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Care amiche e cari amici, l’atteggiamento sostanzialmente favorevole dell’INU nei confronti dell’impostazione di fondo della legge per il governo del territorio, approdata il 7 febbraio all’aula di Montecitorio, è stato determinante nell’ostacolare la minoranza nella sua opposizione. Così mi è stato testimoniato da autorevoli parlamentari dei DS, ed era del resto evidente dalla lettura degli atti sia di fonte parlamentare che di fonte INU.

L’Istituto nazionale di urbanistica, di cui mi onoravo di essere stato presidente per dieci anni, si è macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto grave. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa affermazione di un’urbanistica moderna ed europea, quindi basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla prevalenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul riconoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini della Repubblica. Principi che l’INU ha per decenni promosso, proponendo strumenti adeguati a renderli concreti e ottenendo consistenti successi.

Mi rendo conto che l’appoggio dell’INU alla peggiore delle leggi urbanistiche configurabili è solo l’elemento di punta di un silenzio più generale sulle ragioni dell’urbanistica. Un silenzio che è assordante nell’ambito accademico (dove sembra che i principi fondamentali del governo pubblico delle trasformazioni del territorio siano uno dei tanti optional praticabili, e che l’attenzione alle tecniche perequative, valutative, negoziali abbia cancellato la consapevolezza degli aspetti strutturali dell’urbanizzazione). Un silenzio che è forse meno ingiustificabile, ma ancora più preoccupante, nell’ambito politico, dove il nesso tra pianificazione urbanistica, pratica della democrazia e condizioni di vita delle cittadine e dei cittadini è stato del tutto smarrito (talchè si giudica l’urbanistica questione “settoriale”, riservata alle competenze degli urbanisti di professione). E un silenzio che si estende poi all’ambito culturale degli altri saperi, mai come oggi sordi alle ragioni del governo pubblico delle trasformazioni territoriali.

Non so quale eco quanto vi scrivo troverà nelle vostre intelligenze. E non so se condividete o meno la mia preoccupazione per la legge in via di approvazione. Se non lo conoscete, vi invito a leggere l’appello “Fermate le legge Lupi”, che mi sono impegnato a diffondere. Se siete d’accordo con le valutazioni che esprime, dopo aver letto il testo della legge potrete mandare la vostra adesione all’appello, a me o (meglio ancora) nel modulo automatico del sito dell’associazione Italia Nostra.

I documenti sulla legge Lupi

L’età del neoliberalismo è terminata

Una nuova epoca si è conclusa. Secondo i lettori più attenti del mondo in cui viviamo l’epoca del neoliberalismo è terminata. La crisi del sistema finanziario globale ha segnato la conclusione di una fase particolarmente virulenta del proteiforme capitalismo.

A partire dagli USA, ancora leader del mondo, “la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che ‘il re è nudo!’, nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua”[1]. Non è solo una crisi finanziaria, è il crollo di un modello economico-sociale che ha avvolto la stragrande maggioranza della popolazione della “civiltà atlantica” nella “insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa”. Un modello culturale, prima che economico (e perciò preferisco la dizione di “neoliberale” anziché “neoliberista”).

Da questo modello gli urbanisti avrebbero potuto e dovuto prendere le distanze, a tempo debito, più che i portatori di altri saperi e mestieri. Quel modello ha infatti uno dei suoi feticci nel mercato e nelle sue magiche virtù auto-regolative. Gli urbanisti attenti alle radici e alle ragioni del loro mestiere avrebbero potuto e dovuto ricordare che esso nacque proprio per risolvere alcuni dei problemi che il mercato non era strutturalmente in grado di conoscere. Il fatto è che agli urbanisti (almeno nel nostro paese) è del tutto mancata la capacità di continuare a vedere la complessità delle condizioni che determinano la vita urbana, e quindi il terreno stesso del loro lavoro. A loro scusante occorre riconoscere che anche gli altri saperi hanno subito un consistente appiattimento. Ci sono ancora economisti che sappiano analizzare l’economia attuale senza ritenerla l’unica economia possibile? E giuristi che non si adagino nell’ermeneutica del diritto dato ridotto alla sua formale astrattezza? Eppure, anche vedere la città solo come un insieme di forme avrebbe dovuto ricordare agli urbanisti che non è il mero assemblaggio di oggetti che ha mai costituito gli spazi urbani, e che non esiste forma urbana che non sia anche forma di società.

