumerne la responsabilità, dal punto di vista della scala dell’azione e dei suoi effetti.
E sarebbe poi il caso di ragionare anche, sul terreno crudo dei fatti e delle loro cause, sul perché le popolazioni che più direttamente vivono i paesaggi che formano l’Italia, eredi di quelle stesse che li hanno costruiti nei secoli, ne siano diventati oggi, nella maggioranza dei casi, i più attivi demolitori. Schiave anch’esse dell’aberrazione per cui la felicità delle persone e dei gruppi sociali si raggiunge consumando e dissipando oggi ciò di bello e di utile che nei secoli è stato progressivamente formato, e che nei secoli meriterebbe di vivere: un’aberrazione che è la diretta conseguenza di una concezione dell’economia che vede nella quantità della produzione di merci l’unico parametro del progresso, e di una pratica della politica che di quell'economia la vede serva.
Un osservatore estraneo alla formazione diessina e alla sua eredità storica, ma certo benevolo verso il partito di Fassino e D’Alema, Eugenio Scalfari, ha rilevato, a proposito dell’aperta benevolenza espressa dai dirigenti DS nei confronti delle operazioni dell’Unipol, “che un dirigente politico deve osservare un rigoroso silenzio di fronte ad operazioni lanciate sul mercato e regolate da apposite norme, come è il caso di un’Opa. In questi casi la politica deve solo controllare che le norme in vigore siano rispettate e poi, come nelle gare di qualunque tipo, vinca il migliore scelto come tale dal mercato”. Non osservare rigorosamente questo metodo comporta “soltanto confusione e coinvolgimenti che (...) costituiscono inframmettenze e recano danni di sostanza e di immagine. Ciò vale per tutti i politici, per tutti i partiti. Non capisco perché – conclude Scalfari su questo punto - comportamenti così elementari siano troppe volte ignorati e contraddetti”. (la Repubblica, 18 dicembre 2005).
Ho vissuto per mezzo secolo accanto o dentro il PCI (e il suo primo erede, il PDS) con un impegno via via crescente. Forse questo mi dà titolo per azzardare una ipotesi.
Non mi sembra che ci siano stati mutamenti consistenti nella moralità personale dei dirigenti: i loro errori non derivano certo dal venir meno del disinteresse personale; sebbene sui costumi individuali qualche riflesso sia stato provocato da quella trasformazione più generale della concezione del mondo (meglio e più concretamente, della civiltà moderna e della società che è il suo prodotto) che è stato a mio parere il cambiamento più sostanziale.
La “vecchia sinistra” (raggruppo sotto questo termine il PCI e le formazioni socialiste fino alla mutazione craxiana) ha sempre avuto al centro delle sue convinzioni, e della sua politica, la consapevolezza dei limiti invalicabili del sistema capitalistico di produzione. Questo sistema, se da una parte aveva provocato una enorme espansione della produzione di beni materiali e aveva accompagnato una crescente affermazione dei diritti personali, aveva raggiunto questi traguardi pagando alcuni prezzi non sopportabili. Quello sul quale la tradizione marxista poneva soprattutto l’accento era l’alienazione del lavoro: la riduzione della primaria attività sociale dell’uomo ad “altro da sé”, a mero strumento di una produzione orientata a fini che i soggetti della produzione non controllavano. Non solo, ma era portatore d’una crisi interna alla quale non avrebbe potuto sottrarsi.
Alcuni dei limiti del capitalismo individuati dall’analisi marxiana sono stati sterilizzati e allontanati, anche per effetto della dialettica che quella stessa analisi ha alimentato. Ma nuovi limiti sono via via emersi: le crescenti disuguaglianze a scala mondiale, l’impossibile convivenza con i limiti naturali del pianeta Terra, la distruzione dei valori accumulati dalle civiltà non riducibili a merci. Soffermarci su questo ci porterebbe troppo lontano; essi costituiscono del resto materia di molti testi ospitati in questo sito. Il punto che vorrei sottolineare è più semplice.
Mi sembra che il cambiamento che vi è stato nella parte maggioritaria della sinistra (non solo italiana) sia proprio questo: aver perso la consapevolezza che il capitalismo è un sistema i cui limiti sono invalicabili, e che quindi postula necessariamente la capacità di costruire un sistema economico-sociale alternativo. A differenza della “vecchia sinistra”, che praticava le vie tattiche necessarie a rafforzare le proprie posizioni e gli spazi di manovra del suo sistema di alleanze sociali ma manteneva intatta la strategia della ricerca e della paziente costruzione di un diverso sistema economico sociale, praticabile a livello mondiale, la componente maggioritaria della “nuova sinistra” ha smarrito la strategia e si è ridotta a tattica: a gestire nel modo migliore il sistema economico-sociale dato. Si cerca di renderlo “migliore” e “più umano”, si diventa “miglioristi” o “buonisti”, o al massimo “riformisti” (dove le “riforme” sono aggiustamenti funzionali e non modificazioni della struttura economico-sociale), ma si è persa la consapevolezza della necessità di costruire un orizzonte diverso, e quindi anche la capacità di poter additare agli esclusi (in primo luogo ai giovani) un diverso destino. Non si è capaci di immaginare, per l’umanità, destini diversi da quelli disegnati dal sistema dato.
Le grandi questioni della nostra epoca (quelle dei limiti del pianeta, dell’impoverimento della parte maggioritaria dell’umanità, della perdita dei valori d’uso cancellati dai valori di scambio) sono ridotte a slogan da sventolare per catturare qualche porzione dell’elettorato. Non si coglie il fatto che quelle questioni sono il necessario corollario della riduzione di ogni bene (a cominciare dal lavoro) a fungibile merce, e dello sviluppo ad accrescimento parossisticamente continuo della produzione di merci.
Si accetta il sistema economico sociale senza mettere in discussione le sue regole di fondo. Ma lo si conosce meno bene di quanto non sappiano le vecchie volpi del moderatismo, che con il capitalismo hanno imparato a convivere da molti decenni; si sanno praticare perciò con minore accortezza quei comportamenti magari ipocriti (ma l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù) che hanno consentito ai vecchi DC di apparire più distaccati dalle recenti vicende dello squallido capitalismo italiano. Si imparasse almeno a prenderne le distanze in nome della laicità della politica, come suggerisce il vecchio liberale Eugenio Scalfari.
