Il tema
Il tema che mi è stato assegnato mi sembra particolarmente centrato. Per una ragione di fondo e per una ragione contingente.
La ragione di fondo. Il nesso tra i tre termini (città, comunità, spazi pubblici) esprime compiutamente l’essenza stessa della civiltà urbana: dalla nascita, anzi, dall’ invenzione della città, fino alle sue attuali difficoltà.
La ragione contingente. Le cause della crisi attuale della città (e della civiltà urbana) stanno proprio nella decadenza progressiva e concatenata di quei tre termini (città, comunità, spazi pubblici): una decadenza che comincia con la riduzione della comunità a mera aggregazione di individui, prosegue con l’erosione e il decadimento degli spazi pubblici, e non può concludersi – se non la contrastiamo - che con la morte della città.
La ricchezza, il senso, i problemi della civiltà urbana non sono del resto comprensibili se non si tiene stretta la triade urbs, civitas, polis: città come realtà fisica, città come società, città come governo.
GLI SPAZI POUBBLICI NELLA STORIA DELLA CITTà
La città nasce con gli spazi pubblici
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che l’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.
È questa la ragione di fondo per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.
La piazza: incontro, mixitè, rappresentazione, celebrazione
Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Non sono comuni solo gli spazi pubblici
Se noi guardiamo con una certa attenzione la rappresentazione di una città del medioevo europeo troviamo la puntuale testimonianza di questo ruolo ordinatore del sistema degli spazi pubblici. Ma troviamo anche un più ampio significato del concetto di spazio pubblico. Vediamo che non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Regole scritte, a volte disegnate, e regole determinate dalla cultura costruttiva. Regole prescritte dalla politica fondiaria della città, che a volte era padrona del terreno sul quale la città sorgeva, e ne dava in uso i lotti alle famiglie, altre volte imponeva norme e criteri per l’utilizzazione delle aree private.
Possiamo dire che inizia un percorso dal concetto di spazio pubblico al concetto di città pubblica: non sono più comuni, collettivi, pubblici solo una serie di spazi ritagliati dall’insieme del contesto urbano, ma è la città in quanto tale che riconosciamo come struttura comune, collettiva, pubblica.
l conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dell’individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, esso conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una delle basi della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ideologia conduce all’affievolirsi dei vincoli e dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Possiamo dire che s’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Nel corso del “secolo breve” possiamo infatti vedere l’affermarsi di alcune componenti di quel carattere pubblico della città che prenderà il nome di “diritto alla città” e, nei nostri anni e con un significato analogo, “città come bene comune”.
Lo vediamo nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare: dall’apprendimento alla cura della prole, dalla salute alla cultura. Le scuole, gli asili nido, le biblioteche, gli ambulatori e gli ospedali, i parchi e le palestre cominciano a diventare presenze la cui quantità e qualità misura il grado di civiltà dei diversi stati.
Nei paesi della socialdemocrazia europea interi quartieri, intere parti di città vengono progettate, costruite e gestite per le famiglie degli operai e degli impiegati, con una ricchezza di dotazioni pubbliche che solo molto più tardi vengono raggiunte altrove.
In Italia, all’inizio del XX secolo cominciano a nascere iniziative mutualistiche e municipali per affrontare socialmente il problema della casa per determinate categorie di cittadini più bisognose. Ma poi occorre aspettare la caduta del fascismo, l’instaurazione della Repubblica “fondata sul lavoro” e il superamento della fase contraddittoria della ricostruzione per compiere alcuni passi rilevanti.
È negli anni Sessanta del secolo scorso che si sviluppano iniziative che conducono ad avvicinarsi al raggiungimento di tre grandi obiettivi della “città pubblica”:
- la presenza diffusa e generalizzata di spazi destinati alle attività collettive
- il controllo pubblico di tutte le componenti dello stock abitativo (dall’edilizia pubblica a quella sociale e a quella privata);
- la generalizzazione della definizione e del controllo di regole comuni alle trasformazioni del territorio, in particolare quelle derivate dall’urbanizzazione
Questi obiettivi sono stati raggiunti in modo incompleto. In particolare, non è stato raggiunto quello che avrebbe dovuto costituire la base strutturale degli altri obiettivi: il controllo della rendita immobiliare
Ricordiamo che cos’è la rendita. Essa è la quota di reddito che non corrisponde né allo svolgimento di un lavoro (salario) né al’esercizio di un’attività imprenditiva (profitto). Esso remunera unicamente la proprietà. In particolare, la rendita immobiliare urbana si forma e cresce per effetto delle decisioni e gli interventi della collettività, storica e attuale. Che un suolo da agricolo sia diventato o diventi oggi urbano non è dipeso né dipende certo dall’ingegno, dall’imprenditorialità, dal lavoro del suo proprietario. Perciò gli economisti classici e il pensiero liberale parlano di rendita parassitaria. È la città, la sua espansione, la sua attrezzatura che determinano l’incremento del valore della rendita. Quindi è fortissimo l’interesse dei proprietari di dettar legge nelle regole della città. Storicamente ci sono riusciti spesso, soprattutto in Italia. Ed è la pressione della rendita, e l’arrendevolezza verso di esse dei decisori pubblici, che rendono invivibili le città.
Controllare la rendita immobiliare, il suo accrescimento e la sua destinazione, è la condizione perché la collettività possa raggiungere nel concreto i propri obiettivi. Finché quella condizione non viene raggiunta il conflitto tra interesse pubblico e interessi privati dei proprietari immobiliari minaccia continuamente di veder soccombere il primo. Perché ciò non avvenga è necessario che l’interesse collettivo sia rappresentato da un potere politico fortemente determinato a difenderne le ragioni. Un simile potere politico, in Italia, si è manifestato solo in brevi ed eccezionali momenti, ma poi è stato sempre rapidamente sconfitto.
Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati davvero centrali, in Italia, dal punto di vista della conquista di un assetto soddisfacente per la città e per l’affermazione del suo carattere pubblico. È utile ricordarne qualche elemento.
Sul piano legislativo e normativo i due grandi successi:
- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);
- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).
Un insegnamento positivo......
Vorrei sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale che c’è stato in quegli anni. Ciò ha dato alle masse le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo.
Due le condizioni che lo hanno consentito:
1. la capacità degli intellettuali di ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e cercare e trovare gli argomenti, i fondamenti teorici, le possibilità tecniche e le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
2. la capacità della società di costruire e adoperare gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni
...e un insegnamento negativo
Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni.
Ad esempio, gli standard urbanistici e le “zone territoriali omogenee” erano stati concepiti come strumenti per misurare, prescrittivamente, le quantità di spazi pubblici riservati nei piani urbanistici. Sono diventati la stanca formula di progettazione della città, dividendola artificiosamente in zone A, B, C, e così via, ignorando e cancellando la complessità, la mixitè, l’articolazione reale degli spazi che della città costituiscono l’essenza.
Ancora un esempio. L’applicazione pedissequa degli standard urbanistici (tanti mq per la scuola elementare, tanti per gli ambulatori, e i mercati, e le chiese, tanti per il parcheggi, e il verde ecc.), ha condotto spesso alla suddivisione dello spazio pubblico nelle sue diverse componenti funzionali (qui la scuola, là il mercato, più in là l’asilo nido, altrove la palestra e gli impianti sportivi, altrove il parco) dimenticando l’insegnamento della “piazza”, del luogo dove gli interessi confluiscono e le persone s’incontrano.
Ma un insegnamento negativo è venuto anche dalla politica e della società, dove si è manifestata la graduale perdita della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.
Crisi del carattere pubblico della città
Certo è che oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diverse da quelle che la storia delle nostre città ci suggerisce, sia che le osserviamo alla luce del lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Oggi moltissimi, anche nell’area “riformista”, non si vergognano di parlare di “vocazione edificatoria” dei suoli, e di considerare perverso “vincolo” ogni destinazione del terreno che non sia quella edilizia. Oggi si propone di sostituire la pianificazione pubblica con la contrattazione delle decisioni sulla città con la proprietà immobiliare come nella proposta di legge Lupi per il governo del territorio, che si riuscì a fermare nella XV legislatura ma che è oggi di nuovo in discussione in Parlamento.
Si arriva addirittura a voler decretare che il diritto di edificare appartiene strutturalmente alla proprietà del suolo. Il Disegno di legge delega” in materia di edilizia reso noto afferma che il governo è delegato a emanare norme, in particolare, per quanto riguarda la “individuazione degli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia e di conservazione comunque realizzabili quali espressione del diritto di edificare connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia”. Un’affermazione che in questi termini non era mai apparsa nel diritto italiano, e che ci si era invece illusi, nella prima metà degli anni Settanta, di capovolgere esplicitamente ne suo contrario .
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.
L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita. Cancellata da un decennio ogni risorsa destinata all’edilizia sociale. Privatizzata l’edilizia pubblica, realizzata con i contributi di tutti i lavoratori. Ridotta ai margini la disponibilità di alloggi in affitto, proprio quando il lavoro diventa precario, oggetto di un inseguimento che obbliga a una maggiore mobilità sul territorio.. Demolita ogni forma di contenimento dei canoni di locazione delle case private, contribuendo con ciò poderosamente all’aumento della povertà e dell’emarginazione.
Perché tutto questo è successo? Se diamo un giudizio negativo sul cambiamento che si è manifestato, sul suo senso e sui suoi risultati, e vogliamo contribuire a invertire la tendenza, dobbiamo innanzitutto comprendere le ragioni .
La ragione di fondo sta certamente nel mutato rapporto tra uomo e società.
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.
L’aspetto centrale è quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.
Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.
Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.
Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese.
Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta – il vero e proprio saccheggio di risorse esauribili nella ricerca di una continua e crescente produzione di merci sempre più gratuite, suiperflue, ridondanti, prive di finalità con i bisogni reali di crescita dell’uomo.
Inutile ricordare i suoi effetti sul lavoro. Questo costituisce la strumento essenziale dell’uomo per comprendere e trasformare il mondo di cui è parte. Esso è la base della dimensione sociale della persona umana. Oggi è reso precario, privato dei diritti, sempre più marginale rispetto al processo delle decisioni.
Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dalla quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città.
Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.
Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune - nella città e nel territorio - che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti:
- quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni;
- quando il crollo delle Twin Towers ha fornito la giustificazione – o l’alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: quello della loro consistenza fisica e quello della loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Credo che sia emerso chiaramente che al concetto di spazio pubblico attribuisco un significato molto ampio. È spazio pubblico la piazza, diventano spazio pubblico gli standard urbanistici, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti.
In questa sua accezione la conquista dello spazio pubblico è stata, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Credo di aver sufficientemente argomentato come e perché gli spazi pubblici siano oggi a rischio. Ho accennato ai rischi principali. Ho individuato la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E ho indicato la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.
Opporsi, come?
A questi rischi bisogna opporsi. Per farlo occorrono a mio parere due cose.
Da un lato, la consapevolezza piena della condizione in cui viviamo e, insieme, quella della nostra possibilità di concorrere alla sua modificazione. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo inevitabilmente vittime passive e imbelli.
Dall’altro lato, la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Che cosa c’è nell’inferno “che non è inferno”?
Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica. Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica. È alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Io li ho vissuti.
Oggi non è più così. Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
- i partiti che esprimono con pienezza e arroganza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,: per esempio, credono ancora che il Prodotto interno lordo sia l’unità di misura del livello di civiltà raggiunto, o che il termine “sviluppo” coincida con quello di continuo aumento della produzione e del consumo di merci indipendentemente dalla loro utilità umana e sociale, oppure che la governabilità sia più importante della democrazia;
- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.
Orfani della politica
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società, espressiva di principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, sia rappresentata dall’Onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.
Gli esperti
Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Siamo intellettuali, siamo depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.
LA QUALITÀ DELLA CITTÀ PUBBLICA
Ringrazio molto Concetta Fallanca e Flavia Martinelli, che mi hanno invitato a questo incontro. E ringrazio Enrico Costa per le sue parole.