Tant’è. Ancora oggi c’è chi si gingilla con le pratiche volte a “migliorare” la città, a renderla più “vivibile” (per chi?), più “sostenibile” (o “sopportabile”, e per chi e cosa?), affidandosi alle regole del mercato e alla loro saggia utilizzazione. Non è altro da questo, ad esempio, la “perequazione urbanistica”, grazie alla quale incrementando le rendite immobiliari (e quindi accrescendo le dimensioni dell’urbanizzazione) si ottengono i necessari vantaggi sociali (le elemosine di spazi illusoriamente utilizzabili per la collettività).

Che cos’è il mercato

Ma intendiamoci su che cosa sia il mercato. Se per mercato intendiamo il luogo fisico nel quale si scambiano i prodotti del lavoro dell’uomo, allora bisogna riconoscere che esso è una delle cause fondamentali della nascita della città e uno dei suoi luoghi eccellenti. Ed allora forse proprio riferendoci a questo mercato, al mercato come luogo dello scambio e dell’interazione tra i prodotti dell’uomo, e riflettendo su che coisa siano oggi i prodotti dell’attività umana che è opportuno e utile scambiare, è proprio a partire da qui che potremo sforzarci di riconoscere le regole necessarie per agevolare questo mercato, per configurare in funzione di esso la città di domani (a partire da quella di oggi).

La produzione dell’uomo ha sempre dato luogo a beni che appartenevano a diverse categorie. Beni finalizzati alla sussistenza, alle esigenze materiali della vita, e in gran parte costituiti da elementi appartenenti al mondo materiale. E beni finalizzati ad altre esigenze della vita: la conoscenza, i sentimenti, il godimento estetico. L’economia (capitalistica) si è formata in relazione alla prima categoria di beni. Ha inventato meccanismi tecnici, sociali, culturali (la loro importanza è in ordine inverso rispetto all’elencazione) capaci di aumentarne al massimo la produzione, fino a farla trascendere dal regno della necessità a quello dell’abbondanza, della ridondanza, dell’opulenza. Per farlo, ha dovuto ridurre in merce ogni realtà coinvolta nel processo produttivo. Ha dovuto alienare il lavoro: finalizzarlo ad altro da sé, trasformarlo, da strumento per la crescita dell’uomo a strumento per la crescita della quantità di merci.

Possiamo dire che la città ha preso forma, si è affermata in quanto tale nel percorso della civiltà assumendo come propri principi ordinatori i luoghi ordinati allo scambio dei beni: sia nella loro forma di merci (i prodotti orientati alla sussistenza) sia nella loro forma di beni (quelli della conoscenza, dei sentimenti, del godimento estetico).

La divinità imperscrutabile del neoliberalismo

Dobbiamo però, prima ancora di tentare qualsiasi operazione tendente a ricostituire a rivivere alcuni elementi di quel mercato (ossia di promuovere spazi dedicato all’ scambio di beni), sbarazzarci definitivamente d’ogni sudditanza all’altro mercato: quello delle merci del lavoro capitalistico (del lavoro alienato). Perché se invece per mercato intendiamo quella divinità imperscrutabile del neoliberalismo cui tutto è sottomesso, allora esso della città è la morte.

Riflettiamo sulle parole d’un economista vivo, cioè capace di ragionare in termini di utilità sociale (e non aziendale) dell’economia possibile; un economista, tra l’altro, che ha scritto parole lucide sul mestiere dell’urbanista e della sua pianificazione: Giorgio Ruffolo.

Secondo Ruffolo oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”[2]. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.

Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberalismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo. Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberalismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla[3].

È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.

Che succede in Italia

Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza, Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra, Massimo Morisi, ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.

Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di “perdita di competitività” di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.

Le regole: quali? Come?

Liberarsi dell’illusione che il mercato possa riuscire a imprimere alla realtà della città e del territorio un ordine diverso da quello della trasformazione del cittadino in cliente, dell’uomo in consumatore di merci sempre più inutili, della persona umana a strumento cieco della produzione di merci opulente è il primo passo. E un passo necessario anche perché questo modo di orientare il processo economico restringe sempre di più l’area degli obesi e allarga sempre di più quella dei miserabili: mentre la bilancia della ricchezza pende sempre di più dalla parte del Nord mondo quella della moltitudine pende sempre più sul versante dei Sud del mondo.