Questi furono introdotti nella legislazione italiana, e generalizzati nella pratica urbanistica, con una legge e un successivo decreto degli anni 1967 e 1968. Sostanzialmente consistevano (come moltissimi dei frequentatori di eddyburg sanno) nell’obbligo di vincolare, negli strumenti urbanistici generali attuativi, una determinata quantità pro capite di aree da destinare alla formazione di spazi pubblici e d’uso pubblico. Fu un risultato raggiunto dopo anni d’iniziative sociali, culturali, amministrative, nelle quali svolsero ruoli decisivi la cultura urbanistica dell’epoca, le amministrazioni locali e i partiti dell’Emilia-Romagna, il sindacato dei lavoratori e soprattutto il movimento femminile. Un ampio fronte sociale e culturale, il cui obiettivo era rendere vivibile la città, utilizzando il piano regolatore come strumento orientato a questo fine, anziché a quello di regolare (o regalare) valori immobiliari.
Si comprese presto che non bastava che i piani vincolassero le aree: era una misura indispensabile, ma non sufficiente. Occorrevano due ulteriori condizioni: doveva diventare possibile acquisire le aree necessarie senza riconoscere alla proprietà fondiaria l’incremento di valore dipendente dalle scelte pubbliche, e occorreva finanziare l’acquisizione delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione nelle quali gli standard urbanistici si traducono.
Sul primo versante (valore della indennità espropriativa e riconoscimento ai proprietari di una parte soltanto della rendita) la vertenza fu aspra e non si giunse mai a una soluzione soddisfacente. Il Parlamento non si dimostrò mai capace di rendere concreto il principio, tipico degli ordinamenti liberali e stabilito dalla legge urbanistica nazionale del 1942 (una legge del periodo fascista!) secondo il quale l’indennità espropriativa non deve compensare il maggior valore dell’area derivante dalle scelte del piano urbanistico. E la Corte costituzionale si dimostrò molto sensibile alle ragioni dell’equità nei confronti delle prerogative dei proprietari, non a quelle nei confronti dei diritti dei cittadini.
Sul secondo versante, quello dei costi della realizzazione delle opere di urbanizzazione, si riuscì a ottenere che essi venissero accollati a chi percepiva la rendita immobiliare: nel caso di piani attuativi le aree destinate agli spazi pubblici dovevano essere cedute gratuitamente dai promotori delle lottizzazioni, i quali dovevano realizzare opere di urbanizzazione aperte a tutti i cittadini; nel caso del rilascio di licenze edilizie (poi denominate, con un passaggio non solo nominalistico, concessioni edilizie) mediante il pagamento di un prezzo corrispondente sia al costo delle urbanizzazioni necessarie per l’aggiunta edilizia, sia alle spese di urbanizzazione generale della città.
La legge 10/1977 (legge Bucalossi) stabilì espressamente che i proventi di questi oneri, come quelli delle sanzioni per gli interventi abusivi, venissero “destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all'acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali”, e prescrisse che a tal fine quei proventi fossero “versati in un conto corrente vincolato presso la Tesoreria del Comune”.
Lodo Meneghetti e Sergio Brenna hanno già raccontato ai lettori di eddyburg come sia avvenuto lo svuotamento di queste sagge disposizioni. Destra e centro-destra, sinistra e centro-sinistra, parlamento e governo dell’altro ieri, di ieri e di oggi ne sono tutti responsabili. Certo in misura diversa, ma ciò non giustifica nessuno. La responsabilità della prima iniziativa risale a una “omissione” del ministro Bassanini (centro-sinistra, 2001); la palla è raccolta, e rilanciata in porta dal ministro Tremonti (centro-destra, 2004). Né gli anni successivi hanno invertito la rotta. Adesso lo scempio si completa, con la legge finanziaria per il 2008: nonostante gli allarmi gettati (anche da questo sito) e le proposte di emendamento offerte ai parlamentari che sembravano più sensibili.
La finanziaria con la quale si è chiuso l’anno vecchio ha prorogato infatti per gli anni 2008, 2009 e 2010 la sollecitazione ai comuni di destinare i proventi degli oneri di concessione al finanziamento delle loro spese correnti. Invece di affrontare il tema del costo della città, di chi deve pagarlo, di come e con che cespiti occorre mettere i comuni in grado di farlo, si è proseguito nello smantellamento di un altro pezzo di civiltà urbana.
Una norma bestiale, l’abbiamo commentata nell’eddytorialen. 109. Indicando le ragioni della bestialità sottolineavamo soprattutto che essa spinge i sindaci ad aumentare le aree da urbanizzare, al di fuori di ogni corretta valutazione del fabbisogno. Ci soffermavamo su questa conseguenza, nella speranza che l’unanime dichiarata espressione della volontà di tutelare il paesaggio e ridurre il consumo di suolo spingesse Governo e Parlamento a correggere la bestialità. Così non è stato.
Oggi, alla vigilia dell’anno nuovo, vogliamo sottolineare particolarmente l’altra ragione. Non è in gioco solo il progressivo impoverimento del paesaggio rurale, della bellezza e della storia (e della salute) dell’Italia. Accanto a questo bene comune un altro è messo in discussione, e potenzialmente distrutto: il bene comune della città come costruzione sociale, come luogo caratterizzato dalla presenza, dall’accessibilità e dall’idoneità delle attrezzature e degli spazi dedicati alle esigenze della vita pubblica, sociale, collettiva di tutti; delle cittadine e dei cittadini, e dei forestieri; degli adulti e dei bambini, degli anziani e dei deboli; dei benestanti e dei poveri: insomma, delle persone qualificate dal loro essere, e non dal loro consumare merci.