Sono particolarmente contento quando riesco a venire qui, nel Mezzogiorno. Anch’io sono di questa parti, sono napoletano anche se da molti anni vivo altrove. Delle molte patrie che ciascuno di noi ha, mi sento ancora molto legato alla mia patria meridionale. Ma rifuggirò di parlare in dialetto, di rivestire le mie considerazioni con un’ottica meridionale. Credo che uno degli sforzi che dobbiamo fare, in queste regioni “basse” della penisola, è quello di pensare fuori dai nostri luoghi, per poter connettere i nostri luoghi al resto del mondo. Guai a isolarci, a chiuderci nella nostra “specificità”, nel nostro idioma.
Il mio intervento, che temo non sarà breve, sarà costituito da una premessa, da due tempi d’una storia e da una conclusione.
LA PREMESSA.
Vorrei partire da una frase molto bella di Francesco Indovina. In un recente incontro pubblico (il testo è in eddyburg) ha detto: “La città è bella perché è buona”. Questa frase è la sintesi di un pensiero che voglio rapidamente sviluppare.
“La città è bella perché è buona”
La qualità di una città (sorvolo per un momento sul termine “pubblica”) sta nel fatto che essa è in primo luogo una città giusta, appropriata, buona, in rapporto a tre elementi: il luogo, il governo, la società (Indovina dice “i cittadini”).
La qualità del luogo è data dalla collaborazione della natura e della storia. Essa deve in primo luogo essere compresa, negli elementi che la caratterizzano e la rfendono meritevole d’essere conservata. Nostro compito deve essere quella di custodirla, mantenerla, se necessario restaurarla, se possibile migliorarla. E’ il prodotto dei nostri avi, dobbiamo lasciarla più ricca ai nostri posteri. “La bontà – per tornare alle parole di Indovina - è la buona cura dei luoghi, loro arricchimento, l’attenzione alla trasformazione
La qualità del governo, la bontà del governo, è racchiusa in alcune parole: il primato del’interesse generale, la capacità di ascolto, l’attenzione al conflitto non considerato come un fastidio, l’equità, la solidarietà, l’accoglienza, “la dilatazione dei servizi collettivi quali strumenti per rendere operativi i diritti di cittadinanza (senza i servizi sono parole vuote)”, la capacità di disegnare un futuro. Per il governo buono “il problema è la povertà non i poveri; è la clandestinità non i clandestini; è la prevenzione non la repressione; sono problema i motivi di disagio, non i giovani. La bontà di un governo si misura dal rifiuto di vivere alla giornata, e dalla capacità di coniugare intervento immediato e prospettiva futura”.
Se parliamo di qualità della società, dobbiamo innanzitutto ricordare che “i cittadini hanno il governo che si meritano ma anche i governi hanno i cittadini che si meritano”. Così, ad esempio, se chi governa non raccoglie i rifiuti in modi ragionevoli ed efficaci non può pretendere che non vengano essi vengano gettati per strada.
Città pubblica
Qualità della città pubblica. Ragioniamo su questo attributo: "pubblica". Per me questo attributo significa due cose.
Significa che la città è, nel suo insieme, un bene comune. Quindi è necessaria una regìa pubblica, un governo pubblico per la costruzione, la trasformazione, il controllo del suo insieme. E’, se volete, il principio dal quale nasce – come componente tecnica – la pianificazione: il sistema di regole nell’a,mbito delle quali ciascun operatore svolge la sua azione.
E significa che nella città hanno un peso determinante gli spazi pubblici. Nella mia interpretazione della città gli spazi pubblici hanno un peso rilevantissimo, per una molteplicità di ragioni:
1. perché la città nella storia si forma, si organizza, acquista la propria identità e sviluppa la propria forza negli spazi pubblici;
2. perché negli spazi pubblici si manifesta pienamente, si realizza quel trascendimento dall’individuale al sociale, dal privato al pubblico, dall’intimo all’aperto, dal singolare al collettivo nel quale si realizza la società;
3. perché gli spazi pubblici costituiscono il luogo nel quale può manifestarsi la politica, cioè l’intervento del cittadino – meglio, dell’abitante – nel governo della città.
IL PRIMO TEMPO DELLA MIA STORIA
Non vi spaventate. Non vi porto troppo lontano, troppo indietro nel tempo. Solo al decennio che vide nascere, in Italia, lo strumento di misura degli standard urbanistici e lo slogan del diritto alla città.
Le trasformazioni del dopoguerra
E’ una storia che inizia, in Italia, alla fine degli anni 50, per una serie di eventi di diverso ordine:
1. la trasformazione economica: l’attività produttiva prevalente, che fino ad allora era l’agricoltura, diventa l’industria;
2. la trasformazione territoriale: avviene in pochi lustri una gigantesca migrazione - qualcuno l’ha definita “biblica” - dal sud al nord, dalle campagne alle città, dalle zone interne ai fondovalle e alle coste;
3. la trasformazione sociale: l’elemento più emblematico e significativo è l’ingresso delle donne entrano nel mercato del lavoro, cioè nel lavoro extracasalingo;
4. la trasformazione culturale: la sprovincializzazione della cultura italiana, e in particolare l’affermazione di una cultura urbanistica e d’una cultura economica moderne: il tema della riforma urbanistica e della programmazione economica
Alcune date
Ricordiamo alcune date significative:
1959, il Codice dell’urbanistica dell’INU;
1962, la Nota aggiuntiva al bilancio di Ugo La Malfa, individua negli squilibri territoriali una delle cause significative delle difficoltà del paese e afferma la necessità della programmazione economica;
1962, vede la luce la legge 167/1962, che permette di espropriare consistenti quantità di aree per realizzare interventi organici di edilizia abitativa integrata con servizi differenti tipologie abitative e di gestione;
1963, una violenta campagna di stampa induce la DC ad abbandonare il tentativo di riforma urbanistica, basato sull’esproprio generalizzato delle aree d’espansione e di ristrutturazione presentato dal ministro democristiano Fiorentino Sullo;
1963, un organismo di massa, l’UDI (Unione donne italiane), apre una grande campagna per una legge d’iniziativa popolare (vengono raccolte oltre 50mila firme) e affronta il tema dei servizi collettivi nella città e nei piani regolatori. Al convegno di lancio politico dell’iniziativa tre delle quattro relazioni generali sono svolte da tre urbanisti: Giovanni Astengo, Alberto Todros, Edoardo Detti;
1966, crolli ad Agrigento, alluvioni a Firenze e Venezia, rivelano i danni dell’assenza della pianificazione; si apre un grande dibattito nel Parlamento e nel paese;
1967, il Parlameno approva la “legge-ponte” urbanistica, che generalizza la pianificazione comunale, disciplina le lottizzazioni urbanistiche e introduce gli standard urbanistici;
1968, viene emanato il decreto legge che stabilisce gli standard urbanistici: il diritto per ogni abitante, esistente o futuro, di disporre di eterminate quantità di spazi pubblici, da prevedere e vncolare nei piani urbanistici;
1968, le sentenze n. 55 e n. 56 della Corte costituzionale che invalidano alcuni articoli della legge 1150/1942 e indicano al legislatore la strada possibile, e costituzionalmente corretta, d’una riforma del regime degli immobili;
1969, nel marzo la Fiat rende noto che assumerà 15mila operai nel Mezzogiorno, altrettante famiglie (circa 60mila persone) si trasferiranno a Torino aggravando la congestione:prezzi delle case, servizi, traffico; inizia una vertenza sindacale che, incrociandosi con le lotte studentesche, porterà dopo pochi mesi:
1969, 19 novembre, al grande sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti la pianificazione, il Mezzogiorno
Due processi paralleli
Da questo momento in Italia si svolgono due processi paralleli.
Da un lato, una forte e continua iniziativa dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra per ottenere dal Governo e dal Parlamento leggi efficaci. “Nella battaglia per la riforma urbanistica il detonatore è la casa", scrive il responsabile del PCI per l’urbanistica, Alarico Carrassi. L’iniziativa conduce alla legge per la casa nel 1971 e si sviluppa poi fino alla legge Bucalossi che prevede, tra l’altro, il finanziamento degli standard urbanistici (1977), e alle leggi per il recupero abitativo (1978) e per l’equo canone per le locazioni nel mercato privato (1979).
Ha scritto uno storico: “Negli anni 1969-1971 le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano diventate più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centro-sinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio” (P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, p.445)
Vengono lanciate e raccolte parole d’ordine forti, capaci di mobilitare: “la casa come servizio sociale”, “diritto alla città”.
Dall’altro lato, si manifesta una forte reazione delle componenti più regressive dello schieramento conservatore: la strategia della tensione si esprime con le bombe di Brescia (Banca dell’agricoltura) e di Roma (BNL), con il tentativo di colpo di stato di Valerio Borghese, con l’azione dei servizi segreti e con le ricorrenti crisi di governo ad ogni minaccia di nuova iniziativa dei sindacati.
Risultati e insegnamenti
Riflettiamo sui risultati e sugli insegnamenti di questo periodo.
Sul piano legislativo e normativo segnalerei due grandi successi:
- l’affermazione del diritto di ogni abitante di disporre di una determinata quantità di spazi pubblici (1967 e 1968), e il finanziamento degli spazi pubblici con gli oneri di urbanizzazione e di costruzione (1977);
- l’apprestamento degli strumenti per una politica della casa che consentivano il governo pubblico di tutti i segmenti dello stock abitativo: l edilizia pubblica e quella edilizia sociale con i PEEP (1962-1971), la programmazione dell’intervento pubblico con la filiera Stato-regioni-comuni (1971), il recupero dell’edilizia esistente e degradata (1978), il calmieramento ragionevole del mercato privato (1979).
Mi interessa, soprattutto in questa sede, sottolineare un insegnamento positivo: il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale. Ciò ha dato alle masse (donne 1963, operai 1969) le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo. Due le condizioni che lo hanno consentito:
1. la capacità degli intellettuali di piegarsi ad ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e quella di trovare le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
2. la capacità della società di costruire gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci di imporre le soluzioni
Ma voglio segnalare anche un insegnamento negativo: l’applicazione meramente burocratica, non innovativa, spesso ritardatrice degli stessi risultati raggiunti. Sia da parte degli urbanisti e delle istituzioni, che per esempio hanno applicagli standard urbanistici e la zonizzazione finalizzata al loro calcolo come criterio di progettazione qualitativa della città, anziché come mero strumento di verifica del rispetto quantitativo. Sia da parte della politica e della società, dove dobbiamo registrare la graduale perdita nella politica della capacità di azione riformatrice (non “riformista”) da parte dei partiti, sotto la sferza del terrorismo di destra e di sinistra, e il prevalere, nella società, del rifugiarsi dell’uomo nell’individualismo, nell’intimismo, nel privato.
Il ragionamento dovrebbe allargarsi molto a quanto succedeva nel resto del mondo, al montare e all’espandersi delle pratiche neoliberali e neoliberiste, alla pervasività dell’azione di trasformazione del capitalismo iniziata con la dottrina Truman (1947) e sviluppatasi con il quartetto Tatcher, Reagan, Deng Xiaoping, Pinochet (primi anni 70). quell’insieme di ideologie e di pratiche che ebbe, come suo principale agente per l’Italia, Bettino Craxi. Così però passiamo alla seconda parte della mia storia
SECONDA PARTE DELLA MIA STORIA
Parliamo dei nostri anni, di questa fase della nostra storia nella quale siamo ancora immersi.
Tutto è cambiato
La prima sensazione è questa: quanto siamo lontani dalla fase che ho finora ricordato. Così lontani che appare spesso sterile ricordarla, si rischia di cadere nella pericolosissima sindrome della nostalgia, di un rimpianto paralizzante perché ricorda scenari non ricostruibili, perduti per sempre.
Tutto è davvero cambiato. Allora per prima cosa è necessario comprendere dove ci troviamo: costruire una carta geografica del mondo e della città di oggi. Se non lo facciamo, se non dedichiamo all’analisi l’attenzione e il tempo necessari, ci riduciamo a inconsapevoli servi di forze e interessi che ci sovrastano. Il secondo passo sarà comprendere che cosa fare per cambiare un mondo e una città che non ci piacciono – se alla fine della nostra esplorazione riterremo che non ci piacciono: comprendere che cosa fare per conferire ad essi qualità, paer fare il nostro mestiere di urbanisti – se riterremo che il mondo e la città stiano drammaticamente perdendo qualità.