Ma un secondo passo è necessario: quali regole sostituire al mercato? O più precisamente, come costruire un sistema di convenienze e penalità, di sollecitazioni e di divieti, di incentivi e di disincentivi che consentano di migliorare l’ambiente della vita dell’uomo? Anche qui, la premessa a ogni decisione tecnica è nell’assumere consapevolezza di alcuni principi, sulla cui base misurare l’adeguatezza o meno delle tecniche, dei metodi, degli strumenti, degli obiettivi specifici scelti. Naturalmente siamo in un campo in cui le opinioni possono essere molto differenti: tuttavia è necessario cimentarvisi, salvo poi a calibrare i principi in relazione a quelli proposti da altri[4].

Alcuni princìpi

In un mondo in cui concorrenza e competizione sono il modo in cui gli attori agiscono per trasformare la realtà, e in cui la vittoria la guadagna non chi ha più ragione ma chi ha più forza, occorre proporsi invece di difendere chi, oltre ad avere ragione, ha meno forza degli altri soggetti. Allora scendono subito in campo due realtà che posseggono entrambe queste caratteristiche: il territorio e i posteri.

La terra. Del territorio vorrei mettere in evidenza un primo elemento: il valore della terra non urbanizzata. Credo che la consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale debba costituire un principio essenziale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa fondamentale, oggi e domani. L’azione che compiono le forme elementari della fauna e della flora è decisiva. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale: a partire dall’oscuro lavorìo che fanno gli organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono porosa, permeabile, suscettibile di ospitare i germi della vita vegetale.

Certo, non è un principio che non abbia margini di negoziabilità, di calibratura rispetto ad altri principi anch’essi ragionevoli. Ci sono esigenze della società che possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quelle esigenze intanto hanno la stessa durata e necessità di quella di conservare la terra, e poi che non possono essere soddisfatte altrimenti.

Non è solo le terra come mera naturalità il bene che deve essere prioritariamente protetto: è anche il territorio in quanto deposito di ricchezze che il plurimillenario lavoro dell’uomo ha prodotto e che è un patrimonio per l’intera umanità. E non credo di dover argomentare sulla rivista di questo Dipartimento universitario questioni e definizioni per le quali proprio da qui sono nate riflessioni e azioni che sono entrate nel bagaglio culturale di tutti. Il territorio come natura, il patrimonio come patrimonio: questo è il primo soggetto che va difeso. C’è un altro soggetto, altrettanto rilevante, tanto ce l’elencazione avrebbe potuto cominciare da lui: è l’umanità, e in primo luogo la sua componente più debole perché solo virtuale: i posteri.

Non credo di dovermi dilungare sull’argomentazione della necessità di questo soggetto, e del principio della sua difesa. Del resto, la parte sana del dibattito sulla sostenibilità costituisce proprio la rivendicazione della necessità di salvaguardare patrimoni e risorse per le “generazioni future”; almeno fino a quando il termine “sostenibilità” non è stato assimilato a “sopportabilità”, da assoluto è diventato relativo e ha cominciato a essere non contrapposto, ma mediato con termini alternativi e sopraffattori, come sviluppo economico (di questa economia)

L’uomo. Nel campo dell’uomo, oltre al principio della tutela degli interessi dei posteri che n’è un altro che merita grande attenzione, poiché è anch’esso in gran parte sopraffatto: l’equità tra gli uomini. Un’analisi critica dell’impiego concreto di termini correnti nelle pratiche urbanistiche rivela che a questo proposito di commettono grandi e nefaste mistificazioni. Di continuo vengono proposti obiettivi apparentemente condivisibili da tutti, quali vivibilità, riqualificazione, rigenerazione. Come si fa a non ritenere unanimemente condivisibile l’obiettivo di rendere più vivibile una quartiere o una città, di aggiungergli qualità, di rigenerarne il funzionamento e l’aspetto? Eppure basterebbe porsi la domanda chiave per chi persegue l’obiettivo dell’equità: per chi? Per quali soggetti sono concretamente predisposte, finanziate e attuate quelle operazioni mirate a raggiungere vivibilità e sostenibilità attraverso la riqualificazione e rigenerazione della città? E allora si scoprirebbe che quei termini così gradevoli e accattivanti, in realtà servono a costruire quartieri e città dai quali i deboli, i privi di redditi sufficienti, e via via fasce più estese degli abitanti, vengono esclusi, allontanati, sfrattati.