Ci turba, ci turba profondamente che il governo e il Parlamento, che gli uomini e le donne cui, in quanto elettori, abbiamo attribuito il compito di scrivere e di attuare le leggi mostrino di agire senza rendersi conto degli effetti che le loro decisioni provocano. Nell’oblio totale, e colpevole, delle ragioni che hanno spinto a conquistare le norme che essi cancellano, del loro significato sociale e civile. La speranza che affidiamo al 2008 è che, almeno su questo argomento, qualcosa di positivo finalmente accada. Eddyburg si impegna a proseguire con maggiore costanza e attenzione la buona battaglia.
L'immagine rappresenta un'opera di Ron Rueck.
Sugli standard urbanistici vedi anche l' eddytoriale n. 101e la postilla alla relazione di Giovanni Astengo al convegno dell'UDI del 1964
Ciò nonostante, il più appariscente attore della stagione di Mani pulite, il più acceso paladino della legalità, il ministro Antonio Di Pietro, e con lui il prudente ed equilibrato premier Romano Prodi, hanno imposto al Consiglio dei ministri di blindare ogni decisione e decretare la validità del MoSE. La forzatura (il blitz, lo hanno chiamato i giornali) è avvenuto alla vigilia della riunione del Comitato per la salvaguardia di Venezia e che era stato convocato per esaminare, su richiesta del Comune di Venezia, le ipotesi alternative: più leggere, più economiche, più affidabili, meno rischiose per la vita della Laguna. Nel Comitato, cui sono sottoposte le decisioni sui finanziamenti per la salvaguardia di Venezia e della Laguna, siedono i rappresentanti di quattro ministeri, della Regione, della Provincia, del Comune di Venezia e del rappresentante degli altri comuni lagunari.
Il blitz è avvenuto perché, nonostante l’immane apparato propagandistico del Consorzio Venezia Nuova, alimentato dai soldi dei contribuenti, la verità sugli errori del sistema MoSE si stava facendo luce. La maggioranza del Comitato poteva oscillare. Qualche ministro aveva studiato le carte (che inutilmente erano state da tempo trasmesse a Prodi e a Di Pietro), e il gigantesco apparato messo in piedi dal Consorzio Venezia Nuova poteva vacillare. I danni all’ecosistema lagunare potevano non commuovere troppi, ma il dubbio di gettare soldi in un pozzo senza fondo potendone spendere meno poteva sollecitare qualche attenzione. Meglio non rischiare. Meglio costringere i ministri a indossare l’elmetto e dichiarare “Obbedisco!”. (Lo faranno? Vedremo). Meglio dare uno schiaffo al Sindaco-filosofo di Venezia, e magari fargli minacciare le dimissioni.
L’ignoranza sulla realtà della Laguna e dello Mose, favorita dalla complicità di gran parte della stampa, è enorme. E altrettanto grandi sono gli interessi (privati) coinvolti. Il Consorzio Venezia Nuova è composto dai colossi del settore dell’edilizia, e l’entità della spesa prevista è di 4,5 miliardi di euro: ma tutti sanno che il consuntivo sarà molto più alto. Nessuno sa chi pagherà la gestione (certamente costosissima, data l’entità delle installazioni sotterranee, la struttura metallica delle parti sommerse, la delicatezza degli impianti, la continuità delle operazioni richieste). E nessuno ha avuto la possibilità di sperimentare a fondo le soluzioni alternative, dato il monopolio concesso dallo Stato (per la precisione, dal ministro Franco Nicolazzi, con un altro blitz) al poderoso Consorzio.
Elasticità nel rispetto della legge e subordinazione agli interessi forti sembrano essere gli elementi di continuità tra il vecchio e il nuovo governo. Difficile dire se ciò dipende da una oggettiva confluenza di atteggiamenti oppure – per il governo Prodi – dalla circostanza di affidarsi a consiglieri “amici del giaguaro”.
Moltissimi documenti sulla vicenda sono reperibili nell’apposita cartella dedicata al MoSE. In particolare: sull’obbligo non rispettato di por termine alla “ concessione unica” al CVN, la replica di Luigi Scano alle bugie del Ministro Lunardi; un quadro complessivo, tracciato da Edoardo Sazano, della questione MoSE e Laguna,in una sintesi su Liberazione e in un saggio ampio su Area vasta; sulle proposte alternative “ a gravità” e ARCA; infine, il testo della relazione della Commissione ministeriale per la Valutazione d’impatto ambientale.
La legge Lupi sta ancora alla Commissione del Senato. Nessun segno d’opposizione. Nei corridoi di Palazzo Madama si dice che tra centrosinistra e centrodestra c’è accordo per farla passare. Il libretto che abbiamo contribuito a pubblicare, nella sua straordinaria modestia, è l’unico segno pubblico di dissenso, oltre a qualche articolo di Liberazione, il manifesto e l’Unità. La politica tace, e chi tace acconsente. C’è da meravigliarsi?
Non sembra. C’è una questione di fondo, della quale ho già parlato: oggi la promozione della rendita immobiliare è un obiettivo largamente condiviso, a destra ma anche al centro e a sinistra. Sembrano passati secoli da quegli anni in cui l’obiettivo della riduzione del peso della rendita immobiliare era condiviso da un arco ampio di forze politiche e sociali, che andava dal PCI alla DC, dai sindacati dei lavoratori a esponenti di spicco del mondo imprenditoriale. Sembrano passati secoli da quando le forze che si battevano, sia pure su fronti diversi, per il progresso del paese si riferivano al salario e al profitto, e trovavano significativi momenti di alleanza nel contrastare la rendita immobiliare. Oggi quell’obiettivo è scomparso su quasi tutti i versanti dello schieramento politico, con l’eccezione di qualche frangia distratta che non riesce a pesare perchè si occupa d’altro.
Un obiettivo condiviso, tra le forze politiche nazionali, al Parlamento, e nel paese. Chi di noi non ha sentito o letto di proposte di urbanizzazione (lottizzazioni turistiche o residenziali, centri commerciali, strade e autostrade, porti e via elencando) promosse indipendentemente da qualsiasi valutazione sulla necessità o meno, sulla dimensione opportuna, sulle soluzioni alternative possibili, sulla priorità rispetto ad altre decisioni? E’ come se, in assenza della capacità di individuare altre fonti di reddito, si pensasse che accrescere il reddito degli operatori connessi alle trasformazioni immobiliari significa favorire lo sviluppo.