L’uomo e la società
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: per denunciare una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni.
A me sembra che l’aspetto centrale sia quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”: la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.
Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, appiattita sul breve periodo, priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e la città
Il mondo e le città sono dominati dalla globalizzazione. Questa non è in sé un fatto negativo. Negativo è il modo in cui il neoliberalismo (la sua ideologia e le sue pratiche) se ne è impadronito e la gestisce.
Si è diffuso ed è diventato egemone un “pensiero unico”, per il quale gli unici “valori” sono quelli partoriti, elaborati, cesellati dalla civiltà “occidentale”, o “atlantica”. Valori e modelli di vita da imporre al resto del mondo, a civiltà diverse, anch’esse forse portatrici di verità, principi, modelli di vita dai quali magari qualcosa di utile per il miglioramento dell’umanità si potrebbe assumere.
Si è diffuso un modello economico-sociale devastante, ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese. Inutile ricordare qui i suoi effetti sull’ambiente, sulle condizioni e le prospettive del nostro pianeta.
Vorrei sottolineare il fatto che il neoliberalismo è la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.
Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Il modello della città del neoliberalismo
È descritto con efficacia da Jean-François Tribillon in uno scritto ripreso su eddyburg: “Lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …), scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana. I gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento / oppressione di cui sono oggetto. Lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice” (la “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen).
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli. Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.
L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione. La distribuzione dell’informazione è organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
Nasce una controegemonia?
In tutt’Europa nascono movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi:
(1) la difesa dagli sfratti, dall’espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie;
(2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici) sottratti all’uso collettivo dall’edificazione o dalla privatizzazione.
Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell’umanità.
Il “diritto alla città”
Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine dei movimenti e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto di cittadinanza.
E’ un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:
1) Il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi);
2) Il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.
La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo del 2008 è che la risposta positiva all’esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell’uomo che abbiamo definito “la città come bene comune”. Ma di questo, magari, parleremo in un’altra occasione.
CHE FARE, DA DOVE PARTIRE
Come cittadini
Ricordiamo innanzitutto che, prima di essere urbanisti, siamo cittadini. Naturalmente come cittadino non posso dare consigli, posso solo esporre il mio pensiero. Io penso che in questo momento non si possa fare affidamento alla politica dei partiti. Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Certo, ci sono differenze, anche forti. Per esempio, tra
- i partiti che esprimono con pienezza gli interessi dei potentati economici e, in Italia, quelli delle componenti più parassitarie del mondo capitalistico,
- i partiti che, pur non esprimendo direttamente quegli interessi, ne condividono l’ideologia di fondo,
- i partiti che, pur esprimendo l’esigenza di una critica radicale al sistema economico-sociale e all’ideologia del liberalismo, non riescono a formulare un’analisi adeguata, a costruire su di essa un progetto di società e a dare gambe sociali a un’azione politica.
Oggi siamo orfani della politica. Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date: Essi crescono mese per mese e, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano di una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose. Mi sembra che un recente segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica latenti nella società sia rappresentata dall’onda che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutte le sue componenti.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti
Come esperti e come urbanisti
Ma non siamo solo cittadini. Siamo intellettuali, depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città “bella perché buona”, nel senso che ho indicato all’inizio. E a quelle esigenze dobbiamo e saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni 60
Comprendere le esigenze che affiorano e saper fornire i saperi necessari a trovare le parole d’ordine giuste. E raccontare, in termini semplici e fuori dal nostro glossario, in che modo le pratiche correnti della “urbanistica reale” rendano più povera, più precaria, più difficile la vita delle donne e degli uomini, in particolare delle componenti più deboli.
Poche settimane fa abbiamo organizzato a Venezia, in collaborazione con la Rete delle Camere del lavoro della CGIL, un convegno proprio sui temi che stiamo discutendo qui. Molte esperienze sono state illustrate del modo in cui le organizzazioni territoriali del sindacato si adoperavano per far comprendere agli abitanti quali erano le cause del disagio urbano, e quali i modi per combatterle. Mi meraviglia il fatto che oggi, chi ha studiato per conoscere queste cose, e le insegna ai propri studenti, non riesce a trovare i canali e le parole per spiegarle ai cittadini.
La questione degli spazi pubblici
Mi sembra che, tra le diverse componenti componenti della città pubblica, quella che offrr, più delle altre, un terreno privilegiato, di critica e di proposta, è la questione delle attrezzature, degli spazi pubblici. E’ un terreno progettuale con ampie possibilità, anche in relazione alla nostra professionalità. Vorrei suggerirvene tre, anche sulla base delle esperienze che ho svolto o sto svolgendo.
Un primo argomento è quello che definisco la costruzione del “sistema delle qualità”: Si tratta di non vedere gli spazi pubblici come degli immobili (aree ed edifici) separati, ma di costruire una rete di percorsi protetti, piacevoli e sicuri per chi va a piedi o spinge la carrozzella, che colleghino tra loro, collochino in un’unica rete, tutti i luoghi utili e belli: le scuole e il verde, il mercato e l’ambulatorio, il giardino e l’edificio storico, la sponda del fiume e la piazza, il luogo di culto e il teatro e così via. Si tratta di costruire l’alternativa alla città formata dalle abitazioni e dalle automobili. E si tratta di un disegno, di un sistema, che può proiettarsi all’esterno della città, toccare i luoghi belli delle campagne e delle colline, le spiagge e i boschi.
Un secondo tema, a proposito del quale ci sono esperienze significative anche in Italia, è quello del recupero alla convivialità e alla socievolezza, di luoghi adibiti a depositi di automobili, o comunque malamente utilizzati. Un’esperienza significativa è stata compiuta nella piccola città di Arenzano, in Liguria. Ne trovate qualche elemento in eddyburg, così come vi trovate un riferimento al progetto Urban a Cosenza: un’esperienza interessante, giunta a buon fine e poi, malauguratamente, abbandonata.
Un terzo tema, utile anche per promuovere, assistere e cercare ddi mettere in rete le proteste dei cittadini, è quello della difesa di spazi pubblici minacciati dalla privatizzaazione o dalla utilizzazione a fini di speculazione. Stiamo progettando, come eddyburg ma con un progetto di costituzione di una iniziativa nazionale ed europea, una “mappa degli spazi pubblici, e/o dei beni comuni: sia per raccogliere e diffondere la conoscenza di ciò che già c’è, o puà esserci, sul territorio, sia per mobilitare i gli abitanti alla difesa e al miglioramento di ciò che c’è.
La prossima sessione della Scuola estiva di pianificazione di eddyburg (che svolgeremo a settembre probabilmente ad Alghero) sarà dedicata a questo insieme di temi. Ci proponiamo di lanciare, nell’occasione, la proposta di “nuovi standard urbanistici”. Vorremmo proporre di ampliare la gamma degli standard, in tre direzioni: allargare l’attenzione agli standard territoriali (oggi riguardano sostanzialmente i servizi di vicinato), prendere in considerazione nuove esigenze (la balneazione, il fine settimana, il bisogno di aria pulita nella campagna ecc.), inserire nel ragionamento degli standard anche beni che meritano di essere aperti alla fruizione comune e aperta in ragione della loro bellezza, del loro interesse stirucoi, della loro qualità ambientale.
Quattro nodi
Non posso trascurare, prima di concludere questa relazione, quattro temi che sono i veri nodi della pratica professionale e del governo delle trasformazioni territoriali in questi anni in Italia. Sono riassunti in quattro parole: rendita, edificabilità, perequazione, partecipazione.
Rendita
Secondo l’economia classica la rendita è la componente parassitaria del reddito. Infatti, a differenza delle altre forme di reddito (il salario, che remunera il lavoro, il profitto, che è il risultato dell’attività di gestione della produzione) la rendita corrisponde unicamente alla proprietà di un bene che è desiderato da altri soggetti. Essa non svolge nessuna funzione sociale, neppure nellaa logica derl sistema capitalistico.
I maestri dell’urbanistica ci hanno insegnato che l’appropriazione privata della rendita urbana (la proprietà privata dei suoli urbani) è la causa maggiore di tutti i disagi che nascono nella città, all’indomani del trionfo della rivoluzione capitalistico-borghese. La consapevolezza di ciò era presente, negli anni ai quali mi sono riferito nella prima parte della mia storia, alle forze politiche e culturali progressiste, e perfino, in alcuni momenti, agli stessi esponenti del capitalismo italiano (ricordo parole molto chiare dei fratelli Gianni e Umberto Agnelli all’inizio degli anni 70).
Oggi le cose sono profondamente e drammaticamente cambiare anche su questo argomento centrale per il destino della città e per il benessere dei suoi abitanti. Oggi la rendita urbana, e il suo continuo accrescimento sono considerati addirittura il motore dello sviluppo. Non c’è sindaco, non c’è amministratore, non c’è politico (salvo rare eccezioni) che non attribuisca virtù positive all’incremento delle aree urbanizzate – e quindi all’incremento della rendita fondiaria. Le operazioni di trasformazione urbana sono guidate dalle volontà di aumentare il valore immobiliare delle aree investite, non dal benessere degli abitanti. Anzi, questi vengono espulsi per facilitare la valorizzazione immobiliare. Finché questo nodo non verrà sciolto non ci sarà futuro positivo per le città e i suoi cittadini.
Edificabilità
Da che cosa deriva l’edificabilità di un suolo? Per un urbanista la risposta è ovvia. Se non ci fosse stato un processo storico sociale che ha con dotto alla costruzione delle città esistenti, se gli investimenti pubblici non avessero realizzato le urbanizzazioni primarie e secondarie, se la decisione pubblica del piano urbanistico non avesse definito l’utilizzazione edilizia dell’area, nessun suolo sarebbe stato edificabile per funzioni urbane.
La lotta per ottenere il riconoscimento giuridico di questa verità oggettiva ha conosciuto fassi diverse, ma quel principio oggi, nel nostro paese, non è stato ancora pienamente codificato sul piano normativo. Ciò ha indotto qualche urbanista a teorizzare (e a praticare) la tesi secondoi la quale esiste un “dirittoo edificatorio” attribuito dal piano urbanistico: un “diritto” che una successiva decisione (un successivo piano) non può modificare, se non compensando adeguatamente il proprietario interessato. Sulla base di questo “diritto” si sono rese edificabili, nel PRG di Roma, aree vastissime, ancora oggi in edificate, che non esiste alcun motivo oggettivo per rendere edificabili.
Eppure, come ho dimostrato tutta la giurisprudenza è costante nel dichiarare che qualsiasi decisione urbanistica relativa all’edificabilità può essere modificata, riducendo o eliminando l’edificabilità, nel rispetto di due sole condizioni: che la decisione sia motivata da ragioni d’interesse pubblico, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dai proprietari a causa di precedenti decisioni (per esempio, nel caso di lottizzazioni convenzionate già in parte urbanizzate a opera dei proprietari) debbano venir rimborsate.
Perequazione
C’era già con la disciplina dei piani di lottizzazione vigente dal 1967. Nella pratica si è estesa a tutti gli strumenti di pianificazione attuativa, come ripartizione degli oneri e vantaggi nell’attuazione del piano. Oggi si tende a trasformarle in una spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio. In questi termini è secondo me un’operazione perversa, che tende a rafforzare la convinzione che l’edificabilità sia un “diritto” di tutto il territorio (di tutte le proprietà), e tende ad aumentare il consumo di suolo.
È diventata, da strumento attuativo e limitato alle aree di trasformazione urbanistica, criterio generale da adottare per accrescere la rendita immobiliare, il vero “motore dello sviluppo”: di uno sviluppo perverso, che ha perso ogni contatto con i reali bisogni degli uomini.
Partecipazione
Dopo essermi soffermato sui nodi che strangolano la possibilità di accrescere davvero gli standard qualitativi del nostro territorio, vorrei accennare a una questione che può rappresentare un antidoto alle cattive pratichedi governo del territorio che le precedenti tre parole (rendita, edificabilità e perequazione) hanno evocato. La quarta parola è “partecipazione”. La speranza sta infatti nella capacità e volontà dei cittadini a intervenire nei conflitti del governo della città, esprimendo con forza e convinzione la volontà che le trasformazioni siano guidate dall’interesse collettivo, dall’esigenza degli abitanti di avere un ambiente urbano adeguato, fruibile da tutti.
