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Magari si comprenderà che rinunciare alla pianificazione urbanistica, o derogare ai suoi strumenti, puòcondurre alle stesse conseguenze di un omicidio o di una strage. Messina forse ha insegnato qualcosa.

Quarantatre anni fa successe, proprio in Sicilia, qualcosa di simile, ad Agrigento. Crollò un intero quartiere. Per fortuna l’immane crollo era stato preceduto da sinistri scricchiolii che avevano indotto gli abitanti a fuggire, così non ci furono morti. Allora l’opinione pubblica si scosse, il governo e il Parlamento reagirono. Il ministero del lavori pubblici svolse una rapida e accurata inchiesta, le cui conclusioni erano durissime nei confronti degli amministratori: “Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile ed umano”.

A quanti amministratori attuali potrebbero applicarsi quelle parole, se un ministro o un direttore generale volessero assumere lo stesso atteggiamento che allora assunsero il ministro Giacomo Mancini e il direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli?

Allora il Parlamento corse ai ripari. La frana di allora, come quella di adesso, era stata determinata dall’abbandono della pianificazione urbanistica, dal prevalere degli interessi della speculazione immobiliare su quelli della tutela del territorio, dal primato dell’interesse economico sulla regola nel pubblico interesse. Si tentò di rilanciare la pianificazione urbanistica, rendendola obbligatoria per tutti i comuni. Il succedersi di frane e alluvioni insegnò che il territorio, in ogni parte d’Italia, era stato devastato dal boom edilizio e dalla mancanza di attenzione per la sua fragilità. Si arricchì il quadro legislativo, e la cassetta di attrezzi della pianificazione territoriale, con nuovi strumenti: per la difesa del suolo, per la tutela dell’ambiente e del paesaggio.

Ma i nuovi strumenti, le nuove regole, vennero applicati poco e, spesso, male. Non si è voluto comprendere che le regole per la difesa dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio devono venire prima della decisioni di trasformarlo e devono prevalere su di esse. Le regole poste dai piani per la tutela devono essere stabilite senza alcun patteggiamento con un presunto “sviluppo” basato sull’urbanizzazione. Esse devono comandare sulla costruzione delle strade e delle ferrovie, delle urbanizzazioni ed edificazioni. E nessun intervento abusivo o illegittimo deve essere consentito o condonato.

Si tratta di una norma dettata dal buonsenso, oltre che dall’esperienza. Dovrebbe provocare in primo luogo l’accantonamento dei “piani casa” derogatori, e il rafforzamento degli strumenti di tutela (e di vincolo: sì, pronunciamola questa parola che a troppi non piace) che difendono il territorio. Sarebbe bello se fosse compresa e applicata da chi ha il potere e il dovere di farlo. Se questo non accadrà, sarà chiaro chi sarà stato responsabile delle sciagure e delle loro vittime, e sarà bene ricordarne i nomi.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 4 ottobre 2009 con il titolo: "Messina: ora non si parlerà più di condoni", e lì raccoglie numerosi commenti.

In eddyburg anche una cartella sui crolli ad Agrigento, 1966

Care amiche e cari amici, l’atteggiamento sostanzialmente favorevole dell’INU nei confronti dell’impostazione di fondo della legge per il governo del territorio, approdata il 7 febbraio all’aula di Montecitorio, è stato determinante nell’ostacolare la minoranza nella sua opposizione. Così mi è stato testimoniato da autorevoli parlamentari dei DS, ed era del resto evidente dalla lettura degli atti sia di fonte parlamentare che di fonte INU.

L’Istituto nazionale di urbanistica, di cui mi onoravo di essere stato presidente per dieci anni, si è macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto grave. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa affermazione di un’urbanistica moderna ed europea, quindi basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla prevalenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul riconoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini della Repubblica. Principi che l’INU ha per decenni promosso, proponendo strumenti adeguati a renderli concreti e ottenendo consistenti successi.

Mi rendo conto che l’appoggio dell’INU alla peggiore delle leggi urbanistiche configurabili è solo l’elemento di punta di un silenzio più generale sulle ragioni dell’urbanistica. Un silenzio che è assordante nell’ambito accademico (dove sembra che i principi fondamentali del governo pubblico delle trasformazioni del territorio siano uno dei tanti optional praticabili, e che l’attenzione alle tecniche perequative, valutative, negoziali abbia cancellato la consapevolezza degli aspetti strutturali dell’urbanizzazione). Un silenzio che è forse meno ingiustificabile, ma ancora più preoccupante, nell’ambito politico, dove il nesso tra pianificazione urbanistica, pratica della democrazia e condizioni di vita delle cittadine e dei cittadini è stato del tutto smarrito (talchè si giudica l’urbanistica questione “settoriale”, riservata alle competenze degli urbanisti di professione). E un silenzio che si estende poi all’ambito culturale degli altri saperi, mai come oggi sordi alle ragioni del governo pubblico delle trasformazioni territoriali.

Non so quale eco quanto vi scrivo troverà nelle vostre intelligenze. E non so se condividete o meno la mia preoccupazione per la legge in via di approvazione. Se non lo conoscete, vi invito a leggere l’appello “Fermate le legge Lupi”, che mi sono impegnato a diffondere. Se siete d’accordo con le valutazioni che esprime, dopo aver letto il testo della legge potrete mandare la vostra adesione all’appello, a me o (meglio ancora) nel modulo automatico del sito dell’associazione Italia Nostra.

I documenti sulla legge Lupi

La tesi che è stata ribadita è sintetizzabile in quattro punti: 1) la proposta di promuovere l’ampliamento delle costruzioni esistenti non ha nulla a che fare con il problema della casa, che esiste ma ha bisogno di provvedimenti di segno radicalmente diverso; 2) quel “piano casa” è un grimaldello per scardinare il sistema di regole sul territorio (la pianificazione urbanistica) il cui fine è dirigere le trasformazioni del territorio verso finalità d’interesse generale, sostituendole con il rafforzamento della speculazione immobiliare; 3) in particolare, l’effetto principale del “piano casa” è proseguire la distruzione del paesaggio italiano e contrastare l’attuazione di quel “codice dei beni culturali e del paesaggio”, che costituisce l’estremo tentativo di tutelare quel bene, d’interesse della Repubblica e perciò tutelato dalla Costituzione, che è il nostro paesaggio; 4) le regioni, e in particolare quelle amministrate dal centro sinistra, hanno avuto il grave torto di avallare la logica di quel “piano casa”, di attuarla prima ancora che il governo trasformasse in norma statale le premesse dell’intesa con le regioni, accentuandone addirittura (come nel caso della Campania) gli elementi negativi, e comunque accettandone la logica perversa.

Il problema della casa esiste. Esso non dipende dal fatto che i volumi edificati siano inferiori al fabbisogno, ma dalla differenza tra il costo della casa e il prezzo che possono pagare quelli che di casa hanno bisogno (i giovani, la maggioranza dei lavoratori dipendenti, gli immigrati, per non parlare di quei “poveri” il cui numero sta aumentando), dal fatto che le case in affitto sono in Italia molto inferiori a quanto sarebbe necessario per garantire una ragionevole mobilità territoriale, che gli alloggi a prezzi accessibili sono spesso distanti dai luoghi di lavoro e obblighino a stressanti trasferimenti da casa a lavoro. Affrontare questo problema non ha nulla a che fare con il promuovere l’aumento di cubatura delle abitazioni esistenti (cioè con l’aumento del patrimonio di chi la casa l’ha già), e meno ancora con l’incremento delle cubature di alberghi o capannoni industriali. Richiederebbe un vasto programma di edilizia pubblica, finanziata dallo stato e realizzata su aree pubbliche, concessa in affitto a chi ha bisogno di abitazione, depurata dall’incidenza dell’incremento della rendita fondiaria. Quel programma che fu concepito e avviato negli anni Settanta e poi smobilitato a partire dagli anni Novanta. Di questo parleremo un’altra volta.

M’interessa invece riferire della recente polemica, nella quale sono stati ripresi temi ampiamente trattati su eddyburg.it. Essa è partita da un articolo di Salvatore Settis, il prestigioso direttore della Scuola normale di Pisa, autorevole presidente del Consiglio superiore dei beni culturali fino alle sue dimissioni pochi mesi fa. Settis ha ricordato che le regioni, a partire da quelle di sinistra, hanno attuato il “piano casa” proposto dal premier prima ancora che esso diventasse legge dello Stato, e che «l’aggiunta di volumetrie vietate fu l’oggetto dei condoni edilizi di Berlusconi deprecati dalla sinistra». Ma rileva che ora «le regioni “di sinistra”, sbandierando la dubbia etica del male minore, difendono il proprio piano-casa con un argomento miserevole: perché esso consente devastazioni minori di quelli delle regioni “di destra”». Ampliando il discorso Settis, che ha seguito con grande attenzione le vicende del Codice del paesaggio, rileva che «la convergenza fra governo e “opposizione” non è un caso, è il cuore del problema». E sebbene la nuova disciplina di tutela del paesaggio sia «in un Codice bipartisan, prodotto da due governi Berlusconi e da un governo Prodi non meno trasversale è stata la decisione di rinviarne tre volte l’entrata in vigore».

A Settis hanno risposto subito due esponenti delle regioni di centrosinistra, Maria Rita Lorenzetti dell’Umbria e Riccardo Conti della Toscana. Essi hanno difeso la loro anticipata attuazione dell’inesistente decreto del governo con due argomenti: Umbria e Toscana si sono sempre comportate bene nella difesa del paesaggio (e questo certamente è vero, ma non si comprende perché ora si debba mutare atteggiamento) e che la sinistra deve porre attenzione agli «edili che perdono il posto di lavoro» e tener conto della congiuintura economica. Che da una crisi come quella attuale si possa uscire ripristinando i meccanismi che l’hanno generata (la “bolla immobiliare” non è estranea allo tsunami che si è sollevato dagli USA) è veramente indice di miopia. Che rilanciare un boom edilizio basato sulla deroga ai piani urbanistici come quello che, nell’immediato dopoguerra e con ben altre motivazioni, devastò gran parte dei paesaggi italiani e rese invivibili le città, sembra davvero lontano da una politica “di sinistra”, come ha osservato qualche giorno fa Sandro Roggio su l’Unità. É perciò credibile il rilievo che ha fatto su eddyburg.it Maria Pia Guermandi, quando ha osservato che la scelta delle regioni che si sono accodate al “piano casa” del premier è una scelta «culturalmente suicida» ed è «economicamente avventurosa, miope e arcaica», ma è probabilmente una scelta che i suoi promotori ritengono «elettoralmente redditizia». Che ci indovinino sembra dubbio; sono convinto che l’elettore che accoglie parole d’ordine e proposte “di destra” riterrà sempre che di esse sarà più efficace interprete un personale politico “di destra”.

Non solo perciò è dannoso per il paese inseguire il governo nella sua politica di rilancio di un’edilizia di mera speculazione, ma non ha neanche senso attardarsi a proporre “piani casa” abborracciati, svincolati da quella visione ampia e programmatica che si affermò negli anni Settanta. Meglio tentar di “depeggiorare” i provvedimenti che le maggioranze di destra e di sinistra stanno promuovendo: come in Campania, dove la giunta Bassolino sta tentando di far passare la peggiore delle leggi finora varate, e come in Sardegna, dove la giunta Cappellacci sembra voler togliere a Bassolino il primato della legge peggiore.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 28 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti.

Tutti gli articoli citati sono disponibili su eddyburg.it, nella cartella Terremoto all'Aquila

Questo il senso di una recente sentenza del Consiglio di Stato a proposito della bocciatura di una lottizzazione a Cala Giunco, sulle coste sarde. Nel nostro Paese, nel Continente e nelle Isole, la Costituzione esiste ancora ed è uguale per tutti. Uguale per tutti è l’articolo 9, che impegna tutti alla tutela del paesaggio come uno dei beni supremi. La legislazione che tutela il paesaggio ha un valore che supera altre regolazioni, compresa quella dei cosiddetti “piani casa” (che con il bisogno di casa non hanno quasi nulla a che fare).

Scrivono i giudici del Consiglio di Stato: «Nella valutazione comparativa di contrapposti interessi, quello generale alla salvaguardia del paesaggio anche a tutela delle generazioni future, e quello individuale e imprenditoriale allo sviluppo degli insediamenti turistici, trova piena legittimità costituzionale la previsione regionale, estesa anche alle lottizzazioni in corso».

Questa sentenza ha due effetti, entrambi importanti: il primo riguarda territorialmente la Sardegna, l’altro l’Italia.

In Sardegna, è ulteriormente ribadito il giudizio positivo che la giustizia amministrativa esprime a favore della pianificazione paesaggistica della giunta Soru. Questa è «di particolare rigore, ma trova piena giustificazione nell’esigenza di salvaguardare un paesaggio di incomparabile bellezza, che ha già subìto attentati a causa della propensione italica ad un’edificazione indiscriminata».

Analoghe sentenze del tribunale amministrativo regionale avevano già proclamato la correttezza tecnica, amministrativa e giuridica del PPR, e dell’intera azione di difesa della costa e dei beni paesaggistici, ben al di là della fascia dei risibili 300 metri delle vecchie norme e degli stessi 3000 metri del primo, e transitorio, provvedimento “salva coste”. Ma l’avallo, ampiamente circostanziato e motivato, del giudice nazionale acquista un valore significativo, anche perché interviene in una fase in cui si tenta di smantellare gli argini eretti per tutelare gli interessi dell’umanità attuale e futura in merito alla bellezza creata dalla natura e dalla storia.

C’è però anche un motivo di rimpianto e un motivo di rimprovero: il rimpianto per la mancata estensione del PPR all’intero territorio della Sardegna; il rimprovero per chi non ha consentito di portare a termine il lavoro, sia con l’estensione del PPR sia con l’attivazione delle politiche previste per la sua implementazione. Ma il futuro è ancora aperto. L’attenzione di chi, in Sardegna, vuole opporsi alla marea montante della cementificazione, privatizzazione, segregazione (come i tentativi di riservare le spiagge ai turisti ricchi), dovrebbe indirizzarsi alla ripresa del cammino iniziato dalla giunta e non alla rincorsa della logica nefasta dei “piani casa”.

Anche al resto dell’Italia la sentenza del Consiglio di Stato dice qualcosa di interessante e utile per resistere. Le ragioni del paesaggio e della sua difesa restano vincenti su tutte quelle che le minacciano, siano esse motivate da interessi di speculazione immobiliare o siano argomentate da preoccupazioni relative allo “sviluppo”. Non è necessario alcun astratto “equilibrio” tra le esigenze della tutela e quelle di uno “sviluppo” basato sul parametro quantitativo del PIL. Le prime prevalgono in ogni caso, e l’unico sviluppo umanamente e socialmente valido è quello basato sulla messa in valore (non sulla “valorizzazione” economica) del patrimonio che i nostri avi ci hanno lasciato, e che dobbiamo conservare per i nostri posteri, accrescendone la consistenza e la qualità.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 21 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti.

Si vedano gli articoli di Mauro Lissia su la Nuova Sardegna e di Paolo Urbani su l'Unità a proposito delle sentenze dei tribunali amministrativi.

Per l'equilibrio tra tutela e sviluppo si vedano l'articolo degli assessori regionali di Toscana ed Umbria e la replica di eddyburg .

Il secondo tassello è stato l’avvio di una operazione di aumento del volume (e del relativo valore commerciale) delle costruzioni esistenti, in deroga ai piani e ai vincoli; la proposta è stata raccolta da tutte le regioni, di destra e sinistra, nel timore di perdere il consenso dei proprietari di case e della imprese edilizie. Il terzo tassello è la proposta di realizzare in Italia un centinaio di “new towns”, da costruire su aree demaniali e su quelle dove sorgono quartieri Iacp. Sulla privatizzazione (poiché di questo si tratta) delle aree demaniali ho già scritto la settimana scorsa denunciando il furto, che in tal modo si compirebbe, di un patrimonio che è di tutti. Ma vorrei fare una riflessione più ampia.