Non meraviglia che questa distorta filosofia alberghi nelle menti della destra italiana, che è sempre stata l’espressione della debolezza storica del compromesso tra rendita e profitto che ha contrassegnato l’unità dell’Italia, rappresentandone la parte deteriore. Suscita però sorpresa e amarezza che essa sia fatta propria anche da consistenti porzioni della “sinistra”. E’ segno d’una profonda mutazione genetica che è succeduta alla caduta del muro di Berlino e alla scomparsa del PCI.
Sarebbe facile fare l’elenco degli episodi che illustrano lo sdraiarsi della parte maggioritaria del centrosinistra sull’illusione immobiliarista. Le vicende urbanistiche romane ne sono un campione significativo, ma credo che chiunque sappia leggere con un minimo di consapevolezza le scelte sul territorio che avvengono in questi mesi (dalla Calabria alla Toscana, dall’Emilia Romagna alla Campania) possa raccontare episodi analoghi. Non va del resto in questa stessa direzione la legge urbanistica proposta nella Regione Lazio dai DS? E non è finalizzata esclusivamente a realizzare pesanti infrastrutture e operazioni immobiliari col minimo di controlli la legge urbanistica che la Regione Friuli – Venezia Giulia sta approvando mentre scriviamo?
Poche sono le eccezioni. Renato Soru e la sua giunta in Sardegna, che apriranno a giorni la discussione sul piano paesaggistico regionale, nel quale hanno promesso ddi privilegiare la storia e la bellezza sulla cementificazione. La giunta di Nicki Vendola in Puglia, che sta rilanciando la pianificazione del territorio e la tutela del paesaggio in una regione devastata dalla pessima amministrazione. Ve ne sono molte altre? Segnalatele. Cerchiamo segni di speranza.
Il primo vorremmo vederlo in una decisa, impegnata, conseguente opposizione del centrosinistra – di tutto il centrosinistra – alla legge Lupi.
Qui una cartella dedicata alla Legge Lupi
Partiamo dal corno più doloroso. La fabbriche italiane chiudono, gli imprenditori trasferiscono il loro know how (il loro capitale) all’estero. Le fabbriche si smobilitano da noi e si riaprono là dove il mercato offre condizioni più convenienti: sul versante delle domanda di merci, e sul versante dell’offerta di forza lavoro. Che cosa di più naturale e ragionevole, nell’economia capitalistica?
Da noi il mercato è saturo di merci, e la forza lavoro è costosa. Secoli di collaborazione fortemente dialettica tra capitale e lavoro (tra borghesia e proletariato) hanno aumentato il benessere e la democrazia: è cresciuta la capacità di spesa dei lavoratori, e il potere di incidere sulle regole della distribuzione del reddito. Il plusvalore non è andato tutto al profitto, una parte è tornata al salario (una bella quota, in Italia, se l’è presa la rendita, ma su questo tornerò dopo). Intanto, sono entrati nel ciclo della produzione capitalistica altri continenti: i mercati si sono allargati a tutto il mondo.
Che le leggi dell’economia (capitalistica) abbiano lo stesso carattere d’inevitabilità delle leggi fisiche non l’hanno riconosciuto solo i cantori della borghesia (cfr.: G. Stalin, Problemi economici del socialismo in URSS, 1952). Non ha molto senso scontrarsi con quelle leggi, soprattutto per chi accetta il sistema economico vigente come l’unico possibile. Può aver senso, invece, domandarsi se non sia possibile allargare l’orizzonte al di là delle categorie (e delle prassi) elaborate negli ultimi tre secoli.
È possibile pensare a una produzione che non sia solo quella di beni e servizi legati alle esigenze elementari (magari rese via via più complicate, per tentar d’allargare il loro mercato)? È possibile pensare ai “beni”, a oggetti e servizi e luoghi che valgano in sé, e non perché siano riproducibili e fabbricabili in quantità amplissime? Anzi, che abbiano un valore legato alla loro individualità e all’uso irripetibile che l’uomo (non il consumatore) ne può fare? È possibile riportare all’interno dell’economia (magari di una nuova economia, se parlare d’innovazione si può non solo per le tecnologie) “valori” che oggi ne sono esclusi, nel senso di rendere socialmente riconosciuta (e quindi retribuita) la loro produzione e somministrazione?
Se questo è possibile, allora certamente nel nostro paese la risorsa su cui far leva, su cui scommettere per il nostro futuro, non è né il petrolio né il riso, non è la produzione manifatturiera né l’agricoltura meccanizzata, ma è – oltre all’intelligenza e al gusto – il gigantesco, unico, irripetibile patrimonio depositato nel territorio da secoli di lavoro e di cultura: il paesaggio e le sue mille e mille componenti.
Di fronte al declino industriale (e alla crisi di una società che esso lascia intravedere) il Catalogo dei paesaggi italiani, proposto da Piero Bevilacqua e commentato da Carlo Blasi e Antonio di Gennaro al convegno di Italia Nostra, può essere il segno di una speranza di futuro. Realizzarlo significherebbe infatti individuare gli elementi di quella nostra risorsa (del nostro patrimonio comune), comprenderli e farli comprendere nel loro valore, definire le regole della loro conservazione e utilizzazione, mettere in modo i meccanismi per una valorizzazione.
A tre condizioni però. Che al termine valore si dia un significato del tutto diverso da quello attuale, dove valore significa guadagno economico per chi ne è possessore. Che diventasse evidente che questa valorizzazione del patrimonio comune richiede l’intervento massiccio del potere pubblico. Che quindi in primo luogo venisse sbarazzato il terreno da quelle leggi (e da quelle ideologie) che di quel patrimonio comune vogliono promuovere la massima privatizzazione, il massimo uso economico, e in definitiva la massima degradazione. A cominciare dalla legge dell’onorevole Maurizio Lupi e della Commissione da lui presieduta.