La società. La storia ha cambiato il rapporto tra la terra e l’uomo. Oggi si sa che il rapporto tra uomo e terra (e territorio) non più essere gestito dal singolo abitante della terra: il partner di ciò che c’è nel territorio è la società. È alla società che spetta quel complesso di attività che si chiama governo del territorio. Attraverso quali strumenti? Attraverso quali istituzioni?

Storia e ragione hanno concorso a dimostrare che, essendo il territorio un sistema, il governo del territorio deve essere anch’esso sistemico. Il territorio pretende metodi di governo per i quali il tutto sia più importante delle sue parti. Ecco perché lo strumento principe è la pianificazione: la pianificazione vera, quella che interpreta, valuta, decide tenendo conto dell’insieme dei problemi e degli interessi; non quella che insegue gli eeventi e decide pezzo oper pezzo. E se gli interessi sono in conflitto tra loro? Ciò è inevitabile in una società divisa, quale è quella che storicamente conosciamo. Ecco allora la grande parola: democrazia. Parola ambigua, utilizzata per coprire modi molto diversi di assicurare il rapporto tra amministratori e amministrati. Forse una parola che esprime una tensione, rispetto alla quale le istituzioni sono sempre inadeguate a esprimere compiutamente.

Pianificazione democratica, insieme a consapevolezza del valore della terra e ricerca dell’equitàsociale, sono quindi tre principi fondamentali da assumere.

Elementi di metodo

Questi non sono ovviamente tutti i principi basilari sulla cui base tentar di individuare quali regole possano guidare, al posto della cecità interessata del mercato, ma sono sufficienti a delineare alcuni primi elementi. Li elenco rapidamente.

La pianificazione del territorio consiste, in ultima analisi, nel costruire un bilancio tra la domanda di trasformazione di spazio e l’offerta di spazio trasformabile. Credo che si debba continuamente tener presente questa caratteristica della pianificazione. Analizziamone brevemente i termini.

Domanda. Le esigenze della società provocano la necessità di trasformazioni del territorio: per realizzare abitazioni, fabbriche, attrezzature, infrastrutture e cos+ via ho bisogno di intervenire su singole componenti dello spazio e di operare in esse trasformazioni orientate alle nuove utilizzazioni. La prima domanda è da porsi è la seguente: quali trasformazioni sono socialmente necessarie, cioè sono motivate dall’esigenza di migliorare la condizione della società sul territorio? Una cosa è, per esmpio, migliorare l’accessibilità all’istruzione o dotare di unì’abitazione conveniente chi ne ha bisogno, altra cosa è l’esigenza di migliorare il valore d’una determinata proprietà o di un determinato comparto della produzione di merci. La valutazione della domanda di trasformazione è parte del primo passo di una pianificazione corretta: ad esso alludeva la pratica, quasi totalmente abbandonata, di basare le scelte della pianificazione su un rigoroso e trasparente calcolo dei fabbisogni..

Offerta. Il territorio, nel suo insieme (sistema) e nelle parti che lo compongono, presenta diverse esigenze di conservazione. Anche la valutazione delle diverse esigenze di conservazione (e, corrispettivamente, delle diverse possibilità di trasformazione) costituisce l’altra parte del primo passo d’una pianificazione corretta. È perciò prioritaria una lettura attenta, rigorosa, completa, libera da qualsiasi preconcetto che non sia quelli di individuare le caratteristiche proprie del territorio, che ne determinano la qualità e il valore sociale per l’umanità nel suo complesso. Una lettura prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione o valutazione riferita specificamente al territorio. E altrettanto prioritarie devono essere, a mio parere, le concrete decisioni che ne derivano.