Gli strumenti formali della partecipazione sono debolissimi. Nella legislazione urbanistica c’è solo l’istituto delle “osservazioni “ ai piani. A proposito, trovo aberrante che nella legge urbanistica calabrese l’istituto delle osservazioni venga ridotto, sicché vi abbiano diritto solo le persone che sono colpite direttamente dalle scelte dei piani. Se il mio terreno ha una destinazione che non mi fa guadagnare abbastanza, se una strada minaccia la mia proprietà, posso criticare e proporre un’alternativa. Se il piano riduce il verde pubblico, minaccia l’aria che respiro, mi rende disagevole raggiungere la scuola o il mercato, sottrae ingiustificatamente aree agricole, lascia costruire dove il terreno è permeabile e inquina la falda agricola, allora non posso criticare e proporre.
E’ una decisione aberrante, e mi meraviglio fortemente che nessuno abbia protestato. Come nessuno ha protestato perché in tutte le fasi della formazione dei piani sono fortemente presenti gli interessi economici (naturalmente prevarranno quelli della grande proprietà immobiliare) e sono praticamente assenti i cittadini.
Oggi ci sono in Italia varie esperienze di introdurre ben più largamente la partecipazione. Ma molto spesso ci troviamo davanti a pratiche orientate più a catturare il consenso su scelte preconfezionate, che ad attivare effettivamente pratiche di “governo dal basso”, di partecipazione effettiva dei cittadini alle scelte. Devo dire che credo oggi molto di più alla partecipazione che si esprime in iniziative spontanee degli abitanti che di quello "guidata dall’alto”. Ma esistono esempi significativi anche di partecipazione “top-down”. Il caso, certo rarissimo se non unico, del comune di Cassinetta di Lugagnano, ai margini dell’area milanese, dove un sindaco coraggioso è riuscito ad adottare un piano “a crescita zero” con il consenso di tutti i cittadini. Lo ha fatto intrecciando strettamente la discussione sul piano regolatore con quella del bilancio comunale, adoperando la partecipazione come strumento di appropriazione dei cittadino informati delle decisioni sul futuro del loro paese.
Una domanda finale
Altre parole mi vengono in mente sulle quali bisognerebbe ragionare. Tutte suscettibili di significati diversi, anche alternativi. Penso a parole come vivibilità, sostenibilità, qualificazione, rigenerazione, qualità: parole sulle quali abbiamo ragionato in particolare nell’ultima edizione della Scuola di eddyburg, scoprendo le mistificazioni e l’attivazione di azioni e poteri che da esse possono scaturire.
Io credo che, per interpretare correttamente quelle e altre parole occorra porsi ogni volta una domanda finale, a proposito di ogni pratica urbana nella quale siamo coinvolti – come attori, o come semplici osservatori critici.Chi ci guadagna e chi paga? Nell’immediato e in prospettiva, al di là della parola impiegata per raccontarla. Credo che sia un interrogativo essenziale per chi si occupa del governo del territorio
Grazie ancora a tutte e a tutti.
Tre parole
In Europa cresce il movimento che rivendica la città come bene comune. Che cosa significa questa espressione? Interroghiamoci sulle tre parole che la compongono
Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo, e anche membro dell’umanità: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
LA DIMENSIONE PUBBLICA NELLA CITTÀ EUROPEA
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.
Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni nel welfare state
Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. A differenza delle fabbriche (che nella società capitalistica diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori) gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti i cittadini possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo straniero.
Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.
L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. In Italia è negli anno 60 del secolo scorso che, parallelamente al superamento al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere, nei piani attraverso cui si organizza la città, spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini
Non solo gli spazi pubblici, anche la residenza: la casa come servizio sociale
Nella città moderna anche l’abitazione diventa un problema che non può essere abbandonata alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia.
Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.
Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.
LA CITTÀ COME BENE COMUNE
NELLA FASE ATTUALE DEL CAPITALISMO
Il primato dell’individuo sulla società
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità, che hanno schiacciato luomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica serva dell’economia.
Le due componenti dell’uomo che ne caratterizzano l’individualità (quella privata, intima, e quella sociale, pubblica) avevano forse trovato un equilibrio, che si rifletteva nell’organizzazione della città: la vita si svolgeva nell’abitazione e nella piazza, nello spazio privato e in quello pubblico, senza barriere tra l’uno e l’altro. Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia “il declino dell’uomo pubblico”. E nella città lo vediamo pienamente rappresntato.
E non trascuriamo le ragioni strutturali, a partire dal suolo urbano. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee: il libro di Hans Bermpulli, La città e il suolo urbano, lo racconta in modo molto efficace. Nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, in molti paesi dell’Europa è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
In Italia si è abbandonato ogni tentativo di ridurre il peso della rendita immobiliare. Si sono stretti legami forti tra rendita finanziaria e rendita immobiliare. Le grandi industrie (come la FIAT e la Pirelli) hanno dirottato i loro investimenti dall’industria alla speculazione immobiliare. Da oltre un decennio si è interrotto qualsiasi impegno dello Stato nel campo dell’edilizia sociale. Una proposta di legge presentata dai partiti che attualmente governato prevede addirittura di lasciare ai promotori immobiliari la realizzazione e gestione delle attrezzature pubbliche, e la stessa pianificazione urbanistica, che dovrebbe limitarsi ad accettare i progetti urna mistici presentati dalla proprietà immobiliare.
Tutto questo avviene nel quadro di una fortissima spinta verso le soluzioni individuali. Non solo si riduce il welfare state, ma si convincono i cittadini (attraverso il monopolio dell’informazione televisiva e l’onnipresenza della pubblicità) che raggiunge il benessere chi si arrangia per conto suo, calpestando le regole ed evitando di pacare le tasse. In Italia, negli ultimi venti anni, il declino dell’uomo pubblico è avvenuto in modo crescente.
Il modello della città del neoliberalismo
Come ha scritto Jean-François Tribillon, nel modello neoliberale
“- lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …),scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana;
- i gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento/oppressione di cui sono oggetto;
- lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice”.
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli.
Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.
L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione.
La distribuzione dell’informazione o organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
La realizzazione del modello neoliberalista, se arricchisce i ricchi, colpisce tutti quelli che ricchi non sono.
È colpito il lavoro dipendente, nelle fabbriche e negli uffici, dove il postfordismo ha dato luogo (come ha raccontato nella sua relazione Oscar Mancini) a un mercato del lavoro dove non solo i diritti, ma anche la condizione materiali dei lavoratori si sono fortemente indeboliti. Si riduce la sicurezza del lavoro, si riducono i salari, si riduce la solidarietà nel luogo del lavoro.
E' colpita la condizione delle donne, cui le attrezzature e i servizi promossi dal welfare state urbano fornivano strumenti essenziali per ridurre il peso del lavoro casalingo: dagli asili nido alla scuola, dall’assistenza ai malati e agli anziani alla ricreazione e allo sport.
È colpita la condizione dei giovani, che in un mondo dominato dall’individualismo, dall’assenza di motivazioni ideali e di solidarietà, in una società che non dà alcuna certezza di futuro, in una città privata della presenza di spazi pubblici adeguati, sono abbandonati alle tentazioni della fuga da se stessi mediante la droga e l’alcool, la trasformazione dello stress e della depressione nel vandalismo e nella violenza.
È colpita la condizione degli anziani, ai quali da una parte è tolto lo spazio per comunicare ai giovani le proprie esperienze e il proprio sapere, e dall’altra parte patiscono di diventare un peso per la faiglia, alla cui assistenza sono costretti a ricorrere.
È colpita la condizione delle giovani coppie e di chi, per ragioni di lavoro, deve abbandonare la residenza originaria, ed è costretto dal mercato inmnmobiliare ad abitare in luoghi lontani dal posto di lavoro e a impiegare parte consistente del suo tempo in mezzi di trasporto spesso inadeguati.
Sono colpiti, il generale, tutti i cittadini, ai quali la società neoliberale toglie via via gli spazi di partecipazione consapevole al governo, privilegiando la governabilità sulla democrazia, l’accordo discreto con i potenti alla trasparenza delle procedure,
Per resistere, per reagire, per iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara, dobbiamo orientare l’azione lungo tre direttrici:
1. dobbiamo lavorare sulle idee, sulla conoscenza, sulla consapevolezza delle persone: informazione e formazione del maggior numero possibile di cittadini;
2. dobbiamo sostenere, incoraggiare e promuovere azioni dal basso per difendere i beni comuni là dove sono minacciati e per conquistarne di nuovi;
3. dobbiamo individuare e proporre esempi positivi, che dimostrino che una città diversa è possibile, che il potere e la partecipazione dei cittadini ad esso possono essere adoperati per rendere migliore e più giusto l’ambiente della vita dell’uomo.
La città come bene comune è la concezione
che permette di soddisfare il diritto alla città
Il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La “città come bene comune” è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. È una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. È una città che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.
È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido e la scuola, l’ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazione adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d’incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli.
Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini, in cui essi partecipano alla gestione del potere non solo nel momento dell’elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. Devono essere garantiti la trasparenza del processo delle decisioni sulla città e sul suo funzionamento, e la possibilità dei cittadini a esprimersi e ad avere risposte alle loro proposte. Tutto ciò richiede ai cittadini di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per realizzare, per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione dell’uso della città (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.
Regole chiare, trasparenti, condivise
Controllo dell’uso del suolo e delle urbanizzazioni
La prima condizione perché ciò possa avvenire è che le trasformazioni della città (sia quelle che comportano opere sia quelle che si verificano solo con cambi d’uso e di proprietà) avvengano sulla base di regole chiare, definite in modo trasparente, applicate senza deroghe e favoritismi. Esse devono essere definite con la condivisione della maggioranza degli abitanti, i quali devono intervenire in quanto cittadini e non in quanto proprietari di terreno o di edifici.
La seconda condizione è che il governo cittadino abbia il pieno controllo sull’uso del suolo, delle urbanizzazioni, del loro uso, e che possa impiegare gli incrementi di valore degli immobili, derivanti dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, alla realizzazione e al funzionamento delle opere che servono a tutti i cittadini.
Il governo pubblico delle trasformazioni del territorio, la pianificazione urbanistica, è il momento di sintesi della lotta per il diritto alla città e per la costruzione della città come bene comune.
Per iniziare la costruzione di una città più giusta occorre combattere a partire dalle esigenze più sentite dalla popolazione: la difesa degli spazi pubblici minacciati dalla privatizzazione e dall’abbandono del welfare, la conquista o la difesa di un alloggio a prezzi compatibili con il reddito, la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale sono già l’argomento di molte lotte nella città e nel territorio. . Occorre appoggiare, incoraggiare e promuovere le iniziative, aiutarle a mettersi in rete, a condividere obiettivi e strumenti.
In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo. In molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.
Le iniziative e le vertenze devono essere utilizzate non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati. Esse devono aiutare a far crescere la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.
Mi sembra che gli articoli (28 agosto; 3 e 7 settembre) che il manifesto ha dedicato al nuovo ponte veneziano non accennino a una questione che secondo me è essenziale. Quel ponte, che secondo Orsola Casagrande e Calatrava è meraviglioso, che secondo Massimo Cacciari non avrebbe potuto costare meno di quello che è costato, non serve a nulla. Se spendere quindici milioni di euro per fare una cosa assolutamente inutile è un esempio di buona amministrazione, allora chi ha inventato quel ponte e chi ha deciso di realizzarlo meriterebbero un premio. Quindici milioni di euro per accorciare di due o tre minuti il tragitto da piazzale Roma a Lista di Spagna sono davvero troppi. Gli unici a cui il ponte può servire sono i futuri proprietari e utilizzatori dell'ex sede del Compartimento ferroviario, che è al suo piede. Chi saranno? Vedremo.