L'appello
Articoli nella cartella Il nostro pianeta
Il primo, Vittorio Emiliani, dirama un comunicato nel quale lamenta che, dalle informazioni riportate dalla stampa, l’articolo 24 comma 5 della legge finanziaria torna all’impostazione dello scorso anno e stabilisce che il 50 % degli introiti degli oneri di urbanizzazione può finanziare la spesa corrente dei comuni, e un ulteriore 25% può essere destinato alla manutenzione ordinaria del patrimonio comunale. Per di più, tale regime viene consentito per il prossimo triennio, cioè fino al 2010.
È noto a tutti che questa disposizione è bestiale per due ragioni: perché distrae i proventi degli oneri di urbanizzazione dall’uso al quale la legislazione degli anni ’60 e ’70 li destinarono (cioè alla realizzazione di verde e servizi necessari in conseguenza delle nuove urbanizzazioni), e perché la possibilità di utilizzarli per rimpinguare le casse vuote delle finanze comunali spinge i sindaci ad aumentare le aree da urbanizzare, al di fuori di ogni corretta valutazione del fabbisogno. Come afferma Emiliani, è una pratica che spinge oggettivamente i comuni a diventare i più diretti interessati (dopo le società e agenzie immobiliari) alla distruzione del paesaggio.
Alle proteste vibrate del Comitato per la bellezza risponde, per il ministro Rutelli, il sottosegretario Mazzonis. Ma come, scrive, si attacca il governo dimenticando ciò che il governo e la stessa Finanziaria, hanno fatto per il paesaggio? Non si tiene in nessun conto “di quanto il Ministero per i Beni e la Attività Culturali ha fatto per inserire una precisa norma nella stessa Finanziaria che scongiura tale esito negativo e stanzia fondi a favore dell’azione di tutela”. Il riferimento è al comma 411 che, prosegue il sottosegretario, “istituisce appositamente un ‘Fondo per il ripristino del paesaggio’ con una dotazione di 15 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010”. Tale norma, chiarisce Mazzonis, “è finalizzata alla demolizione di immobili e infrastrutture, al risanamento e ripristino dei luoghi nonché a provvedere a eventuali azioni risarcitorie per l’acquisizione di immobili da demolire”.
Perfetto. Sarebbe come dire: spingo gli uomini a diventare ladri e assassini, e poi stanzio un fondo per il risarcimento delle vittime; ringraziatemi per questo.
Questo episodio non ci avrebbe preoccupato più che tanto se non rivelasse l’incapacità dell’attuale classe dirigente (perché di “classe” si tratta) di comprendere i nessi che legano i diversi aspetti del governo del territorio, i meccanismi che in esso si muovono, i poteri che li comandano e controllano, il ruolo sempre più subordinato ai poteri economici che le istituzioni democratiche sono spinte, giorno dopo giorno, a svolgere. Prendiamo un altro esempio, un altro caso, un altro anello di quella catena che lega sempre più inesorabilmente i comuni d’Italia all’appropriazione privata della rendita immobiliare e alla distruzione dei beni comuni (in primis il paesaggio) che tale catena comporta.
La Corte costituzionale, sollecitata a valutare la conformità delle vigenti norme sull’indennità espropriativa alla disciplina europea (come le modifiche costituzionali del 2001 prescrivono), dichiara (sentenza n. 348/2007) che sono incostituzionali le norme secondo le quali l’indennità espropriativa non può essere inferiore al valore di mercato. Come la cultura e la politica si accingono a rispondere a questa sentenza? Lo vedrete presto. Suggeriranno al legislatore di prendere atto della realtà, e di disporre che l’indennità espropriativa corrisponda pienamente al “valore di mercato”; suggeriranno quindi di pagare il terreno per un parco quanto lo pagherebbe un imprenditore che volesse costruirvi un grattacielo (sono di moda quest’anno in Italia). Naturalmente, per “aiutare i comuni”, si solleciteranno ulteriormente le pratiche di incentivo agli affari immobiliari mediante la “perequazione a priori”, incoraggiando (e di fatto obbligando) i comuni ad allargare a dismisura le aree destinate all’edificazione (al di fuori da ogni corretta valutazione delle necessità sociali) per poter avere le aree necessarie per le esigenze collettive.
Pensate che qualcuno ricorderà che la Corte costituzionale stabilì, la prima volta nel lontano 1968, che è il legislatore che stabilisce quale attributo della proprietà appartiene al proprietario, e quindi è indennizzabile? Che qualcuno ricorderà che la legge urbanistica del 1942, riprendendo un principio della cultura liberale, stabiliva (articolo 38) che l’indennità espropriativa non doveva tener conto “degli incrementi di valore attribuibili sia direttamente che indirettamente all'approvazione del piano regolatore generale ed alla sua attuazione”?
In un regime politico nel quale la democrazia ha almeno i contenuti che vennero stabiliti alla fine del XVIII secolo, quello “dei lumi”, il Mercato non è una divinità assoluta e indiscutibile. È il potere pubblico, mediante la legge, che stabilisce che cosa appartiene al mercato e che cosa no.
In calce l'appello del Comitato per la bellezza e lo scambio di lettere con il sottosegretario Mazzonis. Si veda anche qui il documento dell "Rete nuovo municipio). L'immagine è tratta dal sito www.matitarob.it
L’episodio di Monticchiello ha particolarmente colpito perché è avvenuto in Toscana, regione che si colloca tra quelle che hanno espresso maggiore considerazione per la ricchezza costituita dalla qualità dei paesaggi. Così da Monticchiello il ragionamento si è allargato ma si è rimasti prevalentemente nella stessa regione: la Toscana felix è diventata la Toscana in bilico, si è scritto. Eppure basterebbe scendere un poco più a Sud (dal Lazio alla Campania, dalla Puglia alla Calabria) o un poco più a Nord (l’orribile conurbazione padana che sta divorando dimore storiche e campi come un mostruoso blob) per rendersi conto che altrove il danno al Belpaese è ben più grave di quello che nella Val d’Orcia si è svelato. Riflettere sul danno toscano può allora aiutare a comprendere che cosa fare per evitare, o almeno ridurre, quello italiano.