Cominciammo a ragionare su questa tesi quando, con alcuni colleghi, lavorammo da una parte al nuovo piano della città storica di Venezia e, dall’altra parte, all’attuazione della “legge Galasso”, in particolare per il piano paesaggistico dell’Emilia-Romagna. Fu allora, tra il 1980 e il 1985, che cominciammo a valutare e sperimentare la possibilità di ogni atto di pianificazione. Una prima componente, che definivamo “strutturale”, abbastanza rigida e ferma nelle sue determinazioni, costruita con un iter “lento” che coinvolgesse la responsabilità di diversi attori espressivi degli interessi generali, doveva avere tra i suoi contenuti essenziali proprio quello di definire le regole che l’esigenza di tutelare l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio pongono a qualunque trasformazione. Una seconda componente, che definivamo “programmatica”, avrebbe dovuto decidere - nell’ambito e nel rispetto delle regole stabilite dalla componente strutturale – quali delle trasformazioni ammesse fosse da praticare nel breve periodo in relazione alle esigenze sociali, alle opportunità economiche, alle scelte politiche dell’amministrazione.

Il racconto del modo in cui eravamo approdati a questa proposta, e qualche cenno sul modo limitato, deformato, pasticciato fino alla perversione con cui quel metodo è stato applicato è stato più ampiamente descritto in un ampio contributo pubblicato in una pubblicazione del Centro Osvaldo Piacentini[5].

Due condizioni

Riferirsi a principi e a metodi per individuare le regole necessarie a fare ciò che il mercato non sa e non può fare è certamente necessario. Ma è bene aver presenti anche alcune condizioni che sarebbero necessarie perché le regole abbiano efficacia, e che invece nella nostra società sono presenti solo limitatamente. Vi accennerò soltanto, perché trattarle con una certa sufficienza richiederebbe spazi e tempi di maggiore ampiezza.

La prima condizione cui mi riferisco è la piena disponibilità, da parte della collettività, del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà.

Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deveo stabilire che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, non appartiene al proprietario ma alla collettività.

Questa premessa era molto viva nella consapevolezza della cultutra e della politica dei veri liberali e della sinistra, qualche decennio fa: ora sembra scomparsa: la rendita, anzichè una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.

La seconda condizione, per fortuna meglio raggiunta in molte situazioni, è la presenza, nelle amministrazioni pubbliche, di uffici affidati a persone capaci, motivate, autorevoli, capaci di esprimere al meglio una seria e rigorosa cultura della pianificazione pubblica. Chi mi aiutato a rafforzare questa convinzione è stato un mio maestro amatissimo, ben noto nell’ambito(nel contesto) dal quale questa rivista nasce: Edoardo Detti, Daddo. Uno dei miei vanti è che non ci sia, in nessuna città o provincia d’Italia, un piano che venga definito “piano Salzano”. Fin dalle prime esperienze professionali ho sempre preteso, per collaborare con un’amministrazione, che vi fosse, o che fosse rapidamente costituito, un ufficio adibito alla pianificazione.

Perché questa non si esaurisce nel disegno, e neppure nell’adozione e nell’approvazione di un documento tecnico, di un “piano”. Essa è un’attività continua e sistematica, è il metodo permanente di lavoro dell’amministrazione pubblica. Non può essere tale se non è basata su un ufficio che sia, appunto, capace, motivato, autorevole, che sappia collaborare con intelligenza e rigore culturale e professionale con i politici. Nella speranza che questi comprendano il ruolo della pianificazione, l’ampiezza del suo respiro, la responsabilità che comporta. Sarebbe molto utile, quindi, che gli urbanisti pubblici abbiano anche, tra le loro capacità, quella di essere buoni maestri per i loro amministratori.

[1] Ugo Mattei, “Beni a perdere”, il manifesto, 2 dcembre 2008

[2] Giorgio Ruffolo, “La società non può essere sacrificata al dio mercato”, la Repubblica, 14 agosto 2001

[3]David Harvey, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, 2007.

[4] Per la distinzione tra “valoori” e “principi” si veda Gustavo Zagrebelsky, "Valori e conflitti della politica", la Repubblica, 22 febbraio 2008

[5] E. Salzano, “L’articolazione dei piani urbanistici in due componenti: come la volevamo, come è diventata, come sarebbe utile”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini, n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2.