L’insieme delle proposte rivela – nella più ottimistica delle ipotesi – la più profonda ignoranza di come si ponga in Italia il problema della casa. In primo luogo, non è un problema quantitativo. In Italia ci stanno già più abitazioni che famiglie, e gli sportelli dei comuni continuano a sfornare permessi di costruire a più non posso. Le periferie delle città sono piene di case invendute. Il fatto è che in Italia c’è una quantità di abitanti (ivi compresi gli immigrati chiamati in Italia dalle imprese e dalle famiglie indigene) che non trovano alloggio da condurre in affitto, o da comprare, a prezzi compatibili con i loro redditi. Non si tratta solo di forestieri ma anche di coppie giovani e non più giovani che non vogliono più, o non possono, vivere ancora con i loro genitori. Si tratta di persone che lavorano in luoghi diversi da dove abitano, e che vorrebbero lasciare un alloggio che li obbliga a fare ore di viaggio scomodo e costoso. Si tratta di persone che hanno perso il lavoro, o non l’hanno ancora trovato, e che non godono di reti protettive parentali.

Chi pensa a questi abitanti del nostro paese? Certamente non le norme che favoriscono l’aumento di volume delle case esistenti. In misura assolutamente irrisoria quei 350 milioni già stanziati dal governo Prodi. E le cento “nuove città”, che si affiancheranno agli 8mila comuni e alle decine di migliaia di città e paesi che già esistono? Serviranno a chi ha i soldi per contrarre un mutuo per l’acquisto di quelle case. Non se ne potranno certo giovare le 650mila famiglie che, avendone i requisiti, hanno chiesto di accedere all’edilizia popolare, e neppure gli immigrati o i lavoratori precari. Quello che è certo che guadagneranno le imprese cui saranno cedute le aree demaniali e quelle degli Iacp: aree, come ho scritto la settimana scorsa, che sono un bene di tutti, di cui il governo è solo amministratore e non proprietario, perché è patrimonio di tutti noi.

Come urbanista non posso poi non indignarmi quando sento parlare di “new towns”. Si vuole evocare la politica applicata nel dopoguerra in Gran Bretagna, quando si avviò la realizzazione di nuove città dopo un attento studio e una rigorosa pianificazione territoriale e urbanistica, collegata a un vasto programma di sviluppo economico. Leggete il recente articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della sera (4 settembre), ripreso in eddyburg.it, per comprendere tutta la differenza tra le “new towns” e le lottizzazioni tipo Milano Due, che costituiscono il modello di riferimento dell’attuale governo.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali l’11 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti. L'immahine è la new town (di quelle vere) di Milton Keynes, G.B.

Non so se tutti sanno che cos’è il demanio pubblico. È qualcosa che appartiene a tutti noi cittadini italiani. È stato formato con le tasse che noi, e i nostri padri e nonni, abbiamo pagato allo Stato. Una parte è costituita dagli immobili (terreno ed edifici) che appartenevano alla proprietà feudale degli stati preunitari, e quindi costituisce il patrimonio pubblico di base della nostra nazione. Il resto l’abbiamo proprio pagato noi, direttamente, con le nostre tasse.

Vi sembra giusto che questo patrimonio di tutti sia privatizzato? A me no. Così come non mi sembra giusto che sia venduto a privati il patrimonio degli Istituti delle case popolari, anziché essere dato in affitto alle famiglie più bisognose. La disponibilità di un patrimonio edilizio pubblico è essenziale. Ogni paese civile ne dispone in percentuale molto più elevate che in Italia: 34 % del totale delle abitazioni in Olanda, 20 % in Svezia, 15 % in Francia, meno del 5 % in Italia. Il dato è ancora più preoccupante in quanto in Italia è molto più bassa che negli altri paesi europei la percentuale di alloggi in affitto. Non riescono a trovare un’abitazione in affitto a prezzi decenti non solo quanti sono poveri (e i poveri, si sa, in Italia stanno aumentando), ma anche chi ha un normale reddito di lavoro e deve spostarsi dalla casa dei suoi genitori per trovare un’occupazione.

Ridurre il patrimonio abitativo pubblico, investire risorse per aumentare il peso delle abitazioni in proprietà rispetto a quelle in affitto, è una politica che accresce le diseguaglianze sociali e riduce la libertà di cercare occupazione là dove c’è. Obbliga chi ha un po’ di risparmi a investire nell’acquisto di una casa in proprietà, distraendo così il risparmio dagli impieghi produttivi e dai consumi, quindi indebolisce il sistema economico. È una politica reazionaria nel vero senso del termine: perché porta il nostro paese all’indietro nel tempo.

Del resto, come molti hanno osservato anche il “piano casa” di cui si sta dibattendo è un ritorno al passato. Affidare la ripresa economica allo sviluppo dell’attività edilizia e, per ottenere questo risultato, “liberare” i costruttori e i proprietari immobiliari dalla regole dei piani urbanistici, è proprio la strada che percorsero (ma con ben altre motivazioni e in una realtà radicalmente diversa) i governi italiani degli anni Cinquanta. Il diffondersi della cementificazione . la devastazione del paesaggio e delle nostre città compiuti ignorando la pianificazione urbanistica provocarono allora guasti di cui ci si rese conto, tentando di correre ai ripari. Oggi si è ripresa quella strada.

Curiosamente però, come ha osservato Salvatore Settis su la Repubblica del 1 settembre, il decreto del governo non è mai arrivato, mentre le regioni si sono tutte prodigate per attuarlo. Ciascuna a suo modo, ma tutte, destra o sinistra, nella stessa logica: bisogna privilegiare i proprietari di case rispetto a quelli che una casa non l’hanno, e non possono né comprarla né prenderla in affitto ai prezzi del mercato. I voti dei primi sono di più, e l’obiettivo principale è prendere più voti e consolidare il potere, indipendentemente dal merito dei problemi e delle soluzioni. Questa sembra essere diventata una regola bipartisan: ragione di più per esserne preoccupati.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 3 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti

L’incomparabile paesaggio e il delicato equilibrio territoriale della penisola sorrentino-amalfitana erano difesi da un piano paesaggistico, redatto in conformità alla legge Galasso del 1985. Era stato approvato con una legge delle regione Campania nel 1987. Il piano non consentiva che, in quell’area, si costruisse un simile oggetto. Le norme del piano erano chiarissime, e il TAR aveva infatti bocciato, nel 2000, il piano regolatore del comune di Ravello che prevedeva quell’intervento. Ma qualcuno ebbe un’idea brillante: perché non chiediamo a un famoso architetto, di fama mondiale, di farci un bel disegno di una bella costruzione in quel luogo? Riusciremo a vincere le opposizioni. Così avvenne. Fu interessato l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, il progettista di Brasilia. Nonostante la sua tarda età (è nato nel 1907) il grande architetto progettò l’edificio e consegnò il bozzetto ad Antonio Bassolino, che era volato fin laggiù per vedere Lula e ricevere il dono di Niemeyer. Con il palese proposito di scavalcare l’illegittimità dell’approvazione del progetto regione e comune promossero una procedura eccezionale: un “accordo di programma” che avrebbe scavalcato la legge.

Italia nostra si oppose. Divampò la polemica. I sostenitori del progetto raccolsero 167 firme di famosi intellettuali, giornalisti, scrittori, filosofi, economisti, perfino ambientalisti: da Massimo Cacciari a Renato Brunetta, da Paolo Sylos Labini a Mario Pirani, da Giorgio Ruffolo a Nicola Cacace, da Ermete Realacci a Cesare De Seta e tantissimi altri di ugual peso. Altri si opposero. Le ragioni degli oppositori erano di diverso ordine. In primo luogo, la difesa della legalità: se c’è una legge che vale per tutti, questa legge non può essere scavalcata con un atto d’imperio, solo perché questo atto è sollecitato e costruito dal presidente della Regione. In un paese che rispetta la legalità non si fanno provvedimenti ad personam. Accanto a questo, c’erano ragioni di merito, che poi erano alla base della tutela decretata dal piano paesaggistico. Il paesaggio di quella costa è un paesaggio perfetto, nel corso dei secoli lavoro dell’uomo e natura hanno trovato un equilibrio che tutto il mondo ama, non ha senso aggiungere – alle poche brutture delle recenti costruzioni abusive, che occorre distruggere – ulteriori interventi dissonanti. Esistono meravigliose ville e altre costruzioni antiche, già in parte adoperate per splendide manifestazioni musicali, si utilizzino quelle. Inoltre un auditorium di 400 posti, che eserciterebbe un richiamo di massa su tutta la penisola, richiamerebbe grandi quantità di automobili che peggiorerebbero ancora il traffico sulle tormentate – ma bellissime – strade della costiera.

Gli interventi favorevoli (su eddyburg c’è un’intera cartella, “SOS Ravello”, dedicata all’argomento) puntavano tutti essenzialmente su un argomento: la bellezza incontestabile di un’opera d’arte deve vincere su tutto. Adesso l’opera d’arte c’è, è lì, ha modificato il paesaggio della Costiera amalfitana. Il disegno originario di Niemeyer è un lontano ricordo: il progetto esecutivo è stato fatto dopo, da altri. Comunque, chiunque può giudicare. Qualcuno che lo ha visto dice che meriterebbe d’essere definito un ecomostro. Ma non voglio esprimere il mio parere. Vorrei chiedere, a chi ha l’occasione di passare per la costiera amalfitana con una macchina fotografica, di fotografarlo e di mandare le immagini, in formato .jpg, all’indirizzo eddyburg.it. Formeremo una giuria di fotografi che sceglierà quelle che, a Natale, inseriremo nel sito.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 27 agosto 2009, e lì raccoglie numerosi commenti

Su questo argomento Eddyburg ha pubblicato tre articoli: due del manifesto del 13 agosto, dove la redazione informa dell’atto e delle reazioni suscitate e Sandro Roggio argomenta culturalmente e tecnicamente la scelta regionale, e uno della Repubblica del 12 agosto, dove Giovanni Valentini, pur nell’ambito di una valutazione che sembra complessivamente positiva (come ci si aspettava, da uno dei pochi giornalisti attenti all’impatto ambientale delle trasformazioni territoriali) adombra alcune critiche. Mentre rinvio agli articoli del manifesto chi voglia più puntuali informazioni sul contenuto del decreto, vorrei soffermarmi su alcune critiche sollevate, esplicitamente o implicitamente, da Valentini.

Una prima critica Valentini la formula al fatto che il provvedimento vincola (temporaneamente, per tre mesi) una fascia indiscriminata di 2.000 metri. Qui Valentini fa propria una eccezione che era stata subito sollevata, nell’isola, dagli amici (per professione operativa o per interesse patrimoniale) del cemento turistico, o dai loro rappresentanti con la fascia tricolore.

“Per un´isola frastagliata come la Sardegna – afferma Valentini - due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi. Dipende, tratto per tratto, dalla configurazione della costa. Sarà opportuno perciò verificare in concreto, comune per comune, le caratteristiche particolari di questo o quel territorio per decidere di conseguenza. Sul piano del metodo, un confronto aperto e democratico con le amministrazioni locali comunque s´impone”.

Giusto. E infatti sia nella relazione del decreto, sia nel disegno di legge presentato contestualmente, ci si impegna a procedere a quella verifica “in concreto, comune per comune”, delle “caratteristiche particolari di questo o di quel territorio per decidere di conseguenza”. Ma si decide di farlo nell’unico modo corretto in una società moderna e democratica: cioè con un piano: con uno strumento che consenta gli approfondimenti necessari, la sintesi tra le diverse esigenze, e una procedura trasparente nell’ambito della quale tutti possano conoscere, esprimere le proprie osservazioni, essere considerati nelle loro proposte.

La questione è proprio questa. Si denuncia e si depreca, giustamente, quando questa o quell’altra iniziativa minaccia di deturpare il paesaggio o di degradare l’ambiente, ma ci si dimentica che gli strumenti attraverso i quali minacce e degradi possono essere durevolmente contrastati non sono articoli di giornali. Sono quegli strumenti complessi che la cultura liberale ha promosso, istituito, e in paesi fortunati praticato; sono i piani urbanistici e territoriali, magari “con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”, secondo le parole di Giuseppe Galasso (un liberale, appunto). Certo, i piani sono una cosa seria, richiedono tempo, intelligenza e determinata volontà politica per essere formati. Se la “tutela intelligente” che essi consentono non c’è, e su quel territorio sussistono tensioni edificatrici e privatizzatici minacciose, occorre un atto di “tutela stupida”, come quel vincolo generalizzato che il decreto Soru provvidenzialmente ha istituito.

Un’altra critica che Valentini raccoglie (e il fatto che la raccolga un giornalista con i suoi crediti la dice lunga sulla forza dell’ideologia dominante) è quella che il vincolo (temporaneo) sulla fascia costiera si tradurrebbe in una valorizzazione delle proprietà immobiliari esistenti. Afferma Valentini: “c´è il rischio di favorire gli interessi forti, quelli di chi già possiede abitazioni, residence, ville o alberghi sulle coste sarde. O peggio ancora, di alimentare involontariamente una bolla speculativa, come quella finanziaria ai tempi d´oro di Internet”.

Se si volesse tradurre in indirizzi pratici questa preoccupazione si dovrebbe allargare a dismisura l’edificabilità delle coste sarde. Con esiti prevedibili per chiunque, e certo distanti rispetto alle attese dei difensori del paesaggio, tra i quali certamente il giornalista di Repubblica merita di essere annoverato. E con buona pace di quegli economisti (anch’essi liberali) i quali, da Davide Ricardo a Luigi Einaudi si sono affannati a dimostrare che la rendita immobiliare non segue le medesime leggi di mercato che governano le merci fungibili.

Una terza osservazione di Valentini merita di essere raccolta, poiché anch’essa esprime un martellante idolum fori.

“Per crescere e prosperare, alla Sardegna serve un modello di sviluppo economico-sociale, moderno, compatibile con la difesa dell´ambiente e con la valorizzazione di tutte le sue risorse, a cominciare proprio da un turismo sostenibile” afferma Valentini. E prosegue ammettendo che “ha ragione il governatore Soru a dire che questo non si può identificare con l´attività edilizia”. Ineccepibile, fin qui. Purtroppo prosegue: “Ma è pur vero che non deve ispirarsi a un paradigma ‘cavernicolo’, fatto esclusivamente di campeggi, tende, roulotte e caravan. La ‘perla del Mediterraneo’ ha bisogno di essere protetta dai nuovi barbari, non di essere blindata e diventare un´isola off limits”.

In queste affermazioni davvero si riflette una concezione del turismo, e più in generale della fruizione del paesaggio, che definire arcaica è poco. Impedire l’edificazione indiscriminata significa soltanto arrestare quello sfruttamento rapace e distruttivo della risorsa stessa che alimenta le correnti di visitatori. Significa porre le premesse per un turismo né devastatore e privatizzante (come quello dominante in tanta parte delle coste sarde) né ispirato al “paradigma cavernicolo”, altrettanto distruttivo. Un turismo, invece, capace di definire un equilibrato rapporto tra la capacità di carico delle risorse e le presenze di visita e soggiorno, di estendere la fruizione a tutte le numerosissime aree ricche di qualità ambientali e paesaggistiche, di programmare l’offerta turistica in modo da evitare che l’unica discriminante alla fruizione sia quella del reddito.

Sviluppare un turismo siffatto non è certamente facile, e richiede intelligenza, impegno, volontà politica duratura, capacità di guardare al futuro. Richiede però che si compia un primo passo. Proprio quello che ha fatto Renato Soru: mettere un fermo a quel turismo cementizio che oggi è il protagonista della devastazione delle coste. Sarebbe bello se la Sardegna diventasse davvero off limits per quel turismo, che fu oggetto – sulle pagine stesse di Repubblica – delle memorabili sacrosante invettive di Antonio Cederna. In anni lontani. Quando alla pianificazione del territorio si credeva; se non in Sardegna, nelle regioni amministrate dalla sinistra (e non esclusivamente in quelle).