Molti ritengono che una delle cause dei numerosi scempi di brandelli del paesaggio sta nel fatto che la Regione Toscana ha attribuito troppo potere ai comuni, affidando loro qualcosa (il paesaggio) di cui la Costituzione attribuisce la tutela allo Stato. Hanno ragione. Esiste, ed è centrale nel governo del territorio, la comunità locale. Ma non è l’unica. Ciascuno di noi appartiene a cerchie via via più vaste di comunità: esiste il comune dove sono nato o dove abito e lavoro, e poi esiste la provincia (il “contado”, diceva Carlo Cattaneo), la regione, la nazione, l’Europa… Ciascuna di queste comunità è titolare del bene paesaggio, il quale non può essere privatizzato, gestito e goduto in esclusiva, da nessun individuo e neppure da nessuna comunità che ne escluda le altre.
Certo, la comunità più vicina, che del paesaggio è anche componente e diretta custode, ha maggiori responsabilità. Ma non è l’unica responsabile. E se opera male, se non tutela ciò che a lei spetterebbe tutelare, altre hanno il dovere di intervenire.
Le leggi hanno il compito di regolare i modi in cui le responsabilità devono equilibrarsi: senza esclusività per nessuno dei livelli di comunità cui la nostra costituzione attribuisce sovranità popolare. Pessima è una legge che attribuisca troppo potere a uno dei livelli, cancellando la responsabilità degli altri. E in Italia abbiano esempi di leggi pessime sia in una direzione sia nell’altra.
Il vizio di assolvere ai propri compiti scaricandoli su altri livelli non è peraltro solo della Toscana. Le tendenze cosiddette “federaliste” (come se federalismo non significasse associare invece che dissociare), così come l’interpretazione alla Bossi del principio di sussidiarietà (tutto il potere al basso), sono stati bandiere che tutto il centro sinistra ha sventolato, per tentar di distogliere dal fronte avversario qualche manipolo di leghisti.
Così come non è certamente solo toscano (anzi, questa Regione è ricca di esperienze alternative) la riduzione dell’intero concetto di sviluppo (morale, culturale, sociale, estetico…) al solo sviluppo economico inteso come mera crescita della produzione di merci.
In quanti comuni e regioni d’Italia non domina la concezione che costruire di più, a prescindere da qualsiasi dimostrato bisogno, è un bene per tutti, è qualcosa che ad ogni costo deve essere perseguito? E che semmai (per i benpensanti) si tratta di mitigare, ammorbidire, rendere sopportabile (anzi, travisando i termini, “sostenibile ambientalmente, economicamente, socialmente”) ogni inutile costruzione di case, capannoni, infrastrutture.
Considerare davvero, al di là delle chiacchiere, il territorio un bene comune comporterebbe di tener conto di entrambi gli aspetti: le responsabilità della tutela non spettano a un solo livello di governo, esistono valori che non soltanto non sono riducibili al valore di scambio e alla crescita economica, ma che vengono prima.
Si tratta di due principi che sono ormai presenti nel diritto come nella cassetta degli attrezzi del governo del territorio. In particolare, nel nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, che è il punto d’arrivo di un’elaborazione culturale e giurisprudenziale che è partita con la cosiddetta Legge Galasso. E i governanti della Regione Toscana hanno replicato alla tempesta sollevata a partire da Monticchiello non solo arroccandosi nel tabù dell’intangibilità della piena e indiscriminata autonomia dei comuni (soprattutto il presidente Martini), ma anche (soprattutto l’assessore Conti) indicando come strada per “superare” Monticchiello quello della pianificazione territoriale e dell’intesa in proposito con lo Stato.
Ma bisogna intendersi. Un piano che voglia avere le caratteristiche del piano paesaggistico prescritto dal Codice non può essere un compendio di analisi o una raccolta di esortazioni o un’antologia di racconti, ma deve definire, individuare e regolare precisamente ciò che il Codice prescrive. Esso deve individuare col massimo dettaglio possibile i beni meritevoli di tutela, sia quelli appartenenti a determinate “categorie” (boschi, spiagge, dune, falesie, alvei fluviali, golene, rocche, casali, campi e trame agrarie, filari e piantate, percorsi storici …), sia quelli che, per la particolare identità che l’intreccio tra storia e natura ha determinato, compongono determinate riconoscibili unità di paesaggio (come la Val d’Orcia). Deve individuarli in modo preciso e disciplinarne l’uso e le trasformazioni consentite in termini tassativi, non perorativi o suggestivi,e dove è necessario con efficacia immediata.
I precetti relativi ai beni di rilevanza regionale e nazionale devono poi prolungarsi nelle direttive la cui traduzione in regole è affidata alla pianificazione sottordinata (provinciale e comunale), nei confronti della quale la regione ha una duplice ulteriore responsabilità: quella di sostenerla materialmente, consentendo alle comunità di minore capacità di dotarsi degli indispensabili strumenti tecnici per la pianificazione, e quella di verificare che le prescrizioni e le direttive siano rispettate.
E’ questo il piano che Toscana e Ministero dei beni e delle attività culturali hanno deciso di formare? Se è così, “schifi” come quello di Monticchiello potranno essere scongiurati. In Toscana e – se il Ministero per i beni culturali farà il suo mestiere e applicherà con rigore e fedeltà il Codice senza bisogno di altri Monticchielli – nelle altre regioni italiane. Altrimenti…
Qui alcune immagini del paesaggio di Monticchiello
Nella Val di Susa si è praticata la strada autoritaria. L'impiego dello strumento più classico ma, ahimé, quello che viene usato con sempre maggiore frequenza, ad opera del governo come ad opera di sindaci sceriffi: la forza pubblica. Non dico che questo non sia uno strumento da adoperare: ma si tratta di comprendere a vantaggio di quale ragione, con quali conseguenze, con quali effetti sull’autorità di chi la impugna, con quale ricaduta sul rapporto tra chi esercita il potere e chi ne detiene il diritto. E si tratta di comprendere (poichè è in ogni caso una ferita che si apre) se si è fatto quello che era ragionevole fare prima di arrivare a tanto.