Può essere che quel ponte sia una meraviglia dell'architettura. Ma è proprio la città storica di Venezia il luogo che ha bisogno di nuovi monumenti (a quindici milioni l'uno)? Non sarebbe stato meglio investire quei soldi per restaurare l'edilizia storica e conservarne la proprietà al patrimonio pubblico, cioè ai cittadini? O investirlo nelle periferie? Certo, il ponte aumenterà l' appeal di Venezia nei mass media . Molte più persone verranno a visitare la città. Le frotte di turisti cresceranno ancora. Gli affari delle bancarelle di junck aumenteranno. Scompariranno altri negozi di salumieri, fornai e fruttivendoli, per essere sostituiti da gelatai, pizzerie e dalla paccottiglia che affligge tutti i luoghi del turismo stupido. Poco importa se si ridurranno ancora le case disponibili per chi a Venezia lavora, se i vaporetti saranno sempre più intasati, se le calli e i ponti, invasi da frettolose carovane di turisti «mordi e fuggi», saranno ancora meno disponibili a chi vuole ammirare i tesori della città.
Purtroppo l'dea di città degli attuali successori della Serenissima è identica a quella che hanno i governanti di tutte le altre città che, per accrescere il proprio reddito, competono contro le altre per strappar loro masse più consistenti di consumatori. Magari altrove stanno un po' più attenti a non distruggere, per arricchire pochi mercanti, il patrimonio di cui sono venuti in possesso. Credo che siano queste le critiche che il ponte della Costituzione (il nome è l'unica scelta giusta a proposito di quell'oggetto) solleva, oltre a quella espressa in nome dei disabili. E non è facile nasconderle sotto una pietra, come il sindaco vorrebbe. La storia ricorderà gli errori, e i nomi di chi li ha commessi e celebrati. C'è solo da aspettare.
Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce.
Pierre-Edouard Lemontey, (1762-1826), storico ed economista francese, membro del'Assemblea legislativa dal 1771 al 1772, è stato redattore di vari giornali sotto il Direttorio. Citato da Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115
la Repubblica, 3 aprile 2009
Obiettivo della proposta di Berlusconi era liberare dai lacci e lacciuoli delle leggi di tutela del paesaggio e dell’urbanistica, e da quelli della pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica, gli animal spirits del mercato immobiliare e della conseguente attività edilizia. Questo obiettivo, che abbiamo largamente descritto e denunciato nelle sue implicazioni su eddyburg.it, è rimasto intatto e sarà perseguito dagli atti successivi, col pieno accordo unanime delle regioni, al di là delle dichiarazioni dei Martini, degli Errani, delle Lorenzetti.
Se non ci si affida alle affermazioni trionfalistiche dei presidenti delle regioni e invece si legge con un minimo di attenzione il documento si scopre facilmente l’inganno, e la ragione per cui Errani e Galan, Martini e Cappellacci hanno potuto ugualmente approvare lo stesso documento. Si scopre che, mentre tutte le parole dedicate alla tutela delle leggi vigenti, della pianificazione, del territorio e del paesaggio sono inviti, raccomandazioni, suggerimenti, opzioni possibili, quelle che invece si riferiscono alle deroghe, alla scomparsa dei controlli – insomma, alla riduzione della guida pubblica delle trasformazioni del territorio – sono precise, obbligatorie, tassative, inderogabili: fino a prevedere lo scavalcamento dei consigli regionali da parte dei presidenti, d’intesa col governo, con una prescrizione palesemente incostituzionale.
Si rifletta su alcuni punti.
Il documento chiede di "[…] introdurre forme semplificate e celeri per l'autorizzazione degli interventi edilizi di cui alla lettera a) e b) in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale". Che significa "in coerenza"? chi la stabilisce? Una norma che voglia prescrivere che “le forme semplificate e celeri” di autorizzazione dell’attività edilizia si svolgano nel rispetto delle leggi e dei piani lo dice con chiarezza: come nel medesimo documento si dice a proposito delle leggi sul lavoro, a proposito delle quali giustamente si proclama “la priorità assoluta del pieno rispetto della vigente disciplina in materia di rapporto di lavoro”.
Il documento dichiara che "le leggi regionali possono individuare gli ambiti nei quali gli interventi di cui alle lettera a) e b) sono esclusi o limitati, con particolare riferimento ai beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico […]".Insomma, la tutela dei beni culturali ecc. è un optional. Le regioni "possono individuare" le aree che, per le loro caratteristiche, devono essere salvaguardate e sono perciò escluse dalle costruzioni in deroga ai piani: questa salvaguardia non è un obbligo perentorio stabilito dalla Costituzione e garantito dalle leggi vigenti!
Tassative sono invece, anche perché affidate prevalentemente al governo, le prescrizioni liberatorie da “lacci e lacciuoli”. Come "la previsione di un termine certo per il rilascio delle autorizzazioni, permessi o altri atti di assenso comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e organismi statali"; dove si finge di dimenticare che stabilire "termini certi" (cioè il silenzio-assenso) è ragionevole unicamente se si rafforzano le strutture che devono rilasciare le autorizzazioni; altrimenti, significa eludere i controlli di merito. Come la definizione, da parte del Governo, di “principi per la legislazione regionale atti a consentire l'ampliamento delle tipologie degli interventi non soggetti a titolo di abilitazione preventiva": avanti dappertutto con il silenzio-assenso.
Su questa base, il Capo può procedere tranquillo, cantieri si apriranno dappertutto: basta essere "coerenti" con le leggi e i piani urbanistici, territoriali e paesaggistici. La "coerenza", naturalmente, sarà stabilita in un Accordo di programma con gli immobiliaristi grandi e piccini. O forse no? Se qualche regione - dove la cultura moderna della pianificazione ha più solide radici e l’attuale establishment è più libero dall’ideologia neoliberista - vuole comportarsi diversamente, lo faccia: le altre si muoveranno come ruspe, garantite dall’accordo unanime.
Infine una perla, che rivela il baratro nel quale è caduta la grammatica normativa dei “legislatori” dell’Italia popolare e proprietaria, e dei berluscones effettivi e di complemento che la rappresentano. Il documento prevede "la fissazione dei principi fondamentali in materia di misure di perequazione e compensazione urbanistica, all'interno dei piani urbanistici, sulla base delle norme già presenti nei disegni di legge attualmente all'esame del Parlamento". Evidentemente il testo è stato scritto dopo un’abbondante e unanime libagione. Mai visto un riferimento a "disegni di legge attualmente all’esame del Parlamento": e a quale dei ddl? Al più permissivo? Al più rigoroso? A quello che esclude perequazione e compensazione?
Dimenticavamo: e la "casa"? La parola magica che ha sfoderato il Capo in cerca di alibi? Quella "casa" che è il tormento di tantissimi italiani non ricchi? Per quella c’è un ottimo auspicio: "Il Governo si impegna […] in merito al sostegno dell'edilizia residenziale pubblica, ad aprire un tavolo di confronto con le Regioni e le Autonomie locali". Quando Giovanni Giolitti voleva insabbiare un problema nominava una commissione parlamentare per studiarlo; nel XXI secolo, nell’Italia berlusconata si istituisce un Tavolo.
In conclusione. Con l’accordo delle regioni il governo sta distruggendo il governo pubblico delle trasformazioni del territorio. Sta distruggendo la possibilità di rendere le città e i territori più vivibili, più ragionevolmente organizzati, più efficacemente serviti dai servizi pubblici, più armoniosi e meglio9 inseriti nella natura: quegli obiettivi per i quali la societa borghese e liberale, temperando lo spontaneismo del capitalismo liberista, aveva inventatoi e praticato la pianificazione urbanistica. Scatenando gli spiriti animali degli interessi del “blocco edilizio” si torna indietro di due secoli e si calpestano, con il piede della speculazione, i diritti della città e dei suoi abitanti.
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
L'immagine riproduce Foot Over City, di Michael Jacobs
In calce il testo ufficiale e definitivo del testo siglato dal Governo e dalle regioni
Dal sito web Regioni.it, 24 marzo 2009. Anche in eddyburg.
Da "la Repubblica", 14 marzo 2009
Sapete perchè proprio l'8 marzo è la festa della donna? Leggete qui
"I due fronti della crisi", la Repubblica, 12 novembre 2008
Spreading Democracy. The Word’s Most Dangerous Idea è stato pubblicato in internet nel settembre/ottobre 2004. E’ inserito, con alcuni altri scritti dell’autore de Il secolo breve, nel libro Imperialismi, trad. it di Daniele Didero, Rizzoli, Milano 2007.
Siamo attualmente impegnati in ciò che dovrebbe essere un riordino pianificato del mondo a opera degli Stati più potenti. Le guerre in Iraq e in Afghanistan costituiscono solo una parte di un tentativo universale di creare un ordine mondiale attraverso l'«esportazione della democrazia». Ora, una simile idea non è soltanto donchisciottesca: è profondamente pericolosa. La retorica che circonda questa crociata sostiene che il sistema democratico è applicabile in una forma standardizzata (quella occidentale), che può essere introdotto ovunque con successo, che può offrire una risposta ai dilemmi internazionali del giorno d'oggi e che può portare la pace (anziché seminare ulteriore disordine). Male cose non stanno così.
La democrazia gode giustamente del favore popolare. Nel 1647, i Livellatori inglesi diffusero la potente idea secondo cui «il governo risiede interamente nel libero consenso del popolo». Con ciò intendevano riferirsi al diritto di voto esteso a tutti. Naturalmente, il suffragio universale non garantisce nessun particolare risultato politico, e le elezioni (come la Repubblica di Weimar ci insegna) non possono nemmeno garantire il loro stesso ripetersi. È anche improbabile che la democrazia elettorale produca risultati convenienti per le potenze imperialistiche o egemoniche. (Se la guerra in Iraq fosse dipesa dal consenso liberamente espresso della «comunità internazionale», non avrebbe mai avuto luogo.) Queste incertezze, comunque, non diminuiscono l'attrattiva della democrazia elettorale.
Oltre alla sua popolarità, ci sono diversi altri fattori che contribuiscono a spiegare l'illusoria e pericolosa convinzione secondo la quale sarebbe di fatto possibile diffondere la democrazia attraverso l'intervento di eserciti stranieri. La globalizzazione sembra suggerire che l'umanità si stia evolvendo verso l'adozione di modelli universali. Se i distributori di benzina, gli iPod e gli esperti di computer sono uguali in tutto il mondo, perché ciò non dovrebbe valere anche per le istituzioni politiche? Questo modo di vedere le cose tende tuttavia a sottovalutare la complessità del mondo. Anche la ricaduta nell'anarchia e negli spargimenti di sangue a cui abbiamo chiaramente assistito in molte parti del mondo ha accresciuto il fascino dell'i-dea di diffondere un nuovo ordine. Il caso dei Balcani è parso mostrare che le aree di disordine e di catastrofe umanitaria richiedono l'intervento - militare, se necessario - di Stati forti e stabili. Nell'assenza di un governo internazionale in grado di prendere effettivi provvedimenti, alcuni umanitaristi sono già pronti ad appoggiare un ordine mondiale imposto dalla potenza americana. Tuttavia, quando le potenze milîtari sconfiggono e occupano Stati più deboli affermando che stanno facendo un favore alle loro vittime e al mondo intero, dovremmo come minimo nutrire sempre qualche sospetto.
Tuttavia, c'è anche un altro fattore, che potrebbe essere quello più importante: gli Stati Uniti sono stati pronti a intervenire can la necessaria combinazione di megalomania e messianismo, derivata dalle loro origini rivoluzionarie.- Oggi gli Usa non hanno rivali in grado di sfidare la loro supremazia tecnologico-militare, sono convinti della superiorità del loro sistema sociale e, dal 1989, hanno smesso di ricordare (come invece avevano sempre fatto tutti i più grandi imperi conquistatori del passato) che il loro potere materiale ha dei limiti. Come il presidente Woodrow Wilson (che, ai suoi giorni, andò incontro a un fallimento internazionale spettacolare), gli ideologi di oggi vedono una società modello già attuata negli Stati Uniti: una combinazione di legge, liberalismo, competizione fra le imprese private e regolari sfide elettorali il cui esito viene deciso con il suffragio universale. Tutto ciò che resta da fare è rimodellare il mondo a immagine di questa «società libera».