Gli articoli del manifesto sul decreto Soru

L'articolo di Repubblica sul decreto Soru

Il termovalorizzatore della Campania

Il governo incrimina lo Statuto della Toscana

Siamo ormai abituati ai gesti istrionici per esserne troppo stupiti; ma frasi come quelle pecorecce espresse nei confronti della signora sotto la tenda, o l’invito a farsi una vacanza al mare, o la promessa di assegnare agli sfrattati una delle sue numerose case, hanno urtato particolarmente perché pronunciate al cospetto di una tragedia ancora viva, di fronte alle stesse dolenti persone che ancora ne portavano i segni.

Ha colpito ed è stato criticato il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, più facili grazie alla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento che è stata adottata (e criticata). Altrettanto giustamente sono state criticate le condizioni di vita nelle improvvisate tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini, cacciati dalle loro case da un disastroso ma prevedibile evento.

Le critiche e preoccupazioni su questi aspetti sono giuste. Ma la vera tragedia del modo berlusconiano di procedere alla ricostruzione risiede in due scelte, tra loro strettamente collegate, che avrebbero meritato un’attenzione più ampia: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non ha promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia? A me, francamente, che questo modo di governare sia volto all’arricchimento di qualche clan interesse meno del fatto che questo modo uccide la città e la società. Rende vera e attuale nel nostro Abruzzo la frase di Noemi Klein: “le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2009 nel giornale online Tiscali Italia, sul quale compaiono anche i numerosi commenti dei lettori, terribilmente istruttivi.

E’ quello che mi succede quando considero l’opinione corrente che si ha in Italia a proposito del territorio.

L’opinione corrente ha raggiunto il suo apice nella concezione del territorio propria del mondo, ideale e materiale, che è splendidamente rappresentato da Berlusconi. Può essere definita sinteticamente nel seguente modo.

Il territorio è qualcosa che esiste per essere trasformata, e le regole che le trasformazioni devono seguire sono quattro: (1) ogni trasformazione, sia la costruzione di una villa o un quartiere, di un ospedale o un’autostrada, deve consentire di guadagnare molto al proprietario o, nel caso di opera pubblica, al concessionario; (2) il guadagno deve manifestarsi nel tempo più breve possibile; (3) le conseguenze negative della trasformazione non devono ricadere sulle spalle del proprietario o concessionario; (4) tutto ciò che minaccia di ostacolare, o limitare, o ritardare il funzionamento di quelle tre regole deve essere contrastato e rimosso.

Vediamo alcuni casi dell’applicazione di questa concezione del territorio.

- La proposta di legge urbanistica dell’on. Lupi, presentata nella XV legislatura e ripresentata nella presente, che vuole sostituire a un sistema di regole dettate dal potere pubblico democratico l’iniziativa della proprietà immobiliare.

- La preferenza per le grandi opere realizzate con il sistema della concessione a imprese, mediante contratti che sottraggono al potere democratico il controllo effettivo del risultato, garantiscono il guadagno al privato e scaricano sul bilancio pubblico le perdite: è il sistema che vediamo applicare per le autostrade e per gli ospedali, per il ponte dello Stretto e per il MoSE della Laguna di Venezia.

- La soluzione del problema della casa affidata all’interesse del singolo proprietario di case o capannoni di aumentarne la cubatura, e quindi il valore venale, senza alcuna considerazione delle conseguenze sulle reti (fognature, acqua, viabilità), sui servizi (scuole, asili, palestre, parchi), sull’estetica e sulla funzionalità urbane.

- La continua spinta alla riduzione delle aree protette per le loro qualità, e perciò tutelate: una spinta aggravata dalla continua proroga della piena entrata in funzione del Codice del paesaggio e testimoniata dei colpi di mano che si stanno facendo per il Piano paesaggistico regionale della Sardegna.

La posizione alternativa, che condivido, è quella che vede il territorio e le sue qualità come un bene che nel suo complesso deve essere governato in nome dell’interesse generale, con una serie di azioni orientate prioritariamente a individuarne e conservarne le qualità (naturali e storiche), a garantirne la fruizione libera e l’accesso a tutti, compatibilmente con le esigenza della tutela. Un bene che può essere trasformato solo per utilizzarlo per esigenze che riguardino la società nel suo complesso, e in modi che ne provochino un miglioramento sul piano della bellezza e del saggio impiego delle risorse che esso fornisce, come su quello del soddisfacimento di fondamentali diritti umani e sociali. Mi riferisco al diritto ad abitare e fruire di spazi comuni dove intrecciare relazioni, aumentare il proprio potenziale di umanità e civiltà, esercitare il diritto della partecipazione al governo e all’espressione del consenso e del dissenso; al diritto a lavorare in condizioni di certezza e di sicurezza; al diritto di muoversi col minimo di ostacoli e di prezzi per le proprie necessità di lavoro, di scambio, di piacere.

Gli spazi naturali risparmiati dall’uomo e quelli trasformati dalle attività agricole rispettose della natura e dei suoi ritmi, le città della storia e quelle saggiamente sviluppate, sono testimonianze vive di trasformazioni orientate in questa direzione: nella direzione del territorio come un patrimonio comune, e non come strumento per l’arricchimento di pochi.

Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2009 nel giornale online Tiscali Italia, sul quale compaiono anche i commenti dei lettori

26 luglio 2009

Uscire dalla crisi? No, è il momento di

cambiare il sistema

Uscire dalla crisi. Non c’è soggetto di sinistra - partito, associazione, sindacato - che non affermi la necessità di questo obiettivo. Proprio come le destre, anche se certo con finalità diverse. Nella convinzione che solo rimettendo in moto l’economia, sia possibile (tentare di) salvare l’occupazione, difendere salari e pensioni, aiutare i lavoratori a superare la durezza del momento. Inascoltate, dalle sinistre come dalle destre, le voci sempre più numerose di personaggi peraltro alieni da ogni estremismo (vedi Stiglitz, Krugman, Morin, Guido Rossi, e molti altri) che affermano la necessità, sociale non meno che strutturale, di un diverso ordine economico. Mentre auspicare l’uscita dalla crisi equivale ad accettare il mondo così com’è.

Un mondo ricco, ma in cui esiste un miliardo di affamati, e l'1% della polazione detiene il 50% della ricchezza. Un mondo tecnologicamente in grado di produrre ampiamente il necessario con sempre meno lavoro umano, che invece insiste ad aumentare gli orari fino a proporre l’insensatezza di novanta ore a settimana. Un mondo che per la sua stessa razionalità usa la guerra come risorsa: oggi, in piena crisi mondiale, la produzione delle armi è in ottima salute. Un mondo che ancora tenta di credere all’inesistenza di una seria minaccia ecologica, continua a dilapidare la natura e a piegarne a fini economici i processi, stravolgendone senso e funzioni nella bulimia della crescita. Appropriandosi dello stesso impegno ecologista nella creazione di energie rinnovabili e forme produttive meno inquinanti, per piegarle alla logica della crescita nell’invenzione del “green business”. Davvero le sinistre possono accettare e di fatto - impegnandosi al suo recupero - legittimare questa realtà?

E’ comprensibile, certo, e forse anche utile nell’immediato, la lotta per la sopravvivenza della fabbrica a rischio, per la regolarizzazione di qualche gruppo di precari, per la difesa di categorie destinate al prepensionamento, ecc. Ma può la sinistra limitarsi a questi obiettivi? Non è necessario (nel mentre stesso che per essi ci si batte, e se ne ottiene il possibile) domandarsi se siano una risposta sufficiente oggi, in un mondo in cui precarizzazione, prepensionamenti, delocalizzazioni, sono strumenti obbligati di competitività sul mercato globale, dove l’economia (cioè la forma capitale) impera e la politica ad essa puntualmente s’inchina? Non è doveroso riflettere sulla irripetibilità di quel felice trentennio in cui la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica era parsa la risposta alla povertà? E ricordare come però negli ultimi decenni, mentre il prodotto continuava a crescere, anche la disoccupazione cresceva, e il precariato diventava regola, e i salari non facevano fronte all’inflazione, e insomma si produceva quella drammatica realtà che Halimi ha chiamato “Il grande balzo all’indietro”? Già allora solidi cervelli critici parlavano di crisi irreversibile del capitale: alcuni di loro, come Wallerstein, indicandone le cause nei limiti del pianeta, che non offre più spazi al connaturato espansionismo del capitale, altri, come Gorz, esplicitamente parlando della crisi ecologica come insuperabile barriera alla continuità del “sistema”.

E in fatto di ambiente sarebbe il caso che le sinistre facessero un sano esame di coscienza. Problema a lungo rifiutato, attribuito a interessi estetizzanti delle classi privilegiate, mentre si ignorava il fatto che a pagare le conseguenze del dissesto ecologico sono sempre i più poveri (operai, contadini, pescatori, profughi da inondazioni, cicloni, tornado). L’accumulazione capitalistica, come causa di distruzione della natura non è mai stata considerata da sinistra, e mai le masse lavoratrici sono state indotte a riflettere sulla materia. Dimenticando che solo su “pezzi” di natura, minerale vegetale animale, il lavoro esercita la propria fatica e la propria intelligenza. E che solo dalla natura la gran macchina dell’industria mondiale ricava la massa di prodotti di cui inonda i mercati. “Le merci sono natura trasformata”, già lo diceva Engels. Dunque se la natura continua ad essere saccheggiata, inquinata, cementificata, è lo stesso mondo di cui il lavoro vive ad essere messo a rischio. Non dovrebbe essere impegno delle sinistre difenderlo?

Un proposito del genere m’era parso di cogliere quando Rifondazione, per la voce dello stesso segretario, ha ripetutamente asserito: “Noi siamo per una società anticapitalista e ambientalista”. In questo abbinamento dei due obiettivi m’era parso di leggere una felice indicazione al programma elettorale, con la consapevolezza che una vera politica ambientale non può non essere anticapitalista, in quanto è il capitalismo il responsabile dello squilibrio del pianeta; e che per salvarlo occorre contenere la produzione, cioè pensare un’altra economia. Ma nel dibattito elettorale questo tema è praticamente sparito. Fatalmente - si sa - in prossimità delle elezioni il discorso politico, concentrato sulla cattura del voto, si rattrappisce, si limita a pochi temi supposti largamente condivisi, evita ogni azzardo.

Ora è nata la Federazione, e si appresta a “un nuovo inizio”. Bene. Non so però se ciò che si propone in prima istanza, cioè “ripartire dal lavoro”, sia il modo più utile di affrontare i problemi che ci sovrastano. Certo, il lavoro è tema sociale di rilevanza primaria, non solo oggetto della più pesante iniquità, ma base imprescindibile di continuità vitale della specie. E però non so se basti assumerlo come materia da cui “ripartire”, senza dichiarare l’esigenza di riflettere a fondo su come, quanto e perché il lavoro è cambiato e continua a cambiare. Vedi appunto la sempre più paurosa crisi ecologica; e la rivoluzione scientifica e tecnologica che ha sconvolto tempi e modi delle comunicazioni di ogni tipo, che ha radicalmente cambiato e continua a cambiare il nostro quotidiano, che nella forsennata corsa capitalistica alla crescita ha trasformato il produrre in tutte le sue forme, investendo e proiettando su dimensione mondiale anche i problemi di sempre.

Temo che isolare un problema, sia pure decisivo come il lavoro, rischi di allontanarci dal proposito di “un nuovo inizio”: che non può essere “l’uscita dalla crisi”, sia pure “da sinistra” (e in che modo poi?), ma solo l’ipotesi di un nuovo ordine economico. Difficile? Difficilissimo. Ma dopotutto la storia è fatta di cose che prima non c’erano.

9 agosto 2009

Sì ad una sinistra sociale ed ecologista…

“Noi vogliamo una sinistra sociale, ecologista, femminista, pacifista, anticapitalista e antipatriarcale”. Questo è l’obiettivo che un nuovo gruppo di lavoro si è dato, e che due suoi membri, Imma Barbarossa e Ciro Pesacane, hanno annunciato con un intervento su Liberazione del 1 agosto.

Può parere l’ingenuità di un “vogliamo tutto e subito” privo di conseguenze possibili, o un’accozzaglia di istanze disomogenee, allineate casualmente in un momento di irresistibile rifiuto del reale. A me pare invece un apprezzabile tentativo di aggregare in un unico progetto istanze solitamente programmate e vissute separatamente: l’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo, ecc. qui proposti invece in un unico discorso. Il difetto sta semmai in una insufficienza di sintesi, quasi il progetto fosse frutto di una spinta inconscia più che di una meditata riflessione. Perché, se ognuna di queste istanze viene assunta in tutta sua portata e nella complessità delle sue possibili ricadute, ci si avvede come sempre i loro oggetti obbediscano a una medesima logica; e (quali ne siano gli antefatti e la specifica vicenda storica) tutti operino oggi come agenti decisivi di un unico sistema: il capitalismo. Ed è facile convincersene se appena si ci sofferma a considerarle.

Tralasciando il “sociale” (qualità imprescindibile, anzi ragione fondativa, di ogni “sinistra”, l’unica d’altronde che bene o male tutte le sinistre tentano di perseguire) occupiamoci di temi meno consueti: l’auspicio “ecologista” innanzitutto. E qui ci imbattiamo (come ho detto più volte) in uno dei più gravi “peccati” della sinistra; la quale a lungo ha negato la stessa esistenza del rischio ambiente, facendo proprio il paradigma dello stesso ordine economico che diceva di combattere, puntando sull’accumulazione capitalistica nella speranza di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e - alla pari dell’intero mondo politico - ignorando ciò che da sempre l’ambientalismo più qualificato afferma: cioè l’impossibilità di perseguire una produzione in crescita illimitata su un pianeta che illimitato non è, ed è pertanto incapace sia di fornire alla produzione quantitativi via via crescenti di risorse, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano; e pertanto la necessità di contenere la moltiplicazione del superfluo, la corsa all’iperconsumo e allo spreco, la santificazione del Pil.

Dunque lo squilibrio ecologico che va devastando il mondo e che nessuno può più ignorare, entra di diritto e d’autorità in un programma come quello che il gruppo propone: programma anticapitalista in ogni sua proposta, anche se la natura delle diverse istanze perseguite può sollevare qualche interrogativo.

Ad esempio una sinistra femminista e antipatriarcale (non credo scorretto affrontare insieme i due obiettivi, che nelle rispettive specificità obbediscono a esigenze analoghe) difficilmente di primo acchito può ritenersi necessariamente su posizioni anticapitalistiche. Si potrebbe addirittura sostenere il contrario, ricordando che proprio nei secoli di massima affermazione capitalistica le donne hanno conquistato diritti civili e sociali, e raggiunto livelli di libertà senza precedenti. Ma pronta, e sacrosanta, sarebbe l’obiezione femminista, a ricordare come il lavoro familiare e domestico, dovunque ritenuto dovere delle donne anche con regolare impiego, si ponga di fatto come “produzione e manutenzione di forza lavoro” fornita a costo zero all’industria capitalistica. E si potrebbe aggiungere come le conquiste femminili risultino limitate e in qualche misura deformate dalla cultura della società attuale, tutta giocata tra produzione e consumo, cioè dominata da una categoria la quale (secondo la millenaria divisione delle funzioni sessuali, che attribuisce al maschio la produzione e alla femmina la riproduzione) comporta il trionfo del “maschile”: e dunque iperattività, aggressività, violenza, guerra in qualsiasi forma, a definire ogni realtà e ogni rapporto, e poco o tanto a contaminare anche le donne che in questa realtà cercano di esprimersi. Senza dire (ma questo vorrebbe ancora un lungo discorso) della mercificazione imperante che della donna - da sempre ridotta a merce lei stessa - ha fatto strumento di invito alla merce.

E il pacifismo. Le guerre ci sono sempre state, con solerzia ci viene ripetuto. Vero. Ma non è meno vero che il capitalismo, oltre a usare la guerra come sempre per la conquista di nuove terre e di risorse pregiate, l’ha eletta a strumento regolatore del proprio equilibrio economico; e soprattutto a partire dal secolo scorso (come ampiamente argomentato da grandi economisti ) “una nuova alleanza tra industria e forze armate” (Galbraith) è stata stipulata a garantire la prosperità del sistema.