Quello esploso in Val di Susa è un problema che si ripropone ogni volta. Sempre più spesso ci si trova di fronte a conflitti che oppongono popolazioni locali (e interessi locali) a interessi di comunità più vaste. E allora ci si schiera su due versanti opposti: chi difende il piccolo, e chi difende il grande. Non è forse quello di schierarsi apoditticamente un vizio tutto italiano? (sebbene certamente lo condividiamo con altri). In genere la sinistra radicale e l’ambientalismo si schierano per il piccolo, il locale, l’immediatamente “popolare”, la sinistra riformista e il sindacalismo (adopero questi termini con l’accetta) per il grande, lo “strategico”, il produttivo. La destra (quella becera tipicamente italiana) e i grandi interessi stanno a vedere: tanto, potranno guadagnare sia da una parte che dall’altra.
La regolazione di simili conflitti dovrebbe essere parte sostanziale della missione di una democrazia pluralista: di una democrazia nella quale convivano, e debbano convivere perchè ciò è utile a tutti, interessi diversi. Interessi che non siano di per sè conflittuali (non c’è conflitto a priori tra il rafforzamento delle comunicazioni su ferro e la tutela dell’ambiente e della salute degli abitanti) devono poter trovare soddisfazione senza che l’uno calpesti l’altro.
La questione è solo tecnica per un verso, e politica per un altro. Nel caso della ferrovia in Val di Susa alla tecnica appartiene l’individuazione del tracciato e delle modalità che rendano minimi i danni e i modi in cui i danni residui possano essere compensati; alla politica appartiene la scelta del livello di priorità da assegnare alla allocazione delle risorse da impiegare per quel tracciato in relazione a impieghi alternativi (la guerra, il premio alla rendita, la promozione dei consumi superflui ecc.).
Ma nell’un caso e nell’altro tecnica e politica hanno bisogno di impiegare uno strumento specifico, che spesso viene considerato un orpello o un impaccio: qualcosa che appare solo esornativo, o addirittura una procedura che ostacola invece di aiutare. Mi riferisco alla pianificazione del territorio. E naturalmente mi riferisco alla pianificazione democratica, poiché abbiamo scelto la democrazia (e i nostri padri e fratelli più grandi, negli anni tra il 1943 e il 1945, proprio anche nelle montagne della Val di Susa).
Che cosa significa pianificazione democratica? Ricordiamolo a chi sta per stendere il programma di governo dell’Unione.
Significa in primo luogo che le scelte relative all’uso del territorio, e alle sue trasformazioni, si fanno a partire dalla conoscenza approfondita del territorio: della sua struttura, della sua dinamica, della popolazione che lo abita e lo utilizza.
Significa che queste scelte non si fanno separatamente (da un lato le infrastrutture, dal’altro l’ambiente e il paesaggio, dall’altro l’economia e la società, dall’altro le urbanizzazioni), ma nel loro insieme, sinteticamente: perchè la pianificazione è l’arte della sintesi, non la tecnica della giustapposizione.
Significa che di ogni trasformazione si valuta quali saranno i prezzi e i vantaggi, e si individua chi li paga e chi ne beneficia: e le scelte politiche, gli schieramenti veri, si compiono in base alla decisione di come ripartire gli uni e gli altri.
Significa che tutto ciò non si compie nel chiuso dei gabinetti politici e degli studi tecnici, ma coinvolgendo tutte le popolazioni interessate: ricordando che pianificazione e democrazia sono in primo luogo attività formative, bottom-up e top-down.
Hanno seguito questi semplici insegnamenti dell’arte del buon governo in una società complessa quanti hanno concorso alla decisione dell’Alta velocità in Val di Susa? E’ legittimo (dalla lettura delle cronache) dubitarne. Non è legittimo stupirne, se ci si guarda in giro e ci si informa al modo in cui i nostri governanti affrontano le scelte sul territorio.
Non parlo solo dei berlusconiani a pieno titolo. Mi riferisco anche a quelli che indossano casacche di colore diverso, e anzi opposto.
Un esempio. La regione Friuli-Venezia Giulia, amministrata da una maggioranza, una giunta e un presidente di centro.sinistra sta per approvare una legge per la pianificazione del territorio la quale, nonostante i rabberciamenti che si tenta di fare all’ultimo momento per ridurne il devastante impatto culturale e pratico, è costruita per “liberare” la decisione, la progettazione e la realizzazione delle infrastrutture dagli impacci della contemporanea considerazione delle esigenze (ambientali e sociali) del territorio.
Per di più, nella disattenzione di un’opinione pubblica cui la grande stampa d’opinione e le poderose batterie della TV fanno credere che le grandi questioni siano i capricci di Mastella, le risse per i “governatori” (ignoto è lo stupido che ha coniato questo termine, ma numerosi gli stupidi che lo seguono), la bontà degli italiani (e di B.) verso i “poveri alluvionati”.
Perchè, in un sito il cui centro è l’urbanistica ( urbs, civitas, polis) tanta attenzione a questo problema? Altre cose stanno distruggendo in Italia, oltre al territorio e alle regole della democrazia.
Le prospettive del lavoro, la sua remunerazione, il suo peso nella società, sempre più colpiti dalle nuove “flessibilità”, dall’incontrollato aumento dei prezzi, dall’assenza di una politica industriale (per la produzione di beni materiali e immateriali), dall’incentivo a tutte le forme di rendita, dallo smantellamento dello stato sociale, dalla privatizzazione (e mercificazione) dei servizi collettivi.
La funzione della scuola, chiusa nella forbice tra il depotenziamento della pubblica istruzione, e comunque la finalizzazione dei processi formativi ufficiali alla fornitura al “mercato” di forza lavoro fidelizzata all’azienda, e il sempre più largo affidamento della funzione formativa a soggetti e strumenti (la pubblicità, la soap-TV, e le altre mille forme della diffusione del “pensiero comune”) strutturati per produrre non il cittadino consapevole, ma l’individuo-consumatore dei miti e dei prodotti artefatti.