Questa idea è un modo pericoloso di autoconvincersi. Anche nei casi in cui (intervento di una grande potenza potrebbe avere conseguenze moralmente o politicamente desiderabili, appoggiare questo tipo di azioni è rischioso, perché la logica e il modo di procedere degli Stati non sono quelli dei diritti universali. Ogni singola nazione mette al primo posto i propri interessi. Se ne hanno il potere, e se ritengono che il fine sia sufficientemente importante, gli Stati giustificano i mezzi necessari per raggiungerlo (anche se raramente lo fanno in pubblico), in particolare quando pensano che Dio sia dalla loro parte. Tanto gli imperi «buoni» quanto quelli «cattivi» hanno prodotto la barbarizzazione della nostra epoca, alla quale la «guerra contro il terrore» ha dato ora il proprio contributo.
Finché di fatto minaccerà l'integrità di valori universali, la campagna per diffondere la democrazia non avrà successo. Il XX secolo ci ha dimostrato che gli Stati non sono assolutamente in grado di rimodellare il mondo o di accelerare artificialmente le trasformazioni storiche. E non possono neppure ottenere un cambiamento sociale in modo semplicistico, limitandosi a trasferire i modelli di istituzioni da un Paese all'altro. Anche negli Stati-nazione territoriali, per un effettivo governo democratico sono necessarie condizioni non così frequenti o scontate: le strutture dello Stato devono godere di legittimità e consenso, e avere la capacità di mediare i conflitti fra i diversi gruppi interni. In mancanza di questi requisiti, non c'è un singolo popolo sovrano e, pertanto, non c'è legittimità per le maggioranze numeriche. Quando il consenso - che sia religioso, etnico o entrambe le cose - è assente, la democrazia viene a essere sospesa (come nel caso delle istituzioni democratiche nell'Irlanda del Nord), lo Stato si divide (come in Cecoslovacchia), o la società sprofonda in una permanente guerra civile (come in Sri Lanka). La scelta di «esportare la democrazia» ha aggravato i conflitti etnici e ha prodotto la disgregazione di Stati in regioni multinazionali e multicomunitarie sia dopo il 1918, sia dopo il 1989; si tratta, insomma, di una tetra prospettiva.
Oltre alle sue scarse probabilità di successo, lo sforzo di diffondere la democrazia nella sua versione standardizzata occidentale soffre anche di un radicale paradosso. In larga misura esso è considerato come una soluzione dei pericolosi problemi tra nazioni del mondo d'oggi. Attualmente, una parte sempre più grande della vita umana viene decisa al di là dell'influenza degli elettori, da entità sovranazionali pubbliche e private che non hanno elettorati (o, perlomeno, in cui non si svolgono elezioni democratiche). E la democrazia elettorale non può di fatto funzionare al di fuori di unità politiche come gli Stati-nazione. Gli Stati più forti stanno quindi cercando di diffondere un sistema che essi stessi ritengono inadeguato per affrontare le sfide del mondo d'oggi.
Questo punto è ben esemplificato dalla situazione europea. Un'entità come l'Unione Europea ha potuto svilupparsi in una struttura autorevole ed efficiente proprio perché non ha un elettorato (al di fuori di un piccolo numero - per quanto crescente - di governi membri). L'Ue non sarebbe andata da nessuna parte senza il suo «deficit democratico», e non può esserci futuro per il suo Parlamento per il semplice motivo che non esiste un «popolo europeo», bensì una mera collezione di «popoli membri» (più della metà del presunto «popolo» non si è preso neppure la briga di andare a votare per eleggere il Parlamento di Bruxelles nel 2004). L'«Europa» è oggi un'entità funzionante, ma a differenza dei suoi singoli Stati membri non gode di legittimità popolare o di autorità elettorale. Non ci sorprende quindi che, appena l'Ue si spinge oltre le negoziazioni fra i governi e diventa il soggetto di una campagna democratica negli Stati membri, iniziano a sorgere dei problemi.
Lo sforzo volto a esportare la democrazia è pericoloso anche per un motivo più indiretto: esso trasmette a coloro che non godono di questa forma di governo l'illusione che nei Paesi che ne godono la democrazia sia effettiva. Male cose stanno davvero così? Oggi noi conosciamo qualcosa su come sono state di fatto prese le decisioni di andare in guerra in Iraq in almeno due nazioni di indubitabile tradizione democratica: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A parte sollevare a posteriori complessi problemi di inganni e occultamenti di verità, la democrazia elettorale e le assemblee rappresentative hanno avuto poco a che vedere con quel processo. Le decisioni sono state prese in privato da piccoli gruppi di persone, in modo non molto diverso da quanto sarebbe accaduto in Paesi non democratici. Fortunatamente, nel Regno Unito non è facile aggirare ed eludere l'indipendenza dei media. Ma la democrazia elettorale da sola certo non basta ad assicurare l'effettiva libertà di stampa, né i diritti dei cittadini o l'indipendenza del potere giudiziario.
Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.
Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.
Sembrava che i giochi fossero fatti.Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto.Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno svi luppo economico e sociale non effimero.
Nota. Il testo cartaceo del giornale in mio possesso porta la data del 13 giugno 1990, mentre nell'archivio online dell'Unità il facsimile in .pdf è scaricabile alla data 12 giugno 1990
Da la Repubblica, 22 febbraio 2009
film, 1947, con Humphrey Bogart
Siamo ancora nel pieno del balletto dei decreti Nicolazzi. Più che seguirne le poco aggraziate “figure” (ciò che del resto faremo nelle pagine interne) ci sembra opportuno proseguire in una riflessione già avviata nel numero scorso. Se il Nicolazzi ha potuto trovare, e ancora trova, un pur contrastato credito ciò non è solo dovuto alle “manovre dell’avversario”, o al qualunquismo imperante che farebbe degli itali anile facili prede d’ogni demagogia. Esistono – questo è il punto che vogliamo riprendere – complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica.(Adoperiamo questo termine, certo insufficiente, perché ci sembra che esso esprima, sia pure in modo ellittico, il complesso delle azioni volte a costruire metodi e strumenti d’intervento sul territorio che ne rendano il governo efficace, trasparente, politicamente orientato).
Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose intemperanze e approssimazioni dell'Inu post sessantottesco, del tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della gestione urbanistica, della scoperta dell'insufficienza di una politica solo “quantitativa" per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del defatigante impegno nell'elaborazione e nella critica propositiva delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto meno, non sono sufficienti e proprio per ciò, stimolano a capir meglio.
Non c'é dubbio. Il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell'urbanistica italiana deve essere assunto criticamente. In ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, pretende d'essere superato. Superato, però, non liquidato. Da più d'un segno, ci sembra invece di sentir aria di liquidazione. È un caso se l'impegno degli urbanisti; di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il controllo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed enfatizza invece il momento del progetto, dell'intervento singolare, dell'opera unica e conclusa? se l'urbanistica tende a rientrare nel ventre di una delle sue matrici; l'Architettura? È un caso se non v'è più una rivista che metodicamente e sistematicamente persegua l'obiettivo di documentare, con rigore e completezza, le più significative esperienze di pianificazione, proponendosi di rappresentarle prima d'interpretarle? se le polemiche si sviluppano nel chiuso delle corrispondenze personali anziché sulle pagine aperte delle riviste? E un caso se uno strumento decisivo per il governo del territorio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959, tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia nella fase nascente del regionalismo (parliamo del Ppa), viene lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena può cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa problematica dei Peep e dei Pip viene considerata obsoleta, o meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della grande progettazione post modernista?
Gli urbanisti potranno senza dubbio cercare gli alibi, e trovarli fuori dalla sfera delle proprie responsabilità e competenze. Le sordità e gli interessi dei `politici', la neghittosità delle regioni e dei comuni, la farraginosità dei dispositivi legislativi ed amministrativi, l'incompletezza, e quindi la criticabilità, delle esperienze compiute dall'urbanistica "tradizionale". Ma oggi ci sembra, l'impegno nostro deve essere volto altrove: a cercare, e a superare, le ragioni delle nostre insufficienze; a trovare, nello sviluppo e nel superamento della nostra specifica eredità culturale le ragioni di un più preciso servizio della nostra disciplina alla società nella quale viviamo. Ogni nuova evasione rispetto a questo compito, ogni nuova fuga (in avanti o all'indietro), altro non significherebbe che cedere all'imbarbarimento, del quale il ministro Nicolazzi è l'interprete efficace, anche se forse inconsapevole.
Abbiamo spesso avuto occasione di accennare specialmente negli ultimi numeri della nostra rivista, ma non solo in quelli - alla questione dell’organizzazione del consumo. La fugacità degli accenni, peraltro, e la novità della questione, ci hanno procurato alcune lettere da parte dei nostri lettori. In esse ci si chiede di precisare, in modo meno indiretto ed allusivo di quanto ci è stato finora concesso dagli argomenti trattati- argomenti che ci portavano a toccare quasi marginalmente, e in apparenza addirittura perincidens, iproblemi del consumo e della sua organizzazione - sia che cosa per quest'ultima si intenda, sia perché una moderna e razionale strutturazione dei modi nei quali il consumo avviene - costituisca una inderogabile necessità per lo sviluppo della nostra economia e dell'intero sistema e. Ed infine ci è stata posta una questione più delicata e complessa: come sia possibile cioè, organizzare, specializzare, inserire in un contesto di economicità, un complesso di funzioni e di atti che interferiscono in modo o ed immediato con la famiglia - e dunque con la cellula più intima e riservata della società - senza impoverire e minacciare la sua esistenza.
Ma un equivoco vogliamo tentare anzitutto di dissipare, prima di provarci a chiarire i dubbi sollevati dai nostri lettori, e a rispondere alle questioni da essi poste. L'equivoco, cioè, nel quale si incorre da parte di taluni, di confondere l'organizzazione del consumo con quella della distribuzione. V'è infatti chi ritiene che l'ammodernamento dei modi nei quali avviene - in Italia – lo scambio; che lo sfoltimento radicale della catena distributiva; che l'intervento massiccio di quelle nuove strutture di mediazione tra produzione e consumo, di cui il self-service e il supermercato sono alcuni efficaci e vistosi esempi; che queste iniziative insomma possano portare ad una radicale trasformazione del consumo; che, anzi, ad esse possa senz'altro ridursi la questione dell'organizzazione del consumo.
In realtà. non abbiamo mai taciuto o sottovalutato l'importanza del momento distributivo, ed i lettori ce ne daranno facilmente atto. Abbiamo altre volte osservato, ad esempio, che un’efficiente ed agile rete distributiva pretende una produzione di un certo tipo: quella consentita da un sistema produttivo moderno, dal quale siano scomparse le forme attualmente prevalenti della piccola e piccolissima azienda, incentrate sul secco predominio del momento proprietario su quello imprenditivo. E tuttavia, ci sembra opportuno aggiungere adesso che è del pari necessario vedere che una moderna distribuzione, una distribuzione organizzata secondo moduli economici e rigorosi, non può assolutamente fare a meno di un'adeguata organizzazione del consumo.
Anche partendo dalla distribuzione, in altri termini, ci si rende facilmente ragione dell'obiettiva, autonoma, distinta esistenza della questione del consumo; ci si rende conto, in una parola, che un consumo organizzato in forme premoderne costituisce un muro invalicabile, un invincibile ostacolo, al pieno manifestarsi e all'espandersi delle più razionali tecniche e strutture distributive. Così, infatti; le iniziative ancora sporadiche di ammodernamento radicale - almeno sul piano tecnologico - vengono costrette a restare delle singolari curiosità, o al massimo delle manifestazioni ulteriori del privilegio della metropoli della consolidata sperequazione cioè tra le varie zone economiche e sociali che compongono il nostro paese.