Agli amici impegnati in questo nuovo gruppo di lavoro, se saranno fedeli all’impianto dell’enunciazione, non mancherà materia su cui riflettere e faticare. Ma la strada imboccata credo sia quella buona: sapendo che, come sempre - ma più che mai oggi, in un mondo globalizzato - “tutto si tiene”, e proprio nelle connessioni e nella reciprocità di determinazione tra fenomeni apparentemente dissimili, è possibile leggere per intero i problemi che urgono e le battaglie che si impongono.

Non hanno forse raggiunto il loro obiettivo quanti si riconoscevano nella legge presentata (e ripresentata) dall’on. Maurizio Lupi? Non sono forse definitivamente sconfitti quanti, anche partendo da posizioni diverse, avevano trovato un punto di convergenza ragionevole nella proposta dell’on. Raffaella Mariani? Si direbbe di si, a guardare ciò che sta accadendo sul territorio. Proviamo a tracciare una panoramica.

Le Grandi opere

Si prosegue indefessamente a tessere sul telaio delle Grandi opere, e a cercar disperatamente quattrini per avviarne o completarne l’attuazione. Non sembra frenare l’impegno la circostanza che (per riferirci solo alle più emblematiche) il Pontone è in uno dei luoghi sismicamente più a rischio della Penisola; neppure quella che del MoSE non è stata ancora affatto dimostrata né verificata la possibilità tecnica di controllare davvero i flussi di marea in ingresso della Laguna. Il fatto è che attorno alle Grandi opere si saldano le due grandi divinità dell’Italia agli albori del Terzo millennio: l’Immagine e gli Affari. A queste due divinità sembra lecito sacrificare buon senso, ragionevolezza, prudenza, cura del bene comune, impiego parsimonioso delle risorse. Tutte virtù divenute ridicole di fronte al dominio di quelle due divinità, alle quali gli italiani sono stati indotti a inchinarsi devotamente. Che l’Immagine sia falsa e gli Affari sporcati dalla criminalità organizzata non conta. Che un volume di lavoro e d’impegno finanziario altrettanto se non più massiccio sarebbe indispensabile per una “manutenzione straordinaria” della penisola (a partire dalla messa in sicurezza di ciò che è a rischio, dalla bonifica di ciò che è avvelenato, dal restauro di ciò che è degradato, dall’adeguamento a livelli di civiltà minima dell’attrezzatura sociale) non sfiora le menti inebetite dalla contemplazione di quelle due divinità.

Le Grandi opere in Italia, secondo quelle menti ubriache, non hanno bisogno di pianificazione. Non hanno bisogno di contraddittorio, di verifiche, di coordinamento con altre esigenze e impieghi del territorio, di ascolto verso il basso. Anzi, temono tutto ciò come una jattura. Il modello di gestione del potere che richiedono è l’impero, non la democrazia. Se la sovranità promana dal popolo, ebbene, allora l’Imperatore è il popolo; le due figure coincidono, e l’Uno non rappresenta, ma coincide col multiplo: ne è l’unica espressione. Ecco allora che le Grandi opere (cioè la grande infrastrutturazione del paese, la sua ossatura, magari arricchita dalle New Towns alla Milano 2 e dall’addensarsi ai caselli di volumi direzionali, commerciali, ricettivi, ricreativi) sono terreno esclusivo di decisione del vertice, del governo e del suo Capo. Non c’è più bisogno di derogare alla pianificazione; basta dire che tutte queste opere sono decise dal Centro, con un semplice elenco, che poi esecutori fedeli (e imprese amiche) si preoccuperanno di tracciare sulle mappe e sui territori.

Il “decreto-casa”

Ma che cosa avviene sul resto del territorio? Lasceremo intatta la trama della pianificazione delle province e dei comuni? Per fortuna c’è la crisi: possiamo utilizzarla. Ma non come dicono gli utopisti, non per cominciare a comprendere che viviamo in un sistema inceppato che bisogna cambiare, ed è forse il momento opportuno per farlo. No, al contrario, utilizziamo l’alibi della crisi per infrangere le regole che ancora sussistono, là dove la pianificazione funziona, o potrebbe funzionare. Ecco allora la proposta del “decreto casa” berlusconiano. Riflettiamo un momento su come è andata la vicenda, che affanna le cronache da qualche mese.

Il 7 marzo scorso, nella sua reggia sarda, Berlusconi ha proclamato, d’intesa con i suoi viceré in Sardegna e nel Veneto, che per risolvere il problema della casa bisognava consentire a chiunque lo volesse (e fosse proprietario di un edificio) di ampliarlo col bricolage fai-da-te, oppure demolirlo e ricostruirlo, anche altrove, con cospicui aumenti di cubatura. Tutto ciò in deroga ai piani urbanistici e a ogni regola di tutela (se si esclude quella limitatissima delle leggi del 1939). Con Galan e Cappellacci ha discusso un articolato. Si sono levate proteste alte, soprattutto perché il provvedimento scavalcava le competenze delle Regioni, e non proprio tutte erano disposte a rinunciare alla pianificazione. Mentre Cappellacci rosicchiava i “lacci e lacciuoli” del piano paesaggistico che Soru gli aveva lasciato in eredità e Galan, primo della classe, elaborava un testo di legge regionale fedele al dettato del Sire, le regioni riuscivano a fermare il corso del decreto – la cui legittimità sarebbe stata subito contestata e avrebbe condotto al naufragio. Nella sostanza siamo d’accordo, dissero: occorre snellire, semplificare, rilanciare l’edilizia in funzione anticrisi; e nessuno potrà dirsi in disaccordo se si collegheranno in qualche modo le deroghe e gli incrementi edilizi a qualche miglioramento ecologico.

Cominciò così la faticosa ricerca di un accordo tra governo e regioni. All’accordo non si giunse, all’ultimo momento. Intanto era avvenuto il terremoto all’Aquila e in gran parte dell’Abruzzo, e aveva rivelato la miseria dell’edilizia più recente, l’inapplicazione delle norme antisismiche: i frutti tossici di uno sviluppo affidato al cemento facile e al mattone fragile. Lì si apriva un altro fronte di affermazione del nuovo modello di sviluppo territoriale: ripetiamo all’Aquila la tipologia Milano Due, facciamo tante New Town, e utilizziamo il proconsole unico, che smetta di gingillarsi con l’archeologia. Le New Town furono ridicolizzate, restarono Bertolaso e l’abbandono del modello virtuoso del Friuli e dell’Umbria (ricostruzione affidate alle istituzioni locali). Non si sa come andrà a finire, ma occhi attenti sorvegliano.

Intanto qualcosa succedeva nelle more della trattativa regioni-governo. Una regione di antica tradizione di buon governo, la Toscana, approvava una legge che eliminava l’aspetto più pericoloso del “decreto casa”: la deroga alla pianificazione. Dimostrava così che le regioni possono, se lo vogliono, comportarsi virtuosamente. Ma andava avanti anche il primo della classe. Nel Veneto approdava in Consiglio regionale una legge anche peggiore dell’iniziale decreto berlusconiano, e il contemporaneo Piano territoriale regionale rivelava in pieno la strategia: tutta la grande orditura del territorio nelle mani dei poteri forti, controllati dai governi; il resto del territorio, liberato dal maggior numero possibile di vincoli, lasciato in pasto alla speculazione normale: da quella grande e media, alla piccola e alla miserabile.

Cancelliamo il paesaggio

Ma il territorio non è condizionato solo dalle opere pubbliche e dalla pianificazione urbanistica. C’è anche la pianificazione paesaggistica, nella quale entrano - insieme alle regioni – anche quelle insopportabili rappresentanze degli interessi nazionali difesi dall’articolo 9 della Costituzione, espressi nell’autorità (debole, spesso accomodante, ma tuttavia troppo spesso estranea agli “interessi locali”) delle soprintendenze. E ci sono quei fastidiosi comitati, gruppi, associazioni, reti che protestano, che muovono i cittadini, che svelano e contropropongono. E allora che anche gli altri compari e comparielli si mettano al lavoro. Bondi prepari l’ammorbidimento del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e intanto riduca il peso, la competenza, il ruolo del personale tecnico del Mibac: non vorremo mica ripiegare sulla “tutela” e abbandonare alle regioni la “valorizzazione”. Le regioni non ce ne vorranno; anzi saranno liete se ridurremo il peso della tutela: questo potrà aiutarci a concordare un accordo sull’edilizia a maglie molto larghe, talché le regioni virtuose possano continuare (se proprio lo vogliono) a esserlo e a rispettare la pianificazione e il paesaggio, ma alle altre nessuno metta i bastoni tra le ruote: tra il modello toscano e quello veneto, la maggioranza dei vicerè saprà bene quale scegliere.

E gli altri ministri e parlamentari cerchino di ostacolare la possibilità di riunirsi all’aperto; preparino un provvedimento che consenta di rendere impossibile, perché troppo oneroso, il ricorso ai tribunali amministrativi a chi vuol protestare contro una scelta sbagliata; mettano la mordacchia alle voci troppo libere che inquinano l’opinione pubblica diffondendo informazioni vere ma controcorrente, nelle edicole o – peggio ancora - nella rete.

Una scintilla di speranza

Se così vanno le cose bisogna proprio essere inguaribili ottimisti per credere che abbia ancora senso approvare una legge che, comunque, stimoli la ripresa della pianificazione delle città e dei territori, che assuma ancora il metodo basato sul carattere sistemico delle scelte, sulla trasparenza del processo delle decisioni, sull’ascolto dei cittadini e la loro possibilità di influire sulle scelte come cardini e garanzia di trasformazioni del territorio sensate, e magari volte all’interesse generale.

Il fatto è che, al fondo del necessario pessimismo della ragione, brilla una scintilla di speranza sul fatto che, alla fine, un barlume di consapevolezza della posta in gioco si risvegli anche nell’intimo di chi – sull’uno e sull’altro versante dello schieramento parlamentare – condivide la responsabilità di governare. La posta è il futuro di noi tutti, poiché le nostre vite, e le vite dei nostri posteri, sono fortemente determinate dalle scelte sul territorio che si assumono oggi. Sono soltanto una piccola minoranza quelli che potranno rifugiarsi in una gated community, e non è detto affatto che lì vivano felici.

Obiettivo della proposta di Berlusconi era liberare dai lacci e lacciuoli delle leggi di tutela del paesaggio e dell’urbanistica, e da quelli della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica, gli animal spirits del mercato immobiliare e della conseguente attività edilizia. Questo obiettivo, che abbiamo largamente descritto e denunciato nelle sue implicazioni su eddyburg.it, è rimasto intatto e sarà perseguito dagli atti successivi, col pieno accordo unanime delle regioni, al di là delle dichiarazioni dei Martini, degli Errani, delle Lorenzetti.

Se non ci si affida alle affermazioni trionfalistiche dei presidenti delle regioni e invece si legge con un minimo di attenzione il documento si scopre facilmente l’inganno, e la ragione per cui Errani e Galan, Martini e Cappellacci hanno potuto ugualmente approvare lo stesso documento. Si scopre che, mentre tutte le parole dedicate alla tutela delle leggi vigenti, della pianificazione, del territorio e del paesaggio sono inviti, raccomandazioni, suggerimenti, opzioni possibili, quelle che invece si riferiscono alle deroghe, alla scomparsa dei controlli – insomma, alla riduzione della guida pubblica delle trasformazioni del territorio – sono precise, obbligatorie, tassative, inderogabili: fino a prevedere lo scavalcamento dei consigli regionali da parte dei presidenti, d’intesa col governo, con una prescrizione palesemente incostituzionale.

Si rifletta su alcuni punti.

Il documento chiede di "[…] introdurre forme semplificate e celeri per l'autorizzazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale". Che significa "in coerenza"? chi la stabilisce? Una norma che voglia prescrivere che “le forme semplificate e celeri” di autorizzazione dell’attività edilizia si svolgano nel rispetto delle leggi e dei piani lo dice con chiarezza: come nel medesimo documento si dice a proposito delle leggi sul lavoro, a proposito delle quali giustamente si proclama “la priorità assoluta del pieno rispetto della vigente disciplina in materia di rapporto di lavoro”.

Il documento dichiara che "le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettera a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico […]".Insomma, la tutela dei beni culturali ecc. è un optional. Le regioni "possono individuare" le aree che, per le loro caratteristiche, devono essere salvaguardate e sono perciò escluse dalle costruzioni in deroga ai piani: questa salvaguardia non è un obbligo perentorio stabilito dalla Costituzione e garantito dalle leggi vigenti!

Tassative sono invece, anche perché affidate prevalentemente al governo, le prescrizioni liberatorie da “lacci e lacciuoli”. Come "la previsione di un termine certo per il rilascio delle autorizzazioni, permessi o altri atti di assenso comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e organismi statali"; dove si finge di dimenticare che stabilire "termini certi" (cioè il silenzio-assenso) è ragionevole unicamente se si rafforzano le strutture che devono rilasciare le autorizzazioni; altrimenti, significa eludere i controlli di merito. Come la definizione, da parte del Governo, di “principi per la legislazione regionale atti a consentire l'ampliamento delle tipologie degli interventi non soggetti a titolo di abilitazione preventiva": avanti dappertutto con il silenzio-assenso.

Su questa base, il Capo può procedere tranquillo, cantieri si apriranno dappertutto: basta essere "coerenti" con le leggi e i piani urbanistici, territoriali e paesaggistici. La "coerenza", naturalmente, sarà stabilita in un Accordo di programma con gli immobiliaristi grandi e piccini. O forse no? Se qualche regione - dove la cultura moderna della pianificazione ha più solide radici e l’attuale establishment è più libero dall’ideologia neoliberista - vuole comportarsi diversamente, lo faccia: le altre si muoveranno come ruspe, garantite dall’accordo unanime.

Infine una perla, che rivela il baratro nel quale è caduta la grammatica normativa dei “legislatori” dell’Italia popolare e proprietaria, e dei berluscones effettivi e di complemento che la rappresentano. Il documento prevede "la fissazione dei principi fondamentali in materia di misure di perequazione e compensazione urbanistica, all'interno dei piani urbanistici, sulla base delle norme già presenti nei disegni di legge attualmente all'esame del Parlamento". Evidentemente il testo è stato scritto dopo un’abbondante e unanime libagione. Mai visto un riferimento a "disegni di legge attualmente all’esame del Parlamento": e a quale dei ddl? Al più permissivo? Al più rigoroso? A quello che esclude perequazione e compensazione?

Dimenticavamo: e la "casa"? La parola magica che ha sfoderato il Capo in cerca di alibi? Quella "casa" che è il tormento di tantissimi italiani non ricchi? Per quella c’è un ottimo auspicio: "Il Governo si impegna […] in merito al sostegno dell'edilizia residenziale pubblica, ad aprire un tavolo di confronto con le Regioni e le Autonomie locali". Quando Giovanni Giolitti voleva insabbiare un problema nominava una commissione parlamentare per studiarlo; nel XXI secolo, nell’Italia berlusconata si istituisce un Tavolo.

In conclusione. Con l’accordo delle regioni il governo sta distruggendo il governo pubblico delle trasformazioni del territorio. Sta distruggendo la possibilità di rendere le città e i territori più vivibili, più ragionevolmente organizzati, più efficacemente serviti dai servizi pubblici, più armoniosi e meglio9 inseriti nella natura: quegli obiettivi per i quali la societa borghese e liberale, temperando lo spontaneismo del capitalismo liberista, aveva inventatoi e praticato la pianificazione urbanistica. Scatenando gli spiriti animali degli interessi del “blocco edilizio” si torna indietro di due secoli e si calpestano, con il piede della speculazione, i diritti della città e dei suoi abitanti.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

L'immagine riproduce Foot Over City, di Michael Jacobs

In calce il testo ufficiale e definitivo del testo siglato dal Governo e dalle regioni

Non da oggi nascono il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, la scomparsa degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.