Il futuro della ricerca, vero motore di ogni sviluppo possibile, intrinsecamente legato alla formazione superiore e alla sua superiore qualità e libertà, oggi ridotta nelle condizioni da più parti (fino alla suprema autorità dello Stato) denunciate con documentata passione, e testimoniate dall’abbandono del paese da parte di molte intelligenze e dal trasferimento di quote rilevanti di ricerca da quella libera a quella asservita alle finalità e agli interessi delle aziende produttrici di merci.
L’elenco egli argomenti dei quali sarebbe giusto occuparsi non si conclude certamente qui: non ho citato la giustizia, la salute, non ho citato la politica estera e i diritti personali. Ma è altrettanto certo che un sito come Eddyburg non può toccarli tutti. A me sembra però che quello della censura, così come si manifesta oggi in Italia, sia tra quelli sui quali non si possa tacere, perché se si tacesse si renderebbe più difficile affrontare tutti gli altri problemi.
La libertà dell’informazione e della critica è infatti l’unico strumento che può consentire di vedere i problemi, e quindi è il passaggio obbligato per ogni possibile soluzione. Ciò è vero sempre, ma lo è in particolare in una democrazia incompiuta e imperfetta, per di più viziata e dimidiata proprio dal dominio del sistema dell’informazione da parte di un soggetto monopolistico.
Censura, ergo regime. Comincia ad apparire ozioso il dibattito se il regime ci sia o non ci sia, e anche quello, certo più raffinato, se vi si sia già dentro oppure se vi si stia scivolando. Se non abbiamo raggiunto il fondo, ci stiamo avvicinando rapidamente lungo una linea di caduta che sembra inarrestabile, se i casi di censura non hanno suscitato (nel paese, nella stampa, tra le forze politiche) una veemente, immediata protesta. Se, anzi, qualche segno fa temere che all’interno stesso delle forze di opposizione albergano tentazioni censorie.
Oggi si riunisce a Roma la “sinistra radicale”. Mi auguro che l’assemblea sia fruttuosa e aiuti a individuare (se ci sono) le ragioni di un’unità di progetti e d’intenti, una identità comune. E mi auguro che altrettanto avvenga nell’area “riformista”. Mi auguro soprattutto che sappiano entrambe individuare, come loro primo obiettivo, quello di interrompere la caduta verso il regime, verso la fine delle libertà e delle garanzie stabilite dalla Costituzione repubblicana. Quella costituzione che fu scritta, unitariamente, da un insieme di forze che certamente non erano più vicine tra loro di quanto, oggi, non lo siano Bertinotti e Mastella.
Il comunicato della redazione de l'Unità
Commissione Alpi: come si allontana un esperto scomodo
A un bravo giornalista, Vittorio Emiliani, che enuncia dei numeri basandosi sulle statistiche agrarie dell’Istat, risponde un facondo assessore regionale, Riccardo Conti, opponendogli numeri derivati dal satellite del programma Corine. Alle stesse fonti del giornalista - le statistiche agrarie dell’Istat - si riferisce una diligente parlamentare, la senatrice De Petris, nel presentare un suo interessante progetto di legge volto a proteggere le campagne dalla proliferazione di case casette strade e capannoni.
Ma gli esperti (abbiamo interpellato Antonio di Gennaro, di Risorsa srl, che da anni lavora sulle basi di dati territoriali italiane e internazionali in materia) sostengono che tutte le fonti citate sono inefficaci al fine di misurare davvero, con una qualche attendibile correttezza, le dimensioni e la dinamica del fenomeno. Quelle dell’Istat misurano la riduzione dei terreni agrari, che non è dovuta solo all’espansione urbana ma in larga misura all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali.. E il Corine non è capace di misurare aree urbanizzate inferiori ai 25 ettari, quindi trascura grandissima parte degli insediamenti più sparpagliati (il vero e proprio sprawl), come del resto i capannoni isolati, le strade e le altre infrastrutture.
Certo è che il fenomeno ha una dinamica sempre più preoccupante. Gli stessi dati più ottimistici, come quelli utilizzati dall’assessore Conti, lo confermano. L’espansione urbana della Toscana (al netto dello sprawl, degli insediamenti lineari e delle infrastrutture) sarebbe infatti allineata alle tendenze prevalenti in Europa. Ma pretendere di allinearsi con una tendenza generale dell’Unione europea non è certo di conforto: gli ultimi tre rapporti dell'Agenzia europea per l'Ambiente, che riguardano il land cover change, lo sprawl e l'evoluzione delle aree costiere, sottolineano come la crescita dei sistemi urbani in Europa stia avvenendo ad un tasso non sostenibile, che comporterebbe il raddoppio delle città nell'arco di poco più di un secolo.
Che fa l’Italia, che fanno le regioni? Nulla. Mentre il Parlamento lascia giacere provvedimenti che potrebbero servire e contrastare il consumo di suolo, il governo è incapace di qualsiasi iniziativa volta almeno a misurare, in termini attendibili, l’entità del fenomeno. Nessuna delle regioni cui è affidato il governo del territorio, fanno alcunché per misurare il fenomeno. Neppure quelle che hanno un’antica tradizione di corretto e lungimirante uso dello spazio come la Toscana, la Regione del Catasto Leopoldino e dell'Istituto geografico militare, da secoli all'avanguardia nel settore cartografico.
Se poi c’è qualche regione, come la Sardegna, che combatte una difficile battaglia per risparmiare il suolo dalle speculazioni più gravi, altre, come la Lombardia, promuovono addirittura emendamenti, alle già permissive leggi vigenti, che permetterebbero addirittura di costruire nuove lottizzazioni residenziali e zone industriali nei parchi regionali, in aree già da decenni riservate alla tutela del suolo rurale!
Al consumo di suolo è dedicata un'intera cartella, una sessione della Scuola di eddyburg, un libro e una legge