Come avviene il consumo in Italia? E' facile rendersi conto di quanto esso sia legato strettamente alla vita familiare, e come esso subisca l'ordinamento rigidamente privatistico di questa. Una sola persona, priva di ogni oggettiva qualificazione tecnica, presiede alle innumerevoli incombenze della gestione domestica. La spesa, la scelta delle merci, la formulazione del bilancio e la suddivisione delle sue voci, la preparazione dei cibi, la pulizia della casa, delle stoviglie, la cura degli indumenti e la loro sostituzione, la sorveglianza dei minori anche ben oltre le necessità della partecipazione della donna all'equilibrio della vita familiare: questi sono solo alcuni dei compiti materiali svolti, ogni giorno, dalla casalinga. E però l'attività di quest'ultima, mentre da un lato è assolutamente empirica e non specializzata. dall'altro - e di conseguenza - avviene in forma del tutto gratuita. Essa è quindi, per un duplice ordine di motivi, completamente priva di ogni metro economico, di ogni ordine previsto, di ogni tecnica razionale, di ogni necessaria disciplina: il servaggio delle casalinghe - costrette ad una fatica di cui nessuna remunerazione è possibile - viene così a coprire, a nascondere, a rendere scarsamente avvertibile dall'opinione pubblica la reale e gravissima dispendiosità con il quale il servizio domestico viene gestito. Come meravigliarsi, dunque, se sono l'anarchia e l'individualismo le leggi dei consumo familiare? Eppure. come la produzione e lo scambio -- e di conseguenza la distribuzione - anche il consumo è un aspetto dell'attività economica, e dovrebbe sottostare alle leggi che di questa regolano l’esistenza. Ma il capitalismo - come più volte detto - è incentrato sulla produzione, ha nell’industria il suo cuore e il suo feticcio; è portato organizzare la distribuzione solo in quanto questa è l'aspetto finale del processo produttivo. E il consumo, il momento economico al quale - sul piano del diritto naturale - tutti gli altri sono subordinati, è invece lasciato completamente in balìa di forme compatibili solo «con l'economia chiusa del mondo feudale».
Un processo economico moderno, un processo economico che voglia utilizzare nel modo più completo, che voglia trasformare in valore tutta la potenzialità di lavoro di tutta la parte della popolazione capace di erogare forza-lavoro, che voglia quindi riportare sotto il segno rigoroso della legge dell’economicità, da un capo all’altro, l’intera catena percorsa dalle merci, non può in alcun modo ignorare il consumo, lasciare questo momento decisivo alle forme privatistico-familiari nelle quali esso oggi avviene.
Indubbiamente, in un momento in cui si sta uscendo - in tutto il mondo, nei modi più vari, con formule compromissorie o tendenzialmente rigorose, in modo radicale o con incertezze e remore più o meno, pesanti — dal privatismo e dall’indvidualismo produttivo, l’organizzazione del consumo è possibile solo attraverso la fuoruscita di tutto un settore della vita sociale delle formule privatistico-familiari.
Chi, ad esempio, abbia una qualche dimestichezza con l’urbanistica e l’edilizia può già scorgere decine di possibilità concrete, di strumenti già pronti all’uso, che potrebbero essere utilizzati per una nuova strutturazione dei consumi. Le lavanderie di caseggiato, le cucine comuni, i servizi specializzati di pulizia e manutenzione degli alloggi, i locali e” gli spazi estemi di gioco dei bambini, la razionale ubicazione dei servizi scolastici, dei mercati, degli altri servizi di quartiere, l’organizzazione degli ambienti di soggiorno, di ricreazione, di riunione comune: e ogni lettore potrà per suo conto continuare l’elencazione dei servizi, delle merci, di cui le attuali possibilità delle tecniche permettono un più razionale uso.
E' d'altra parte cosa verissima che la crisi nella quale l'istituto familiare versa, trova un qualche mascheramento appunto nella conduzione privatistico-familiare della gestione domestica. Si può affermare, in altri termini, che molte-famiglie il cui nucleo spirituale è venuto a spegnersi trovano oggi l'unico cemento, l'unico motivo di coesistenza, nella gestione dell'azienda economica «famiglia», nella sua base proprietaria, nel comune affrontare i pesi e le fatiche fisiche della sua esistenza.
Liberare la famiglia dalla gestione domestica condurrebbe dunque, su questo piano, a un duplice ordine di conseguenze. Da un lato, affrancando il nucleo familiare dai motivi più materiali, più fisicamente routiniers della sua vita, riverrebbero a porre in primo piano i motivi più profondi e perenni, le ragioni intime e fondamentali della sua esistenza. Dall'altro lato, tuttavia, una crisi che è ancora dissimulata e contenuta verrebbe in tal modo a esplodere; numerosissime sarebbero le famiglie oggi ancora esteriormente salde - una ripresa delle quali resta quindi pur sempre possibile - che, una volta rotto il guscio superficiale che dava loro una fittizia coerenza, verrebbero a dissolversi.
[…]
È facile intuire l’importanza economico-sociale e le condizioni politiche connesse alla prospettiva di un’efficiente organizzazione del consumo. Organizzare razionalmente il consumo ha certo, come prima, immediata conseguenza, la riduzione del suo costo: e non crediamo occorrano elaborate dimostrazioni per convincerne il lettore. Sono dunque vitalmente interessate alla questione forze sociali decisive, quali ad esempio quelle sindacali. Se infatti il fine precipuo del sindacato è quello di difendere, di affermare, la capacità di consumo del salariato, e se la logica del sistema capitalistico non permette, oltre certi limiti - i limiti pretesi dal profitto e, ancor di più, dalla necessità obiettiva di accumulare quote importanti del capitale - di aumentare la fetta di reddito che spetta al salariato, è chiaro allora che sarebbe una battaglia del tutto connaturale al sindacato quella condotta per una razionale organizzazione del consumo, attraverso la quale, a parità di salario, diviene possibile ottenere una maggiore capacità di consumo.
In secondo luogo, poi, l’affidare la gestione domestica a personale specializzato, che presta la sua opera contro regolari remunerazioni, permette la scomparsa di una categoria avvilita ed insofferente - quella delle casalinghe - la cui esistenza è cagione prima dell’attuale impossibilità di risolvere la questione femminile. La liberazione di milioni di donne dal peso materiale, soffocante, di una gestione domestica che è pesantissima per le forme in cui avviene, oltre a costituire una base necessaria per una piena emancipazione della donna (una emancipazione che non significa certo, riteniamo, indistinzione sul piano naturale dell’uomo e della donna, ma invece parità di condizioni materiali di partenza, uguale rapporto con la realtà economica), rende anche disponibile una massa di forza-lavoro - e dunque di creatori di valore - altrimenti condannati a faticare in modi dispendiosi e a-economici.
Ma può una società come la nostra, fondata su una struttura economica torpida e anarchica, nata per l’iniziativa prematuramente senile di una borghesia impotente, diretta da un personale politico incapace e arruffone permettere simili prospettive, utilizzare siffatti tesori nascosti? C’è, in altri termini, nel nostro sistema sociale, l’esigenza di liberare le grandi riserve esistenti di forza lavoro? Tutto ci risponde certamente di no. Nel quadro degli attuali equilibri politici, l’organizzazione del consumo - ove per avventura, a semplice titolo di ipotesi potesse in qualche misura realizzarsi - coinciderebbe fatalmente con l’estromissione brutale delle braccia superflue da attività nelle quali, bene o male, riescono oggi a sopravvivere. Per risolvere questo come altri decisivi problemi italiani, il privatismo conservatore è insufficiente, i costi da esso pretesi insopportabili.
2009021
Che cosa intendiamo per “sistema delle qualità”
Affrontare il tema, apparentemente solo tecnico, della riorganizzazione spaziale e organizzativa degli spazi pubblici e delle attrezzature collettive, e quello - al primo strettamente connesso - della ridefinizione del sistema della mobilità, può giovare a far comprendere che è possibile restituire alla città la sua dimensione sociale. Può essere modo concreto, di rapido impatto, per ritrovare un collegamento con le esigenze della società, per ridare espressione alle sue speranze. Porrei in questa prospettiva la proposta, che in alcuni recenti piani comunali si è cercato di costruire, della definizione e realizzazione di un “sistema delle qualità” .
La proposta di formare un “sistema delle qualità” esprime l’intenzione di rovesciare il modo ormai divenuto usuale di considerare la città (un aggregato di case collegate da strade percorse da automobili), e di guardarla e organizzarla invece a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall’individuale e dall’automobilistico e dal costruito e dall’asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psico-fisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell’istruzione, della cultura, dell’incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell’amministrazione e della giustizia e così via).
Il tentativo è insomma quello di progettare e realizzare un “sistema” costituito dall’insieme delle aree qualificanti la città in termini ambientali, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una riorganizzazione del sistema della mobilità: una riorganizzazione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclabile e pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclabile e pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.
Non si tratta di una proposta rivoluzionaria, ma semplicemente di orientare la progettazione urbana verso obiettivi concretamente raggiungibili, socialmente avvertibili e capaci di proporre un recupero delle caratteristiche peculiari della città.
Lo ha proposto anche l’associazione internazionale Europa Nostra:
"Tutte le recenti esperienze di pianificazione e di progettazione urbana indicano la necessità di vedere gli spazi pubblici e gli spazi versi adoperati per la riocreazioner e la rigenerazione, i percorsi pedonali e ciclabili protetti, i luoghi eccellenti della memoria del territorio come elementi che devono essere composti in un sistema, una rete: una rete verde per qualificare e per legare , le differenti parti della città, e la città alla campagna".
In una simile logica, in una logica di sistema e di rete, si supera realmente il limite meramente qualitativo nell’ambito del quale la questione degli spazi pubblici è stata avviata a soluzione con l’introduzione degli standard urbanistici . Lo si supera, anziché semplicemente negarlo, come con preoccupante frequenza si sente proporre.
l sistema delle qualità di Sesto Fiorentino
Anche una città di recente formazione, come quella di Sesto, è ricca di storia. La trama degli edifici e dei percorsi storici, i nuclei rurali originali, ciascuno con la propria piazza, la chiesa e con la casa del popolo poste al centro, costituiscono i nodi principali della rete degli spazi pubblici. Anche la natura, sia pure assai sacrificata dalle esigenze abitative e produttive che si concentrano in città, è comunque presente: corsi d’acqua, lembi del paesaggio agrario, aree verdi di grande respiro sono distribuite all’interno del perimetro urbano, delimitato a monte dagli ulivi e dai boschi di Monte Morello e a sud dall’area agricola della Piana.
La trama diffusa è costituita dalle aree pubbliche e di uso pubblico che sono state acquisite attraverso un’oculata gestione urbanistica durata oltre un secolo, dal primo piano regolatore che prevedeva l’acquisizione del terreno per la sede del nuovo municipio, ad oggi. Una dotazione ampia e ricca, che significa, per i cittadini sestesi, la possibilità di usufruire di scuole, giardini, spazi culturali, uffici amministrativi.
Anello mancante di questo sistema potenziale è costituito dai percorsi pedonali e ciclabili. Passeggiare per Sesto, oggi, non è sempre facile e ancora più complicato è muoversi in bicicletta. I percorsi casa-scuola e casa-giardino non sono sempre protetti dai rumori e dai pericoli del traffico e così, inevitabilmente, si utilizza l’automobile anche quando non sarebbe necessario. Il lavoro condotto si è pertanto incentrato su quest’ultimo aspetto.
Il sistema delle qualità si basa su tre percorsi principali “dal monte al piano”, che mirano a connettere le aree collinari e la pianura, attraverso i luoghi più significativi della città, connessi da percorsi protetti con cui costituiscono una rete continua.
Il primo percorso si origina a Querceto e, attraverso le aree verdi e gli spazi pubblici di Campo Sportivo si protende verso la ferrovia, lambendo l’area di trasformazione “Ginori”. Attraverso i sottopassi in corrispondenza della fermata ferroviaria del Neto è possibile superare la barriera costituita dai binari e giungere così a Padule, attraversando il nucleo centrale dell’Utoe di Padule (posto a cavallo di via Togliatti) e, lungo le aree verdi dei quartieri residenziali recenti, giungere fino al limite urbano costituito dall’asse stradale Mezzana-Perfetti-Ricasoli. Da lì prosegue nella direzione dell’Arno, immettendosi nel Parco della piana attraverso una delle sue “porte”.