La visione e i progetti di eddyburg

Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città, e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni degli standard urbanistici la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci proponiamo di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta. A questi temi dedicheremo la quinta edizione della Scuola di eddyburg, che terremo ad Asolo dal 9 al 12 settembre prossimi.

Gli spazi pubblici sono a rischio. Abbiamo accennato più sopra ai rischi principali. Essi hanno la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.

Ma sono concretamente a rischio per mille concrete iniziative di governo. Indichiamone due (ma si tratta, ahimè, di un elenco aperto). Le recente iniziative del ministro degli interni di vietare le manifestazioni religiose (ma latu sensu tutte le manifestazioni) nei luoghi pubblici in prossimità dei luoghi di culto: ma dove c’è, in Italia, una piazza che non sia vicina a una chiesa? E il perverso intreccio tra lo strangolamento finanziario dei comuni e l’arrendevolezza di questi ultimi, che li spinge a svendere gli spazi pubblici, o a commercializzarli, per ottenere il danaro con cui sopravvivere (vivendi perdendo causam).

A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Pochi giorni fa, a Cassinetta di Lugagnano, dove si è reso pubblico un appello dal titolo “Stop al consumo di suolo” si è potuto verificare come attorno a questo tema si annodino le mille vertenza aperte in ogni parte d’Italia per ottenere città che non crescano più sotto il dominio della speculazione immobiliare, ma siano città resi vivibili dalla quantità e qualità degli spazi pubblici, e dalla sua organizzazione d’insieme come unitario bene comune; tremila gruppi, comitati, associazioni hanno comunicato la loro adesione alla manifestazione. Ci proponiamo di coinvolgerli in una iniziativa che da qualche tempo, in collaborazione con altre associazioni, abbiamo avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.

Il ruolo del commercio

Un ragionamento particolare merita il ruolo del commercio nella vita della città. La vitalità dei suoi spazi pubblici ha avuto storicamente un apporto decisivo dalla presenza del commercio: più precisamente, dal commercio legato alle esigenze quotidiane della vita degli abitanti di quel quartiere o di quel settore urbano. Le piazze sono state luoghi di incontro, di convivenza, di confronto e scambio anche per la presenza dei negozi d’uso comune e corrente. E le gerarchie tra i diversi spazi pubblici (e le diverse zone della città) era legata anche alle gerarchie tra le merci offerte: quelle più rare e più pregiate caratterizzavano le parti più importanti della città.

A un certo momento tutto ciò è cambiato. Da un lato, il consumo ha perso sempre più il contatto con le esigenze reali delle persone ed è diventato consumo artificioso, consumo del superfluo, consumo opulento, indotto non dal bisogno dell’uomo ma da un apparato che ne ha fatto una variabile dipendente della produzione. Dall’altro lato, grazie alle tecniche della distribuzione di massa, finalizzate a smerciare una quantità sempre più ampia di prodotti, si è riusciti a praticare prezzi fortemente competitivi non solo per le merci dell’opulenza, ma anche per quelle della vita quotidiana.

Così, prima i grandi supermercati e ipermercati, poi gli outlet, i mall, i grandi centri commerciali si sono localizzati in aree sempre più periferiche e hanno aspirato dalla città grandissima parte della vendita dei beni d’uso quotidiano: hanno provocato la morte del piccolo commercio (del fornaio e del droghiere, del salumaio e del fruttivendolo e, analogamente, dello stagnino e dell’elettricista, del ciabattino e del falegname). A questo processo un altro si è accompagnato. La spinta al consumo opulento ha fatto sì che i locali del commercio tradizionale si riempissero di una serie di altri commerci: non più legati alle necessità quotidiane degli abitanti, ma provocati da una strategia tendente a moltiplicare all’infinito lo smercio di quei prodotti, uguali in tutto il mondo, che caratterizzano il consumo opulento.

A questo complesso di problemi si riferivano recentemente sia Paolo Berdini sul manifesto che Renato Nicolini su Repubblica: entrambi il 23 gennaio, entrambi ripresi su eddyburg. Berdini osservava come a Roma i negozi di vicinato stiano “chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano” e ricorda che “stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano” che genera, o favorisce, violenza e sopraffazione. E Nicolini, dopo aver constatato che “lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto”, domanda: “perché non reintrodurre almeno - partendo da zone come Campo de’ Fiori - il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti”.

Il fatto è che l’urbanistica (quella largamente praticata dalla maggioranza dei professionisti e insegnata nella maggioranza delle università) ha tralasciato di cercare e praticare le connessioni tra l’obiettivo sociale e le possibilità della pianificazione. E al tempo stesso ha trascurato di criticare il modo nuovo in cui il pensiero dominante affrontava quelle connessioni. Abbandonare il commercio (e l’insieme del futuro della città) alla forza apparentemente cieca e neutrale del “Mercato” provoca proprio ciò che è ogni giorno sotto i nostri occhi: l’abbandono delle piazze delle città (là dove esistono) da parte delle attività vitali e la concentrazione del commercio in quegli scatoloni, o quelle finte città (quelle scimmie di città) che il “Mercato”, dominato dalle multinazionali, erige, celebrando la riduzione del cittadino a consumatore e l’apoteosi della società opulenta (in quell’universo sempre più ristretto che si chiama Nord del mondo).

Ha ragione Nicolini: bisogna afferrare di nuovo gli strumenti dell’urbanistica. Il primo si chiama: governare le trasformazioni – ogni trasformazione – in vista di obiettivi sociali espliciti, nella consapevolezze che le trasformazioni della città agiscono su quelli della società. Il controllo delle utilizzazioni degli spazi è uno strumento essenziale per raggiungere un obiettivo sociale; e chi, avendo il potere e il sapere per adoperarlo dichiara l’impossibilità di farlo, di fatto lascia che siano i padroni del mercato, utilizzando gli ascari di una politica ridotta ad ancella dell’economia data, a decidere come le città e i territori si trasformano.

Perequazione. L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Non in termini di giustizia sociale, non tra gli abitanti, cittadini o aspiranti tali: tra i proprietari di suolo urbano. Nella versione nobile voleva significare “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani” (Aldo Moro, 1964). Ma era già stata condotta al fallimento la proposta di legge del ministro Fiorentino Sullo, e dopo i crolli e le alluvioni del 1966 si tornò a una perequazione parziale dei valori immobiliari, già in atto con la legge urbanistica del 1942: si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di lottizzazione (legge 765/1967), tutti i proprietari inclusi dovessero ripartire tra loro, equamente, oneri e vantaggi dell’urbanizzazione ed edificazione.

Poi , la svolta. Si cominciò a parlarne negli anni che prepararono il declino dell’urbanistica italiana e videro esplodere quella che poi fu battezzata Tangentopoli. I piani urbanistici venivano redatti, adottati, approvati ma poi non erano attuati: in molte parti d’Italia (non in tutte però) la città s’ingrandiva e trasformava secondo altri disordinati disegni, sotto la spinta di altri interessi: quelli del mercato immobiliare (che gli incorreggibili continuavano a chiamare “speculazione urbanistica”). Alcuni nodi oggettivi c’erano: la disciplina del diritto sui suoli urbani non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e la situazione normativa era molto pasticciata; le amministrazioni pubbliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tempestività che la velocità delle trasformazioni richiedeva.

Gli urbanisti e gli amministratori cercarono nuove strade. Si manifestò un accordo largo sulla articolazione dei piani in due componenti: una strutturale e strategica e una operativa. Sui contenuti dell’una e dell’altra componente c’era confusione, l’introduzione di quella distinzione nelle legislazioni regionali e nelle prassi di pianificazione la aumentò. Una “corrente di pensiero”, che aveva preso la maggioranza nell’Istituto nazionale di urbanistica, propose una nuova prassi per raggiungere la “indifferenza dei proprietari alle previsioni dei piani” e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per gli spazi pubblici. Strano che la proposta venisse proprio da quella Emilia Romagna nella quale era chiaro da tempo che l’espansione urbana era terminata, e dove si era riusciti a superare brillantemente il traguardo degli standard urbanistici non solo in termini quantitativi (30 mq ad abitante, invece dei 18 ex lege nazionale), ma anche acquisendo praticamente tutte le aree individuate. E strano che la proposta venisse avanzata proprio mentre in Francia si stava abbandonando l’analogo sistema dell’attribuzione ai suoli di un plafond de densitè.

Ecco la proposta dell’INU. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi di edifici per ogni mq di terreno) su tutta l’area che vogliamo urbanizzare: volumi teorici ugualmente spalmati sulle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree urbanizzabili più aree per servizi riusciamo a ottenere. Quindi dimensioniamo il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato nel quale (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è.

La questione è strettamente legata a un’altra: quella dei cosiddetti “diritti edificatori”: quella bizzarra teoria secondo la quale se un PRG ha attribuito una capacità edificatoria a un’area questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzarlo adeguatamente. Ma di questo termine abbiamo già scritto qui altre volte, e rinviamo ad altri articoli.

L’esempio eccellente (si fa per dire) di questa teoria e di questa prassi è stato il nuovo PRG di Roma, che ha confermato e aggravato il consumo di suolo autorizzato rendendo edificabili ulteriori 14mila ettari dell’Agro romano. Sindaci pro tempore Rutelli e Veltroni, consulente generale il presidente onorario dell’INU, Giuseppe Campos Venuti.

Indennità d’esproprio. E’ indubbiamente un nodo irrisolto. Se ne è discusso ampiamente, a partire dagli anni 60 del secolo scorso. La Corte costituzionale è intervenuta più volte, criticando norme che consentivano ad alcuni di guadagnare grazie alle scelte del piano, e ad altri di non guadagnare perché remunerati, nel caso di espropriazione, da un’indennità d’esproprio di entità molto più modesta. La Corte indicò anche una delle strade percorribili per sciogliere il nodo: decida il legislatore che il valore che deve essere riconosciuto al proprietario non deve compensare l’edificabilità, e iil problema è risolto. Il Parlamento tentò, ma la forza degli interessi contrari prevalse e il principio fu introdotto (con la legge Bucalossi del 1977) ma in modo debole, contraddittorio e, per così dire, sterilizzato.

Da allora è stato un declino continuo. La proprietà immobiliare, invece di essere ricondotta a una sua “funzione sociale” (come la Costituzione, articolo 42, vorrebbe), è stata assunta come “motore dello sviluppo”: più il suo valore economico aumenta, più l’economia va. Guai a ridurre il prezzo degli espropri: alla proprietà immobiliare deve essere riconosciuto tutto il valore che il “mercato” (quel mercato) gli riconosce.

Ecco allora che i comuni non espropriano più. Adesso hanno un alibi per preferire di spendere in opere inutili ma di prestigio (eccelle l’architetto Calatrava con le sue opere) e nell’allestimento di eventi che mettano in competizione una città contro un'altra: queste sono considerate le spese indispensabili, per le quali si può rinunciare a realizzare asili e parchi, o espropriare aree in cui localizzare un’edilizia abitativa depurata da una parte almeno della rendita.

Rendita. Eccoci alla terza parola, al terzo nodo che strozza la buona urbanistica. Che cos’è la rendita? Secondo l’economia classica, quella fondata su un’analisi del ruolo sociale e umano dell’economia, la rendita è una delle tre componenti del reddito: il salario, che corrisponde all’impiego, da parte del lavoratore, del suo tempo di lavoro; il profitto, che secondo alcuni è l’appropriazione di una parte del valore creato dal lavoro, secondo altri la remunerazione corrispondente al ruolo imprenditivo; la rendita, che è la quota del reddito della quale si appropria il proprietario di un bene necessario alla produzione, per il solo privilegio di esserne proprietario. Ora è chiaro che mentre al salario e al profitto corrisponde un preciso ruolo sociale, finalizzato alla produzione di merci, anche all’interno di una logica capitalistica alla rendita corrisponde un ruolo meramente parassitario.

Negli anni 60 e 70 questa verità era chiara alla parte stragrande dello schieramento politico, nel parlamento e nelle amministrazioni locali, e alla cultura specializzata. Era la tesi comune alla sinistra, ma non solo a questa: lo testimoniano dibattiti, tentativi legislativi ed esperienze amministrative nell’area del “centrismo” a guida DC. Perfino gli esponenti dell’industria moderna, del “capitalismo avanzato”, se ne convinsero, e compresero (1970-71) che se non si fosse contenuta la rendita (in particolare quella urbana) le condizioni di vita dei lavoratori (affitto, trasporti, servizi) sarebbero divenute più costose, e quindi la pressione sindacale sarebbe cresciuta e avrebbe costretto a cedere al salario quote di profitto. Oggi no: la rendita immobiliare, componente essenziale della proprietà immobiliare, è considerata il “motore dello sviluppo”.

Che fare? Eccoci all’ultimo passaggio di questo lungo eddytoriale, che compensa del lungo silenzio. Molti (i cittadini che si mobilitano per una città migliore, i lavoratori che chiedono abitazioni meglio accessibili, meno costose, più decentemente servite, i gruppi di abitanti minacciati dallo sfratto per fine contratto o per “rigenerazione urbana”, e i loro comitati, associazioni, sindacati), quando ascoltano questa analisi, pongono questa domanda: che fare oggi? Raramente trovano risposte nel mondo degli esperti, che non siano quelle comprese negli slogan perequazione allargata (definiamola così per distinguerla da quella tradizionale, quella dei “comparti” della legge del 1942 e dei “piani di lottizzazione” della legge del 1967), rendita motore dello sviluppo, vocazione edificatoria del suolo. Proviamo a dare qualche risposta. Non sarà organica, ma tenteremo di indicare alcune possibili strade.

Il primo passo da compiere è assumere consapevolezza. Bisogna convincersi che la perequazione, nei termini in cui viene proposta e praticata, è un’imbecillità perniciosa. É un’imbecillità perché, seppure poteva avere un senso nell’età dell’espansione, non ne ha certamente nessuno oggi. É un’imbecillità perché non tiene conto che – come gli eventi recentissimi dimostrano – l’attività immobiliare non è più il motore di nessuno “sviluppo”, neppure il meno sostenibile: è solo un fattore di crisi. Ed è perniciosa perché non comporta altro che l’espansione generalizzata delle “capacità edificatorie”, comunque travestite. Predicare e praticare la perequazione allargata significa soltanto incentivare la piaga italiana dell’aberrante consumo di suolo. Criticare il consumo di suolo e continuare a difendere la perequazione è segno di ipocrisia, oppure testimonianza di schizofrenia. E infine, parlare di equità solo a proposito dei valori immobiliari e utilizzare la perequazione come strumento della pianificazione significa perpetuare ed accrescere la profonda iniquità nell’uso della città-

Ugualmente, è pernicioso continuare ad adoperare l’espressione “diritti edificatori” senza ricordare che questi vengono attribuito solo con l’atto abilitativo: non dalle decisioni del piano urbanistico generale, e neppure da quello attuativo. É sempre possibile revocare una decisione urbanistica se questa non ha ancora ottenuto effetti concreti, se non ha comportato spese per opere legittimamente e documentatamente sostenute. Il territorio non ha alcuna “vocazione edificatoria”, ove operatori e amministratori rozzi o complici della speculazione immobiliare non gliela concedano.

Resta il problema della rendita immobiliare. È un problema che richiede attenzione e, soprattutto, determinato impegno politico. Anche qui, la premessa necessaria è che si restauri il principio, mai smentito dalla teoria e continuamente confermato dalla pratica, che la rendita immobiliare è una componente parassitaria della vita economica della società: è un mero pedaggio che si paga al privilegio proprietario. La rendita immobiliare va ridotta quanto è possibile farlo, e va “tosata” a favore del potere pubblico, che è quello che la determina: è quello che, con le scelte dei piani e gli investimenti dell’urbanizzazione, storica e attuale, è produttore delle differenze e delle convenienze che la determinano.

Ridurre la rendita si può, anche con i piani urbanistici. A Napoli, quando la giunta del primo Bassolino varò con De Lucia i primi atti della nuova pianificazione (la variante di salvaguardia e quella di Bagnoli), accaddero due serie di eventi. Le pendici che dal Vomero scendono verso la città greco-romana si coprirono di vigne e orti: terreni in attesa di edificazione, restituiti in modo irrevocabile alla naturalità, ritrovarono una funzione (e un valore) di suolo agricolo. E l’IRI, proprietaria dell’area Italsider di Bagnoli, ridusse nei suoi libri contabili il valore del suolo, che aveva perduto l’edificabilità prevista.

Si può poi, e si deve, battersi per ottenere una definizione legislativa che definisca che cosa fa parte del “valore venale” dei suoli in qualsiasi negozio nel quale intervenga la pubblica amministrazione. La determinazione del “valore venale” a cui si commisura l’indennità espropriativa non è misurato dal mercato, ma dalle stime che ne fanno le strutture a ciò adibite. Non sembra affatto insensato (ed è invece del tutto coerente con le indicazioni che più volte la Corte costituzionale ha suggerito) precisare che l’utilizzabilità di tipo urbano di un suolo non va considerata tra i parametri che determinano il “valore venale” dell’area: né in caso di acquisizione pubblica, né di imposizione fiscale o tributaria.

É difficile ottenere una simile definizione normativa? Probabilmente si, ma se nessuno la propone con forza, se comuni, province, regioni, partiti e raggruppamenti politici, organi di formazione dell’opinione pubblica, università e associazioni culturali non si muovono, non propongono, non sollevano il problema (e quindi, ripetiamolo ancora una volta, non mostrano di aver assunto consapevolezza del problema) nulla potrà accadere. E allora sarà inutile meravigliarsi e lamentarsi e piangere quando l’ennesima alluvione avrà distrutto case e campi, avrà travolto persone e automobili, quando le città saranno diventate sempre più invivibili, il territorio e le sue urbanizzazioni sempre più inefficaci ai fini di una vita dignitosa, le abitazioni sempre più care, gli abitati più poveri espulsi sempre più lontano, gli spazi pubblici sempre più negletti.

E nel frattempo? Si ricominci con la pianificazione prudente. Si riparta dal calcolo dei fabbisogni reali, certi nelle esigenze e nelle disponibilità a operare, per quanto riguarda le abitazioni necessarie, e le nuove attività realmente utili per la produzione (di commercio e di “non luoghi” ce ne sono gìà troppi, meglio lasciarne deperire i sacrari e far rivivere il commercio nelle città). Si sottraggano dai fabbisogni calcolati di nuovi volumi e superfici quelli oggi inutilizzati, e si ricominci da quelli, dalla loro trasformazione e riutilizzazione. Si misuri con parsimonia quali e quante nuove aree sono necessarie per nuove attrezzature, per raggiungere standard ragionevoli, e si vincolino e acquisiscano quando si hanno le risorse per farlo. Si ripristini l’impegno (legislativo e amministrativo) di far pagare a ogni nuovo intervento gli oneri necessari per le opere di urbanizzazione connesse a quell’intervento, e li si utilizzi davvero (come prescrive la legge del 1977) per acquisire, realizzare, far funzionare le attrezzature necessarie. Si utilizzino saggiamente le vaste aree vincolabili nelle loro caratteristiche di natura e paesaggio che la legislazione consente di conservare nel loro stato senza bisogno di indennizzare il vincolo, consentendone l’utilizzazione agli abitanti delle aree limitrofe.

E si impari a fare i conti in tasca a chi compie operazioni immobiliari, ponendo a carico dei suoi oneri quote consistenti del valore dovuto all’incremento della rendita. In questa logica, come qualche comune sta iniziando a fare, si può rendere attuale un’antica intuizione di un grande esperto di diritto amministrativo, Alberto Predieri, che – a proposito della pianificazione veneziana – propose oltre trent’anni fa di inserire l’edilizia sociale tra le urbanizzazioni necessarie, da porre a carico degli standard urbanistici e dei relativi oneri. E dare così un contributo serio al problema della casa in affitto a canone sociale, di un’edilizia abitativa che resti pubblica e in affitto per sempre.

In entrambe le occasioni la critica alla città del neoliberalismo (della fase attuale del capitalismo) è stata il punto d’avvio; l’assenza di attenzioni positive per la città da parte dell’establishment politico, e della stessa società egemonizzata dal “pensiero unico” è stata sottolineata quasi da tutti; sul “che fare” si è dato molto rilievo al ruolo attuale e potenziale dei movimenti popolari, che si manifestano in moltissime città europee, e non solo europee. Il “diritto alla città” come obiettivo, e “la città come bene comune” come risposta, stanno acquistando un rilievo sempre maggiore, e forse anche la capacità di costituire la base di una strategia comune e di una pratica di resistenza alle distruzioni, segregazioni, diseguaglianze, privatizzazioni che caratterizzano, ovunque nel mondo, la prospettiva della città del neoliberalismo.

È probabilmente utile riprendere qui alcune riflessioni, che si sono sviluppate particolarmente nella Scuola di eddyburg, su quelle tre parole, urbs, civitas e polis la città come struttura fisica e funzionale, la città come società che la abita e vive, la città come politica. Si è detto che la buona urbanistica funziona, i miglioramenti delle condizioni di vita nelle città e nei territori si manifestano, le buone leggi e le buone pratiche si sviluppano, quando quelle tre realtà s’incontrano, quando la città incontra la società e la politica. Oggi siamo indubbiamente in un momento difficile: quelle tre realtà si sono divaricate, l’urbanistica non è più compresa dalla società, la politica si è svuotata di contenuti positivi. Così è sembrato e sembra che l’unico elemento positivo a cui aggrapparsi sia costituito dalle iniziative di protesta contro le condizioni cui i poteri forti riducono l’habitat dell’uomo, che nascono dalla società e propongono soluzioni alternative. I comitati e i movimenti locali e settoriali (contro le Grandi opere, contro lo spreco del territorio, contro la privatizzazione degli spazi pubblici, contro la degradazione e la commercializzazione dei beni culturali, contro l’espulsione dalle abitazioni e dai quartieri delle città), e soprattutto le reti che si tenta di costituire tra loro, sembrano i luoghi dai quali ripartire per contrastare le tendenze prevalenti. In effetti, moltissimi frequentatori di eddyburg si ricollegano a quelle raltà sociali, vi partecipano o le appoggiano, mettono al loro servizio il loro sapere e le informazioni di cui dispongono.

Qual è però il contributo specifico che chi si chiede a ogni persona dotata di un sapere nelle materie che riguardano il territorio, e in modo particolare a chi occupa professionalmente della città? Riteniamo che esso risieda proprio in quello che è lo spirito informatore della città e costituisce la “missione” dellurbanista: la consapevolezza di due verità.

La prima. I problemi dell’habitat dell’uomo non si risolvono se non si agisce tenendo conto che esso è un sistema: è un insieme nel quale tutte la parti sono collegate tra loro: le diverse scale, i diversi luoghi, i diversi settori. E non solo nella loro fisicità, ma anche nel modo in cui lo spazio interagisce con la società. Aiutare i gruppi e le reti ad avere questa visione, quindi a saldare (e mediare) le proteste e le richieste dell’uno e dell’altro luogo, settore, scala con quelle di tutti gli altri è un compito di grande rilievo. Se raggiunge lo scopo, avrà aiutato i movimenti a passare dalla testimonianza all’efficacia.

La seconda. Unire urbs e civitas non è sufficiente. Occorre riconquistare la polis: occorre che, prima o poi, la politica ritrovi il suo ruolo di interprete degli interessi maggioritari e generali della società e di guida degli strumenti che alla società sono indispensabili. E qual è il primo luogo della politica, del suo incontro con la società? Oggi, le istituzioni della democrazia. Del resto, ogni uomo di cultura (e in particolare l’urbanista) sa che le lotte per la casa, per gli spazi pubblici, per un ambiente di vita sano e piacevole, per la tutela dei beni territoriali comuni, per la riduzione del consumo di suolo, raggiungono il loro scopo unicamente se si traducono in adeguati strumenti per il controllo e l’indirizzo alle trasformazioni del territorio. Strumenti che sono (e devono restare) nelle mani degli “enti territoriali a competenza generale elettivi di primo grado". Ecco allora un punto di riferimento obbligato per i movimenti: in primo luogo i comuni, il Municipio, e poi gli istituti di livello sovraordinato. Quando le azioni che nascono spontaneamente dalla società conquistano i municipi esse non solo raggiungono più facilemente i loro obiettivi, ma aiutano a ricostruire la politica.

In questo sito, e nelle attività che eddyburg promuove o organizza, ci proponiamo di lavorare in modo particolare in questa direzione. Sebbene, in questa fase terribile della nostra vita pubblica, la nostra attenzione - e il notro tremore - siano commossi soprattutto dalla devastazione in atto dei più fondamentali principi dell’etica sociale.

Qui trovate le conclusioni (in progress) della quarta edizione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg e il documento per la costituzione di un Forum permanente europeo per il "diritto alla città"

Ma che cosa intendiamo con questa espressione? È utile fornire qualche precisazione. I frequentatori di eddyburg sanno che per noi le parole sono molto importanti. Le parole sono le pietre con le quali si costruiscono i discorsi, le ideologie, le opinioni correnti. Con le parole si possono generare movimenti, azioni, politiche; si possono determinare credenze e comportamenti, valutazioni, esclusioni e inclusioni.

Affermare che la città è un bene comune significa in primo luogo riconoscere che essa è un bene, non una merce; qualcosa che vale di per sè, non in quanto può essere scambiato con altri beni o con la moneta. Comune, quindi non individuale: un insieme di elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.

Il nocciolo della definizione sta nel processo stesso di formazione (di invenzione) della città: nel suo essere nata in funzione del soddisfacimento di esigenze che i singoli individui, famiglie, tribù non erano in grado di soddisfare senza unirsi, collaborare, condividere. E infatti la città, nei suoi più alti momenti fondativi, si organizza e diventa forma compiuta attorno ai luoghi delle attività e delle funzioni comuni. La piazza, il luogo dello scambio e del rito, dell’incontro e della rappresentazione,della concentrazione degli edifici e dei servizi pubblici, è l’essenza e il simbolo della città.

Da qui, dalla storia stessa della città, il ruolo determinante degli spazi pubblici, della loro fruizione aperta, della loro appartenenza pubblica, della loro gestione condivisa. Lo si comprese lungo quel percorso culturale, sociale e politico che condusse agli “standard urbanistici”. E da qui, dalla perdita di un simile ruolo, dalla negazione e dalla privatizzazione degli spazi pubblici, la testimonianza e, al tempo stesso, una causa rilevante della crisi della città e della società.

Negli stessi anni in cui si raggiunse l’obiettivo degli standard urbanistici si inventò un’espressione nuova per un’altra rivendicazione sociale, che si apparenta a quella per gli spazi pubblici: la casa come servizio sociale. Con questa espressione non si affermava che si dovesse provvedere a soddisfare gratuitamente, o a un prezzo “politico”, alla casa per tutti, ma che il soddisfacimento dell’esigenza di un’abitazione inserita in un complesso di opportunità e servizi urbani era un diritto per ogni cittadino, qualunque fosse il suo reddito, e che toccava al governo pubblico provvedervi, sia regolando il mercato privato sia impegnandosi in provvedimenti specifici per chi ne avesse maggior bisogno. Quella rivendicazione (è il caso di ricordarlo) gradualmente condusse a una politica della casa molto articolata, che partiva da una consistente riduzione del peso della rendita fondiaria sul costo degli alloggi, alla programmazione dell’intervento pubblico di sostegno all’edilizia a particolari condizioni d’accesso, alla regolazione infine del prezzi nello stesso mercato privato.

Affermare che la città è un bene comune significa quindi riallacciarsi a questi due temi: la centralità degli spazi pubblici e il carattere sociale della residenza. E significa anche collegarsi a un altro rilevante principio, presente da tempo nella letteratura mondiale: il diritto alla città. Se quest’ultima espressione si riferisce principalmente ai soggetti – ai cittadini – si può dire che la città come bene comune rappresenta lo stesso concetto dal punto di vista dell’oggetto – la città - che al soddisfacimento di quel diritto è ordinato. Pensare e organizzare la città come bene comune è un modo (l'unico modo) di garantire a tutti il diritto alla città.

È facile comprendere quanto oggi i principi espressi da quei termini siano minacciati.

Lo si coglie dalle parole stesse che sono divenute di moda nel parlare delle città, e nelle pratiche che a quelle parole fanno seguito. Si rifletta alla parola competizione, che sembra dover costituire il perno delle politiche urbane di questi anni. Ogni città deve competere con tutte le altre, deve accrescere le sue “qualità” e le sue “prestazioni” non per accrescere il benessere dei suoi cittadini ma per attirare meglio delle altre i suoi acquirenti: gli investitori, i turisti, i finanziatori di eventi. La povertà non va sconfitta nelle sue cause, va nascosta per tenere alto il “decoro” della città. È, insomma, la città che diventa merce, che si offre sul mercato gareggiando con le altre per sconfiggere la concorrenza. Avete mai riflettuto che dei due significati di questo termine, “correre insieme” e “correre l’uno contro l’altro”. ha nettamente prevalso il secondo?

E lo si coglie nei fatti. Ma di questi ci siamo occupati a lungo nei precedenti eddytoriali, e nell’articolo scritto in questi giorni per la rivista Left, ad essi rinviamo i lettori.

Alcuni approfondimenti sugli standard urbanistici li trovate nel’edditoriale n. 101 e nell’articolo su Carta, 30/2008; sulla politica della casa nella cartella Abitare è difficile; sulle riforme degli anni 70 nello stralcio da Fondamenti di urbanistica.

Sulle parole trovate qualche articolo di carattere generale nella cartella Le parole, alcune definizioni nella cartella Glossario. Sul mercato potete leggere l’eddytoriale n.105, e sui fatti che stanno avvenendo l’eddytoriale n.116.

L'immagine rappresenta una piazza di Carloforte, fotografata da Gianni Berengo Gardin

Due obiettivi, due pratiche che costituiscono un dispositivo con pericolosi elementi di trasversalità partitica, testimoniata se non altro dall’indifferenza con la quale le opposizioni guardano a ciò che sta accadendo.

Sul terreno delle norme nazionali, nella XIV legislatura si era riusciti a fermare la Legge Lupi; nella XV si stava approdando a un risultato condiviso e convincente, la XVI appare come quella che rende concreti – surrettiziamente – i progetti di sregolazione del territorio e privatizzazione dei beni pubblici teorizzato e avviato in Lombardia e abbracciato dal neoliberalismo all’italiana.

Sul terreno dell’azione politica e amministrativa le regioni sembrano scivolare, in forme diverse ma confluenti, verso le pratiche sregolative e privatizzatrici; tentano di strappare allo Stato pezzi di autonomia e poi la subdelegano ai comuni o, nei casi peggiori, alle imprese, rinunciando comunque ad esprimere i propri interessi territoriali mediante la pianificazione. Le province boccheggiano tra l’abulia e l’attesa del loro scioglimento. I comuni sono abbandonati alla contraddizione tra lo strangolamento finanziario e le aspettative della popolazione in materia di welfare, oggettivamente sollecitati a svendere il territorio agli interessi della rendita per ottenere un po’ d’ossigeno..

Sul terreno della cultura l’accademia di affanna a conservare i propri privilegi e gli esperti si occupano d’altro.

Naturalmente, in tutti i campi, salvo rare eccezioni. Ma su tutto grava la pesante nuvola di un’ideologia, largamente condivisa, che vede nella crescita del PIL l’unica speranza di salvezza e nel mercato l’unico regolatore di ogni attività sociale.

Soffermiamoci su un evento, pernicioso di per se e tappa di un processo in corso: il decreto legge 112 del 25 giugno 2008, che nel pieno delle ferie agostane dovrà essere ratificato dal Parlamento. Il titolo è “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Quattro articoli almeno incidono pesantemente sul territorio e sui beni comuni. Siamo stati i soli a segnalarli, ma l’eco è stata debolissima. Riassumiamo i contenuti.