Il secondo unisce tra loro le tre centralità più forti e riconoscibili della città: Colonnata, il centro storico vero e proprio e San Lorenzo. Il percorso parte dall’area della ex manifattura di Doccia (dove si prevede la collocazione di alcune attrezzature culturali di eccellenza) e incontra – connettendoli con il sistema di piazze e percorsi pedonali delle aree centrali – i parchi dell’Oliveta e del Comotto e, oltre la ferrovia, di San Lorenzo e del nuovo Cimitero.
Il terzo, infine, partendo da Quinto Alto attraversa le aree agricole poste a nord di via Sestese, nelle quali spicca l’emergenza della Mula, e, supera la barriera ferroviaria in corrispondenza della fermata di Zambra, laddove è prevista la connessione tra le aree di trasformazione “ex caserme” e “Nord-coop”. Di qui, attraverso il nuovo insediamento di via Pasolini, nel quale troveranno collocazioni anche una serie di spazi verdi e di attrezzature ricreative di rango urbano (piscina, campo di marte, ecc.) si riconnette all’Università che, in tal modo, torna ad essere una porzione di città, così come era stato ipotizzato in origine quando si decise di localizzarla nella piana di Sesto.
Come si è accennato, i tre percorsi del sistema delle qualità sono poi messi in rete attraverso la rete dei percorsi ciclabili – oggi pressoché assente – della quale si prospetta la progressiva realizzazione negli anni a venire. Tale rete si protende nella piana verso i comuni contermini (Calenzano, Campi, Signa e Firenze) e si connette alla rete dei sentieri che interessa la collina di Monte Morello.
Le politiche della sosta, gli interventi di riqualificazione dell’arredo urbano, la progettazione del verde e delle attrezzature, le opere da realizzare a carico dei privati che intervengono nelle aree non consolidate sono gli strumenti ai quali è affidata la progressiva realizzazione del sistema.
Come si realizza
La carta del sistema delle qualità nel piano strutturale non ha (né è utile che abbia) valenza normativa: essa serve a descrivere l’idea-guida che dovrà orientare le successive politiche dell’amministrazione. Il piano regolatore vincola l’amministrazione a perseguire gli obbiettivi e l’assetto di massima prefigurato nella carta del sistema delle qualità, ma lascia la necessaria libertà nella scelta degli strumenti e della definizione degli aspetti puntuali.
In parole semplici: la realizzazione di percorsi e spazi di sosta, l’eliminazione delle barriere architettoniche, il completamento della dotazione di verde e di attrezzature, la riqualificazione degli spazi storici e dei luoghi rappresentativi della memoria collettiva possono attingere canali di finanziamento e di progettazione assai diversi fra loro, prevedendo laddove opportuno il coinvolgimento dei privati.
Allo stesso modo, ciascuna trasformazione urbana di iniziativa privata è chiamata a fornire un contributo specifico, in aree e attrezzature o monetario, valutato a partire dalla carta del sistema delle qualità, in modo che il sistema vada a costituirsi nel tempo, tassello dopo tassello.
Progettazione di opere pubbliche, promozione di piani e progetti per l’ambiente e per la mobilità, politiche sociali, istruttorie e convenzionamento dei piani attuativi sono i numerosi fronti aperti.
Appare evidente che – prima di tutto – serve la condivisione da parte degli amministratori e dei tecnici dei diversi settori coinvolti. Ancora una volta, perciò, è la positiva combinazione di solide strutture tecniche (in primis l’ufficio di piano e il suo dirigente) e di volontà politiche a fornire il necessario combustibile alle intuizioni degli urbanisti.
Nessuno si illude che ciò sia facile da ottenere, tuttavia i primi passi sono già compiuti, e le prime realizzazioni lasciano ben sperare.
la Repubblica, 29 gennaio 2009
Non da oggi nascono il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, la scomparsa degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.
La visione e i progetti di eddyburg
Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città, e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni degli standard urbanistici la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci proponiamo di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta. A questi temi dedicheremo la quinta edizione della Scuola di eddyburg, che terremo ad Asolo dal 9 al 12 settembre prossimi.
Gli spazi pubblici sono a rischio. Abbiamo accennato più sopra ai rischi principali. Essi hanno la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.
Ma sono concretamente a rischio per mille concrete iniziative di governo. Indichiamone due (ma si tratta, ahimè, di un elenco aperto). Le recente iniziative del ministro degli interni di vietare le manifestazioni religiose (ma latu sensu tutte le manifestazioni) nei luoghi pubblici in prossimità dei luoghi di culto: ma dove c’è, in Italia, una piazza che non sia vicina a una chiesa? E il perverso intreccio tra lo strangolamento finanziario dei comuni e l’arrendevolezza di questi ultimi, che li spinge a svendere gli spazi pubblici, o a commercializzarli, per ottenere il danaro con cui sopravvivere (vivendi perdendo causam).
A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Pochi giorni fa, a Cassinetta di Lugagnano, dove si è reso pubblico un appello dal titolo “Stop al consumo di suolo” si è potuto verificare come attorno a questo tema si annodino le mille vertenza aperte in ogni parte d’Italia per ottenere città che non crescano più sotto il dominio della speculazione immobiliare, ma siano città resi vivibili dalla quantità e qualità degli spazi pubblici, e dalla sua organizzazione d’insieme come unitario bene comune; tremila gruppi, comitati, associazioni hanno comunicato la loro adesione alla manifestazione. Ci proponiamo di coinvolgerli in una iniziativa che da qualche tempo, in collaborazione con altre associazioni, abbiamo avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.
Il ruolo del commercio
Un ragionamento particolare merita il ruolo del commercio nella vita della città. La vitalità dei suoi spazi pubblici ha avuto storicamente un apporto decisivo dalla presenza del commercio: più precisamente, dal commercio legato alle esigenze quotidiane della vita degli abitanti di quel quartiere o di quel settore urbano. Le piazze sono state luoghi di incontro, di convivenza, di confronto e scambio anche per la presenza dei negozi d’uso comune e corrente. E le gerarchie tra i diversi spazi pubblici (e le diverse zone della città) era legata anche alle gerarchie tra le merci offerte: quelle più rare e più pregiate caratterizzavano le parti più importanti della città.
A un certo momento tutto ciò è cambiato. Da un lato, il consumo ha perso sempre più il contatto con le esigenze reali delle persone ed è diventato consumo artificioso, consumo del superfluo, consumo opulento, indotto non dal bisogno dell’uomo ma da un apparato che ne ha fatto una variabile dipendente della produzione. Dall’altro lato, grazie alle tecniche della distribuzione di massa, finalizzate a smerciare una quantità sempre più ampia di prodotti, si è riusciti a praticare prezzi fortemente competitivi non solo per le merci dell’opulenza, ma anche per quelle della vita quotidiana.
Così, prima i grandi supermercati e ipermercati, poi gli outlet, i mall, i grandi centri commerciali si sono localizzati in aree sempre più periferiche e hanno aspirato dalla città grandissima parte della vendita dei beni d’uso quotidiano: hanno provocato la morte del piccolo commercio (del fornaio e del droghiere, del salumaio e del fruttivendolo e, analogamente, dello stagnino e dell’elettricista, del ciabattino e del falegname). A questo processo un altro si è accompagnato. La spinta al consumo opulento ha fatto sì che i locali del commercio tradizionale si riempissero di una serie di altri commerci: non più legati alle necessità quotidiane degli abitanti, ma provocati da una strategia tendente a moltiplicare all’infinito lo smercio di quei prodotti, uguali in tutto il mondo, che caratterizzano il consumo opulento.
A questo complesso di problemi si riferivano recentemente sia Paolo Berdini sul manifesto che Renato Nicolini su Repubblica: entrambi il 23 gennaio, entrambi ripresi su eddyburg. Berdini osservava come a Roma i negozi di vicinato stiano “chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano” e ricorda che “stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano” che genera, o favorisce, violenza e sopraffazione. E Nicolini, dopo aver constatato che “lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto”, domanda: “perché non reintrodurre almeno - partendo da zone come Campo de’ Fiori - il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti”.
Il fatto è che l’urbanistica (quella largamente praticata dalla maggioranza dei professionisti e insegnata nella maggioranza delle università) ha tralasciato di cercare e praticare le connessioni tra l’obiettivo sociale e le possibilità della pianificazione. E al tempo stesso ha trascurato di criticare il modo nuovo in cui il pensiero dominante affrontava quelle connessioni. Abbandonare il commercio (e l’insieme del futuro della città) alla forza apparentemente cieca e neutrale del “Mercato” provoca proprio ciò che è ogni giorno sotto i nostri occhi: l’abbandono delle piazze delle città (là dove esistono) da parte delle attività vitali e la concentrazione del commercio in quegli scatoloni, o quelle finte città (quelle scimmie di città) che il “Mercato”, dominato dalle multinazionali, erige, celebrando la riduzione del cittadino a consumatore e l’apoteosi della società opulenta (in quell’universo sempre più ristretto che si chiama Nord del mondo).
Ha ragione Nicolini: bisogna afferrare di nuovo gli strumenti dell’urbanistica. Il primo si chiama: governare le trasformazioni – ogni trasformazione – in vista di obiettivi sociali espliciti, nella consapevolezze che le trasformazioni della città agiscono su quelli della società. Il controllo delle utilizzazioni degli spazi è uno strumento essenziale per raggiungere un obiettivo sociale; e chi, avendo il potere e il sapere per adoperarlo dichiara l’impossibilità di farlo, di fatto lascia che siano i padroni del mercato, utilizzando gli ascari di una politica ridotta ad ancella dell’economia data, a decidere come le città e i territori si trasformano.
in Stefano Rodotà, "Il terribile diritto", il Mulino, Bologna 1981; esergo
Se pensiamo all’agro campano lo vediamo come un territorio sconvolto prima dall’esplosione edilizia, e poi occupato, negli spazi residui, dalle spazzature del Nord e del Sud. È davvero difficile per noi immaginare che cos’era prima della devastazione. Ci aiuta un innamorato di questa terra (e della terra in generale) l’autore di questo libretto. Antonio di Gennaro riesce a restituirci un’immagine vivissima della “terra lasciata”. Ci riesce allineando brani dei racconti di persone, più fortunate di noi, che ebbero la fortuna di scoprire le mille inaudite ricchezze di questi fertili suoli. Collegando con il suo racconto brani di Goethe, Galanti, Sestini, Dickens l’autore dipinge l’affascinante ritratto del frutto del poderoso lavoro plurimillenario che la natura e l’uomo hanno compiuto collaborando, e ci rende consapevoli del livella altissimo di produttività e di bellezza che era stato raggiunto, del “capolavoro” (annotate questa parola) che era stato raggiunto. Un’opera la cui qualità non risiede solo nella struttura e nella forma della campagna e nei suoi incredibilmente ricchi prodotti, ma anche nei rapporti virtuosi che la legano alla città, in uno scambio che rende migliori entrambi.
Bellezza perduta, utilità perduta, ricchezza perduta. Perché, come? Manlio Rossi Doria e Pasquale Coppola, Antonio Cederna e Vezio De Lucia aiutano di Gennaro a raccontarci i modi e le ragioni per cui il “capolavoro” si è trasformato in un immondo ammasso, perché e come il sistema di aree agricole pregiate intorno alla città, è stato deliberatamente trasformato in “spazi vuoti, invisibili e inaccessibili ai più perché occultate da una cortina di degrado” ed è diventato “la grande discarica utilizzata dai Casalesi per smaltire i rifiuti industriali provenienti dal nord”.
Gli interessi, le forze e le debolezze, gli strumenti adoperati per distruggere sono raccontati con efficacia in un racconto che si legge d’un fiato, ma che fa riflettere a lungo. E dopo aver descritto “il progetto pluridecennale di distruzione di Campania felix”, e il significato profondo di ciò che ancora rimane,di Gennaro formula la sua proposta. Non ve la racconto; vi do la parola chiave: “Partenone”. Un progetto impegnativo, ma possibile. Richiede una virtù che è indispensabile perché la civiltà sopravviva: la capacità di guardare, a un tempo, alla nostra storia e al nostro futuro: memoria e lungimiranza.
Dai giornali del 13 gennaio 2009