Il patrimonio di edilizia abitativa degli istituti delle case popolari deve essere venduto a prezzi stracciati: prioritariamente agli attuali inquilini, ma poi sul mercato libero (articolo 13).

Comuni, province e regioni sono stimolati a redigere il Piano delle valorizzazioni immobiliari: per sopperire alle decrescenti risorse concesse dalla fiscalità statale sono sollecitati a vendere suoli ed edifici, modificando le destinazioni d’uso se serve ad accrescerne il valore di mercato: naturalmente, in deroga alla pianificazione urbanistica (articolo 58).

Ma le deroghe sono ancora più consistenti per interventi ancora più suscettibili di indurre trasformazioni sull’assetto delle città e dei territori: la norma che a suo tempo tentò di introdurre l’on. Capezzone quando militava nel centro-sinistra, e che era stata fortunatamente bloccata in extremis, viene riproposta ora che l’on. Capezzone ha mutato schieramento, ma ancora peggiorata: chi vuole costruire una fabbrica o un albergo – o una pluralità di fabbriche e di alberghi – su una parte del territorio dove la pianificazione urbanistica prevede altre utilizzazioni, e dmagari la presenza di beni culturali e paesaggistici e le condizioni di rischio prescrivano tutele, può farlo con procedure acceleratissime e senza praticamente la possibilità di interferire nel processo della decisione, sostanzialmente affidata all’autocertificazione (articolo 38).

Ulteriori deroghe e ulteriori trasferimenti di risorse dal pubblico al privato promuove il “piano casa”: per realizzare edilizia sociale i comuni sono sollecitati a cedere suoli (magari destinati a spazi pubblici o al verde o all’agricoltura) a imprese private che si impegnino a realizzare edilizia residenziale da assegnare a determinate categorie di utenti a prezzi concordati; trascorso un decennio, entreranno in pieno possesso degli immobili realizzati sulle aree, con le edificabilità e le risorse finanziarie della collettività (articolo 11).

È lo stravolgimento di regole, procedure e pratiche che furono avviate nell’ambito dello stato liberale tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con i primi piani regolatori, gli espropri per pubblica utilità, la realizzazione di edilizia residenziale pubblica, i primi vagiti della tutela de beni culturali e del paesaggio. L’evoluzione proseguì nell’epoca fascista, con l’ampliamento degli interventi di edilizia sociale, le leggi di tutela dei beni artistici e storici e del paesaggio, una più matura disciplina urbanistica. Si sviluppò – conclusa la fase anch’essa per altri versi devastatrice della ricostruzione postbellica – nel nuovo clima della democrazia popolare e di massa con il consolidamento e la generalizzazione della pianificazione urbanistica, un coerente dispositivo di intervento pubblico nell’edilizia abitativa finalizzato a soddisfare in modo differenziato le diverse fasce di esigenze, l’introduzione generalizzata delle tutele tra le componenti prioritarie dell’uso programmato del territorio.

Un’evoluzione che non aveva condotto ancora a un quadro privo di contraddizioni e di carenze. Non era stato risolto il nodo dell’appropriazione privata delle rendite causate dalle scelte e dagli investimenti pubblici: solo limitatamente e temporaneamente si era riusciti a incidere su di esso, con l’estensione delle aree destinate a essere rese pubbliche per la realizzazione della residenza (1962) e di spazi pubblici (1967). Si erano comunque tenuti fermi, e anzi consolidati, due cardini: il primato delle decisioni e degli interessi pubblici nel governo delle trasformazioni del territorio e nella garanzia di una sua visione sistemica, la presenza e l’allargamento di una quota del patrimonio immobiliare di proprietà collettiva. Sono questi due cardini che la politica urbanistica promossa del governo Berlusconi IV sta precipitosamente smantellando.

Chi può opporsi? In teoria molti soggetti.

In primo luogo i partiti dell’opposizione, dentro e fuori il Parlamento. Ma di tutto sembrano occuparsi, salvo che dello stato delle città e del territorio, e quindi della vita della società attuale e futura.

Poi gli altri livelli delle istituzioni repubblicane: le regioni, le province, i comuni, cui è affidata gran parte della gestione di quelle norme eversive che abbiamo segnalato. Ma essi, salvo rarissime eccezioni, sembrano affannarsi nel tentativo di impadronirsi delle briciole di uno “sviluppo” che, a voler essere ottimisti, non porta lontano (e a essere realisti porta alle catstrofi).

Resterebbe il popolo, ma questo è in largissimo misura conquistato dall’ideologia dominante (che in Italia ha rivelato perfino pesanti risvolti razzisti), propagandata da quel potentissimo strumento di formazione del pensiero che è il duopolio Mediaset-Rai (in ordine d’importanza). Quando esprime la sua protesta, la mancanza di risposte da parte della politica lo induce a gettarsi nella sterilità dell’antipolitica.

Per chi ha conservato lucidità e spirito critico, per chi non si è lasciato conquistare dall’ideologia corrente e ha conservato la memoria, o la speranza, d’una città e una società più giusta, l’imperativo è uno soltanto: resistere. Come però? Si deve sviluppare un’inventiva durevole, e si deve manifestare uno spirito pratico alimentato dalla consapevolezza della posta in gioco e dalla disponibilità a pagare qualche prezzo di persona.

Intanto bisogna convincersi che non ci si salva da soli. Nessuna associazione, nessun gruppo, nessun comitato o aggregazione di comitati, di gruppi, di associazioni si può salvare da solo e può salvare da solo il territorio dalla devastazione in corso. Occorre abituarsi a lavorare insieme, a superare ogni residuo di pratiche egoistiche o corporative.

Ci sembrano urgenti due piani di lavoro: la comunicazione, il monitoraggio della legislazione.

Sul primo punto bisogna tener conto che l’impoverimento del linguaggio, la distrazione dei media, la scarsa cultura specifica dei decisori e dei comunicatori, la stessa complessità del glossario degli operatori del territorio (in primis degli urbanisti) richiede di compiere uno sforzo notevole di semplificazione del linguaggio, di esemplificazione pratica degli effetti delle scelte sbagliare e di quelle virtuose. Su questa base bisogna fare ogni sforzo per raggiungere l’opinione pubblica utilizzando gli strumenti più adatti a questo scopo.

Sul secondo punto, bisogna in qualche modo sopperire al lavoro che una volta facevano i partiti di massa, che oggi si potrebbe attendere dal “governo ombra”, ma che in realtà nessuno compie: monitorare il processo di produzione delle leggi in materia, divulgare la conoscenza e la valutazione dei loro contenuti ed effetti, aiutare ad opporsi e a gestirle quando entrino in vigore.

Parallelamente a tutto ciò, bisogna impegnarsi – in primo luogo chi dispone degli strumenti idonei allo scopo – a risvegliare nelle persone lo spirito critico, la capacità di leggere dietro le parole correnti e le loro mistificazioni. Come ha scritto Franco Cordero, nel suo articolo su la Repubblica di oggi, “nell’Italia rieducata da Mediaset parola e pensiero sono drasticamente ridotti: circola un italiano «basic», vocaboli combinati in sintagmi che l’utente trova prêts-à-dire, senza fatica mentale; glieli forniscono speaker, giornali, politicanti”. Come ha detto Moni Ovadia, nel suo bellissimo intervento alla manifestazione del 7 luglio a Piazza Navona (qui sotto potete scaricare l’audiovisivo), “la perversione comincia dal linguaggio”. Dobbiamo innanzitutto riappropriarci delle parole, costruire il senso di un’alternativa all’ideologia dominante.

Sul decreto 112/2008 abbiamo pubblicato un articolo di Edoardo Salzano, Continua il grande furto, uno di Giuseppe Palermo, Un decreto legge devastante, e uno di Gianfranco Cerea, Una casa popolare ma non per tutti, da Lavoce.info, con una postilla di eddyburg. In calce potete scaricare gli articoli 11, 13, 38 e 58 del decreto legge.

Certo, questa volontà e capacità sono necessarie, ma insieme ad esse e forse prima di esse, è necessaria la politica. Poiché la pianificazione della città e del territorio è lo strumento che la politica, pensosa dell’interesse generale e del futuro della comunità, dovrebbe impiegare, coerentemente con le proprie strategie. Come potrebbe la pianificazione non essere in crisi quando in crisi profonda è la politica? E la politica è in crisi proprio perché sono venuti meno i suoi due requisiti essenziali: la capacità di guardare lontano, di saper delineare un progetto di società da costruire pazientemente conquistando il consenso necessario; la capacità di esprimere interessi capaci di rendere migliori le condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione: capaci di divenire “interesse generale” della società.

È vastissima ormai la letteratura che illustra i modi e le regioni (e le devastanti conseguenze) di una politica che si è appiattita sull’immediato e sulla ricerca del consenso attraverso il solleticamento degli interessi più immediati. Di una politica che, anziché guidare l’economia, si è appiattita sull’economia data: quella per la quale l’unico obiettivo è la crescita esponenziale ed irrefrenabile della produzione di merci, il cui principale strumento la privatizzazione e la trasformazione in merce d’ogni risorsa materiale e immateriale, riproducibile e irriproducibile disponibile sull’intero pianeta. Schiava di un capitalismo la cui “manifestazione più evidente”, come ha scritto Piero Bevilacqua, “è la spinta impetuosa a trasformare la società in individui”, la politica ha perso ogni connessione con una società che possa definirsi tale. Non colloquia più con i cittadini, i partecipi di una comunità, né può esprimerli: si rivolge ormai alla “gente”, a una massa di individui ridotti a “clienti”, a meri compratori di merci sempre più “opzionali”, quindi inutili.

Del resto, l’ideologia che tende a costituire il “pensiero unico” di grandissima parte delle formazioni politiche, in Italia a altrove, è basata (come non ci stanchiamo di affermare) sulla dissoluzione dell’equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo, sull’appiattimento sull’individualismo, sulla celebrazione come massimi valori del successo individuale, della ricchezza. Mentre per converso concetti come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati tabù da evitare.

In definitiva dobbiamo concludere che, abbandonata dalla politica, l’urbanistica (e il suo strumento, la pianificazione) si è allontanata anche dalla società. Qui, forse, la ragione del suo declino. Ma qui anche, allora, la possibilità del suo riscatto, della sua ripresa. L’urbanistica infatti (ma preferiamo dire le ragioni della città come “casa della società”, come luogo, come prodotto e strumento di una comunità di cittadini) può ritrovare un suo ruolo e una sua utilità se si collega a quelle tensioni e interessi ch ormai si manifestano in quasi tutte le regioni d’Italia e si concretano spesso nella formazione e nelle attività di un numero crescente di “comitati”.

In questi anni i più attivi sembrano essere quelli che protestano contro le aggressioni al paesaggio, ai beni culturali, alle qualità storiche e ambientali provocate da interventi della speculazione variamente mistificati, oppure contro le “grandi opere” dannose agli equilibri territoriali e inutili fonti di spreco (dalla TAV in Val di Susa al MoSE veneziano al Ponte sullo Stretto) o addirittura di danni alla sicurezza della popolazione e alla sovranità nazionale (come la base USA di Vicenze). Ma il giro di vite sulle finanze comunali, il progressivo smantellamento delle strutture sociali del welfare urbano (dagli asili nido all’edilizia residenziale puibblica, dalla scuole alla sanità) provocheranno certamente un ulteriore aumento del disagio urbano, e una ripresa dei conflitti da ciò motivati (ne ragioneremo nella prossima edizione della Scuola di eddyburg).

I movimenti che si manifestano nella società in ragione di un uso distorto della città e del territorio, che abbiamo spesso definito come uno dei pochissimi segni di speranza, meritano di essere seguiti, incoraggiati e accompagnati. Occorre lavorare perché crescano, si consolidino, si colleghino in una rete sempre più estesa e più fitta. Perché siano aiutati a comprendere che le scelte contro le quali si protesta oggi hanno origini lontane e cause che solo oggi diventano visibili, ma che potevano essere conosciute e contrastate prima che diventassero irreversibili. Perché la pratica del conflitto sociale, accompagnata dallo studio delle cause del disagio, induca a ritrovare un rapporto fruttuoso con la politica. Il desiderio di partecipare alla definizione delle trasformazioni dell’habitat dell’uomo può nascere dalla mera protesta, ma è sterile se non si alimenta con la fatica della conoscenza, dello studio, della comprensione delle cause, delle regole, degli strumenti.

È un lavoro nel quale spetta anche agli urbanisti partecipare, collaborando con il loro sapere e con la loro vocazione alla tutela dell’interesse generale. Lo afferma del resto il loro “codice deontologico”, secondo il quale gli urbanisti “esercitano la loro professione esclusivamente per il bene e l'interesse pubblico […]. Il pianificatore territoriale rispetta il territorio come risorsa comunitaria, fragile e limitata, contribuendo, così, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, favorendo lo sviluppo equilibrato delle comunità locali ed apportando miglioramenti alla qualità della vita”.

E più ancora della corretta analisi degli strumenti e delle leggi mediante i quali le condizioni del territorio migliora o peggiora, conta l’azione volta a rivelare ai cittadini che le condizioni del disagio possono essere modificate unicamente se si afferma nelle cose, nella concretezza della costruzione e nell’uso dei quartieri e delle città, delle campagne e dei paesaggi, il principio secondo il quale città e territorio sono beni comuni, che appartengono alla società di oggi e a quella di domani, e non possono essere sfruttati nell’interesse dei singoli individui: non esiste nessuna “vocazione” del territorio né ad essere “sviluppato”, né a essere edificato, e neppure a essere asservito all’uso esclusivo di chi ne è proprietario.

E neppure pensavamo che la sinistra scomparisse di nuovo (dopo il ventennio fascista) dal parlamento italiano. Speravamo invece che, nonostante la brusca rottura del centro-sinistra freddamente operata da Veltroni, rimanesse aperto uno spazio per costruire una nuova alleanza capace sconfiggere il berlusconismo e ricostruire un’Italia coerente con i principi della Resistenza e della Costituzione. Così non è avvenuto. L’individuazione delle responsabilità non è difficile, ma ciò che importa adesso è comprendere come si può andare avanti.

Sappiamo che dovremo soffrire molto, giorno per giorno, per le conseguenze della débacle elettorale; ne soffrirà il paese, i gruppi sociali più deboli, il territorio, il futuro di noi tutti. Se guardiamo solo ai prossimi anni non è facile vincere la disperazione: eppure guardare nel presente è necessario, e il profilo dell’Italia di Berlusconi tracciato da Franco Cassano è lì per ricordarci l’essenziale.

Ma se guardiamo al di là dei prossimi anni (ed è lì che bisogna guardare dopo questo risultato) il dato più preoccupante è la scomparsa dal Parlamento di ogni formazione politica che abbia esplicitamente espresso una posizione critica nei confronti dell’attuale sistema economico-sociale: della condizione che questo sistema riserva al lavoro, all’ambiente, alla pace, all’eguaglianza. Non è tale infatti, ovviamente la destra, e neppure la formazione di Casini. Non lo è neppure il nuovo partito di Veltroni, per il quale il neoliberismo (il vero vincitore di queste elezioni) non è un rischio e la lotta di classe semplicemente non esiste.

Mi sembra che in questa situazione i compiti che spettano a chiunque sia scontento (per usare un eufemismo) di questo risultato elettorale siano numerosi. Innanzitutto c’è da lavorare (studiare) per comprendere che cosa è diventata l’Italia. Il mondo è cambiato. Non è migliore di quello di ieri: è diverso, profondamente diverso. Non sono diversi i meccanismi di fondo (l’alienazione del lavoro, la riduzione d’ogni cosa a merce, l’impiego della violenza per risolvere i conflitti, lo sfruttamento miope delle risorse della terra). È diverso il modo in cui si manifestano, in cui incidono nei rapporti sociali e nella percezione di ciò che accade, in cui plasmano le coscienze. Si sa molto di ciò che è cambiato, ma ne manca (salvo eccezioni) una consapevolezza critica. È questa che occorre in primo luogo riacquistare per comprendere come mai l’Italia è diventata “un paese egoista e miope”, fortemente permeato di razzismo, in cui la destra di Berlusconi e Bossi supera di dieci punti il centro e spazza via la sinistra.

Comprendere non per compiacersene, o per giustificare le sconfitte, ma per cambiare. E cambiare si deve, a partire dalle aree di protesta e di rifiuto che esistono, e che non possono non crescere. Se la società che la destra costruisce è una mondo dove l’ingiustizia e la disuguaglianza, la sopraffazione e la violenza diventano pratiche dominanti, dove gli interessi comuni vengono calpestati e dissolte le conquiste raggiunte, per quanto le cortine fumogene del sistema mediatico possano mascherare la realtà questa si rivelerà sulla pelle delle cittadine e dei cittadini. E la sofferenza materiale e morale non mancherà di esprimersi – come già lo sta facendo, in larghe aree del territorio e della società. Si tratta di incanalare il disagio e la rabbia, di indicare le direzioni giuste: quelle che costruiscano una società diversa, o indichino la strada per farlo.

È sul terreno della società che occorre operare, visto che quello della politica è per ora reso particolarmente difficile. Ma senza dimenticare che ogni soluzione dovrà trovare prima o poi (e meglio prima che poi) il suo sbocco negli strumenti della politica e delle istituzioni. Altrimenti, non è garantita la durata dello sforzo che è necessario per sconfiggere davvero i poteri oggi dominanti.

Qui l'articolo di Rossana Rossanda

Anche a destra lo si è capito. L’avevano compreso subito uomini come Giovanni Sartori, Franco Cordero, Oscar Luigi Scalfaro, nessuno dei quali appartiene alla sinistra radicale. Lo hanno compreso altri, dopo il colpo di maggioranza che ha distrutto la Costituzione: Giulio Andreotti, Domenico Fisichella ed Ernesto Galli Della Loggia, per citare i tre che hanno colpito di più l’opinione pubblica.

La sua strategia è chiara, ed è evidente il sistema di valori cui essa si ispira. L’interesse privato come molla esclusiva d’ogni evoluzione sociale, senza temperamenti se non quelli della “carità” (non quella cristiana, quella perbenista). Il ruolo servile dello Stato nei confronti degli interessi privati più forti, e quindi il drenaggio sistematico di risorse dal lavoro alla rendita, dal povero al ricco, dal passato al presente. L’assunzione dell’Azienda come modello di ogni possibile organizzazione, e quindi il primato esclusivo del Padrone e dell’efficienza in termini di massimo sfruttamento di tutte le occasioni e risorse. La rottura di ogni solidarietà che abbia fondamento nella giustizia e non nell’interesse privato. Quindi riduzione d’ogni dimensione al proprio orticello: la miopia trasfigurata da patologia a fisiologia, la patria ridotta al paesello, l’idioma al posto della lingua e l’abbandono d’ogni koinè.

In questo quadro, la democrazia non è più l’attento equilibrio tra i diversi interessi espressi dalle diverse aggregazioni di cittadini, tra le diverse opzioni culturali, ideali, politiche. Non è più la garanzia per tutti che la responsabilità del governo spetta a chi esprime di più, ma la responsabilità altrettanto decisiva del controllo spetta a chi domani potrà sostituirlo. Non è più la ricerca continua di un consenso attraverso la libera espressione di tutte le opzioni presenti. No. Democrazia diventa la conquista, con tutti i mezzi, del consenso: con l’ipnosi dei media, l’acquisto, la menzogna, la corruzione. Di Machiavelli si conosce solo la lettura da Bar dello Sport, “ogni mezzo è lecito per raggiungere qualsivoglia fine”, non quella autentica, “il mezzo sia commisurato al fine”.

Se questi sono i valori, allora diventa evidente la ragione e la logica di tutti i passi compiuti sulla via della distruzione: sono tasselli d’un ordinato mosaico. Che importa se l’economia creativa, le cartolarizzazioni, le una tantum, i condoni rastrellano risorse distruggendo il futuro? Solo il presente, il MIO presente vale. Che importa se i miei ministri (da Lunardi a Moratti, da Matteoli a Urbani) distruggono il paesaggio, dissipano i beni culturali, la nostra eredità, il passato che serve ai posteri? Il passato non serve a ME, il futuro nemmeno. E se l’onorevole Lupi, riesce a imporre la supremazia dell’interesse privato dei potenti perfino nel governo delle città e dei territori, se riesce ad eliminare quei balzelli (spazi pubblici, verde pubblico, scuole pubbliche) che ostacolano la rendita fondiaria, se riesce ad abolire le procedure garantiste degli interessi comuni espresse dal sistema della pianificazione, allora la prossima volta lo faremo dirigente (pardon, ministro).

Ha allora ben ragione Romano Prodi a chiamare al “serrate le file”. Hanno ragione quanti invitano ad assumere la difesa dei valori e della strategia della Costituzione repubblicana e antifascista come l’estrema difesa contro il prevalere definitivo d’un disegno dello stato e della società compatto, coeso, determinato, che ha già mietuto molti successi e sgretolato molte conquiste di civiltà.

C’è un abisso tra i nostri anni e quelli nei quali la Costituzione firmata da Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De Gasperi vide la luce. Allora esisteva un nucleo di valori comuni sui quali costruire le regole d’una dialettica democratica tra posizioni diverse. Oggi il conflitto è tra due sistemi di valori, l’uno irriducibile all’altro e con esso incomponibile.

Lo si fosse compreso prima, non si sarebbero compiuti gli errori (dalla Bicamerale, al conflitto d’interessi, alla revisione del Titolo V della Costituzione…) che hanno portato Silvio Berlusconi al comando dell’Azienda Italia. Ma ancora non è troppo tardi. Dalle prossime elezioni regionali può venire un segnale di speranza, può iniziare un percorso che conduca il Paese fuori dalla spirale di distruzione e degrado nella quale si dibatte.

È delle prime due che vogliamo occuparci brevemente oggi, soprattutto per il peso notevole che hanno nei confronti delle trasformazioni di un territorio prezioso e fragile quale quello dell’Italia.

Modernizzazione, innovazione: esprimono il bene, il futuro, la prospettiva verso la quale ineluttabilmente bisogna tendere. Ciò che è oggi e sarà domani, poiché è diverso da ciò che era ieri, è – deve essere – l’obiettivo di ogni azione che voglia essere legittimata dal consenso sociale. Tradizionale, passatista, conservatore diventano i termini che esprimono disvalori: sentimenti e tendenze che devono essere combattuti e sopraffatti. Ai fautori dei dogmi della modernizzazione e dell’innovazione (largamente dominanti nel Palazzo come nell’Accademia), a quanti credono che la Storia vada solo avanti e non conosca regressi il secolo scorso – e la paurosa regressione del nazismo – non ha insegnato nulla. Anzi, per essi la storia non serve: è meglio distruggerla nella memoria che trarre da essa i lineamenti e i principi di un possibile e migliore futuro.

Guardate le tendenza dell’architettura, che sempre più condizionano l’urbanistica (o trovano significativi riscontri culturali con gli urbanisti della modernizzazione). Guardate la fede indiscussa nella tecnologia, maestra d’ogni retorica e serva d’ogni individualistica bizzarria. Sembriamo tornati all’epoca in cui si nutriva illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità affidata alle mirabolanti capacità delle tecniche dell’acciaio e del cavallo-vapore. Come diceva Marx, la storia si ripete, ma la seconda volta è farsa.

Che cosa vuol dire oggi, per il territorio, questo ritorno all’ideologia progressista dell’Ottocento? In una realtà in cui città e territori sono intrisi di storia e in cui la sedimentazione del passato è la ragione e la matrice della bellezza e della qualità dei luoghi, esso significa devastazione e regresso. Significa trascurare le regole che secoli di cultura e lavoro hanno impresso al modo in cui furono costruite le città, e trasformarle in un’accozzaglia disordinata di oggetti che non celebrano la società ma i loro Autori. Significa violentare i paesaggi rurali e mettere a rischio le risorse della natura costruendo dovunque infrastrutture stradali, spesso immotivata e sempre indifferenti ai contesti che attraversano. Significa seppellire le campagne sotto la coltre di espansioni urbane prodotte più dalla spinta della “valorizzazione immobiliare” (o alle pratiche della “perequazione” e “compensazione”) che da oggettive necessità non risolvibile in altro modo.

A Venezia, per esempio, significa pretendere di risolvere i problemi del degrado della Laguna e del deperimento (otto-novecentesco) della sua funzione regolatrice delle acque mediante le strutture “tecnologicamente avanzate” del MoSE anziché ripristinando gli equilibri ecologici compromessi dalle “modernizzazioni” del secolo scorso (per non parlare dell’inutile ponte di Calatrava e della devastante metropolitana sublagunare) . Tra il Continente e la Sicilia significa affidare l’agevolazione dei traffici alla costruzione di un mirabolante Pontone, capace di figurare nel Guinness dei primati dopo essere apparso nei fumetti di Paperino, invece di riorganizzare seriamente i trasporti via mare e aver adeguato alla normalità la rete ferroviaria interna della Sicilia. A Torino e a Milano significa agevolare gli interessi immobiliari di alcuni operatori privilegiati mortificando gli interessi comuni della cittadinanza e, laddove esiste, la legalità urbanistica, e minacciando il tradizionale paesaggio.

Il fatto è che con questa scelta di Opere, preferibilmente Grandi e perciò appariscenti e costose, si ottengono più risultati, utili sia al Palazzo che all’Accademia. Su un versante si favoriscono gli affari delle grandi holding nelle quali la rendita immobiliare e quella finanziaria si sono saldate (e si scaricano sulle generazioni future i costi dei fallimenti dei project financing e quelli delle manutenzioni e gestione delle opere). Sull’altro versante si appagano le smanie di affermazione personale (e monumentale) delle Grandi Firme dell’Architettura, divenute i massimi esperti della “modernizzazione urbana”, si utilizzano strumentalmente le loro ambizioni di “lasciare il segno sul territorio” per coprire col pennacchio operazioni immobiliari discutibili.

Chissà se un giorno chi decide (e chi sceglie i decisori) comprenderà che la vera modernità, la vera innovazione sono quelle che traggono dalla storia l’insegnamento di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi, tra parsimonioso impiego delle risorse e appagamento delle nuove necessità sociali, tra creatività individuale e maturazione della cultura comune. Una regione del mondo la cui bellezza e la cui civiltà sono così profondamente radicate nella forma del territorio e delle città potrebbe davvero, se praticasse e predicasse un simile insegnamento, contribuire a rendere migliore un pianeta sempre più pervaso dall’anonimia, dall’omologazione, dall’appiattimento, dall’imposizione di modelli nati obsoleti, dalla cancellazione delle diversità culturali che dell’umanità costituiscono la ricchezza.

Qui lo scritto di Gustavo Zagrebelsky su valori e principi.

Per il 2007 eddyburg augura

Una buona legge per il territorio,

- che riduca il suo consumo a ciò che è strettamente necessario,

- che riconosca il valore dei paesaggi senza ridurli a merce,

- che subordini le sue trasformazioni alle esigenze collettive,

- che affidi le decisioni che lo riguardano al potere pubblico democratico.

Una legge che contribuisca

- a rendere le città più belle e funzionali per chi le abita e per chi le frequenta,

- a distrarre risorse dalla rendita per impiegarle nelle attività socialmente utili,

- a garantire ai nostri eredi almeno tante risorse quante ne abbiamo usate noi.

Una legge che aiuti

- partendo dalla piccolissima parte del mondo di cui si occupa

- a rendere il pianeta Terra

- più longevo, più ricco di diversità biologiche e culturali,

- e finalmente equilibrato nel rapporto

tra i bisogni delle persone e dei popoli e il loro appagamento

Da noi, per la verità, l’esempio viene dall’alto; è noto che l’attività dell’attuale presidente del consiglio ha come suo motore essenziale, fin dai tempi della “discesa in campo” del cavalier Berlusconi, la difesa, con gli strumenti dello Stato, di tutti i suoi numerosissimi interessi personali: da quelli finanziari a quelli processuali, da quelli del potere mediatico a quelli edilizi, da quelli dei suoi parenti a quelli dei suoi amici, collaboratori e accoliti. Restando nel palazzo della politica, se parte dell’opposizione tende a mitigare lo scandalo italiano e a smorzare le critiche più sincere (e perciò più aspre), per fortuna il suo leader sembra aver avvertito tutto il peso della “questione morale”, e del ruolo che essa in ha nelle coscienze di una parte non indifferente dell’elettorato. Chi ha sentito l’enfasi con la quale Romano Prodi, nel sostenere le ragioni di una nuova politica, ha sottolineato la necessità di una nuova dimensione etica, ha sentito rinverdire la speranza.

In altri palazzi la “questione morale” non sembra invece essere considerata più di un ferrovecchio. Così in settori importanti della cultura: e proprio di quella cultura urbanistica tradizionalmente legata, in Italia, alla politica democratica e progressista. Come se il clima generale lo giustificasse, anche esponenti della più aggiornata cultura urbanistica considerano così normale che un uomo rinviato in giudizio per favoreggiamento al peggiore nemico dello Stato - la mafia - resti al suo posto di presidente della Regione,che addirittura lo invitano a inaugurare la seduta conclusiva della loro assise.

È ciò che è accaduto nel predisporre e nell’accettare il programma della IX Conferenza della Società italiana degli urbanisti, che si terrà a Palermo il 3-4- marzo prossimi. Essa si svolge in due giornate, entrambe dedicate al tema “Terre d’Europa e fronti Mediterranei, Il ruolo della pianificazione tra conservazione e trasformazione per il miglioramento della qualità della vita”. Vi parlano urbanisti di grande spessore culturale e civile, come Bernardo Secchi e Bruno Gabrielli, vi partecipano numerosi ospiti stranieri, si svolge nell’ambito della prestigiosa Facoltà di architettura palermitana: vi saranno perciò numerosi studenti. Ma alla tavola rotonda conclusiva, “Verso un’urbanistica dell’Europa mediterranea”, le prime parole saranno pronunciate da Salvatore Cuffaro, che la magistratura ha rinviato a giudizio ritenendo che lee prove fossero sufficienti per giudicarlo colpevole di aver venduto (o regalato) informazioni di Stato ai nemici dello Stato.

Sarà interessante conoscere le ragioni per le quali stimati (per la loro capacità e per la loro onestà) professionisti dell’urbanistica e dell’insegnamento non abbiano sentito imbarazzo in una simile, autorevole presenza. Ma ancora di più sarà utile ragionare su quest’episodio. Comprendere se c’è un nesso tra quello che accade alla SIU e quello che è accaduto all’INU, dove l’incontrastato gruppo dirigente ha sostenuto una legge che privatizza la pianificazione urbanistica e cancella le conquista dell’età delle riforme, e ne ha facilitato il cammino “coprendola a sinistra”.

C’è chi sostiene che le ragioni della professione (intesa come strumento di affermazione personale e di accresciuto potere accademico ed economico) hanno prevalso su quelle degli ideali: del servizio civile e della collaborazione alla costruzione di una città e una società migliori. Che questo sia avvenuto in Italia ma stia avvenendo anche altrove, e che sia il prodotto di un clima nel quale le ragioni della comunità sono diventate subalterne di quelle dell’individuo. Non so se sia davvero così, ma varrebbe la pena di ragionarne.

Post Scriptum (1 marzo 2005) - Domenica 27 febbraio, nel “pensiero del giorno”, registravo con amarezza la scelta della SIU di attribuire un ruolo di rilievo a Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia rinviato a giudizio per favoreggiamento alla mafia, e ciò nonostante rimasto al suo posto. Lunedì 28 ho commentato, in questo eddytoriale, l’evento. Oggi mi informano che la SIU ha modificato il suo programma riducendo la presenza di Cuffaro a un ruolo marginale. Di questo sono, naturalmente, molto soddisfatto, sia se il cambiamento di programma è stato favorito dalla tempestiva presa di posizione di questo sito, sia (a maggior ragione) se questo è avvenuto per autonoma decisione della SIU.

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