“Mai, dai tempi di Mussolini, un governo italiano ha interferito in modo così sfacciato e preoccupante sui media. I giornalisti, e glli altri italiani, hanno tutte le ragioni a protestare” (1° ottobre 2009)

La Stampa, 6 settembre 2009

Eddyburg è stato sempre molto attento alle parole. Nel sito c’è una cartella dedicata a questo tema, e una che contiene un Glossario. Un'altra cartella, curata da Fabrizio Bottini, contiene un'ampia anntologiache raccoglie Testi per un glossario. Una lezione intitolata Glossario è stata svolta nellaseconda e nella terza edizione della Scuola di eddyburg, vi troverete pianificazione, governance, paesaggio, territorio,sviluppo, beni e merci, e molte altre ancora. Un piccolo glossario è in appendice del libro Ma dove vivi?.
In passato ci si è preoccupati soprattutto di fornire alcune definizioni da assumere come comuni per comprendersi meglio, offrendo magari punti di vista diversi ma non contraddittori. Da quest’anno ci si propone di fare un passo avanti: di ragionare sulle parole con maggiore attenzione al loro significato letterale, al contesto in cui sono nate e, soprattutto, ai diversi contesti in relazione alle quali si sono trasformate, il loro significato ha slittato e ne è cambiato il senso.

Il fatto è che le parole, il linguaggio, i discorsi hanno un’importanza enorme: non solo per comunicare per intenderci tra noi, ma anche per comprendere la realtà, i mutamenti e le trasformazioni del passato, del presente, e quelle proposte per il futuro. Non solo, il linguaggio, se lo intendiamo come pratica sociale, può contribuire a cambiare la realtà. La prima parte del testo ( Linguaggio, discorso, potere) che presentiamo a questa IV edizione della Scuola vuole soffermarsi sull’importanza di parole, sui loro significati, sul fatto che questi cambiano, al cambiare della società e il potere che queste hanno.
Vorrei sottolineare sei aspetti:
1. Il linguaggio è un fenomeno sociale, cioè esiste una relazione di influenza reciproca tra linguaggio e società. Quando parliamo, scriviamo, ascoltiamo, leggiamo lo facciamo in un modo che dipende dalla società, dall’insieme delle relazioni e delle contingenze socio-economiche, politiche e culturali in cui la nostra società si trova. Nello stesso tempo il nostro modo di parlare, scrivere ecc. ha degli effetti, delle ricadute sulla società.
2. Il discorso comprende sia il testo, scritto, parlato visivo, che processi che mi consentono di interpretarlo e poi produrlo. Per potere affrontare questi processi noi attingiamo ad una serie di risorse nella nostra mente, sia quelle linguistiche, la grammatica, la sintassi ma anche quelle legate ai valori alle credenze. Queste risorse a cui attingiamo e che si formano via via nel corso della vita, attraverso le relazioni con le altre persone, il lavoro, la scuola ecc. dipendono da una serie di convenzioni che la società attraverso le istituzioni, i comportamenti, le pratiche stabilisce.
3. Questo insieme di convenzioni è determinato dalle relazioni di potere. Sia le convenzioni più banali, come le regole comportamentali implicite nel modo di salutarsi, di mangiare ecc, sino a quelle più complesse che coinvolgono il modo di comprendere il mondo che ci circonda, dare un senso del perché agire in un certo modo piuttosto che un altro in questioni politiche, economiche ecc,. Queste relazioni di potere sono fortemente influenzate dal modo in cui una società organizza la sua produzione economica. Nella nostra socità capitalistica le relazioni di potere sono influenzate dal rapporto tra chi detiene il capitale e chi detiene la forza lavoro.
4. I discorsi, scritti e parlati, sono un ottimo veicolo per il potere perché attraverso essi si può affermare una certa idea del mondo, e attraverso questa idea si possono quindi affermare certe pratiche, certi modi di fare piuttosto che altri. Il potere che si esercita attraverso il discorso, attraverso la parola non è un potere coercitivo, ma un potere che si acquisisce attraverso il consenso, sia attraverso la comunicazione con la quale si convince e attraverso l’inculcazione, cioè una sorta di persuasione che avviene in maniera recondita, non consapevole.
5. Occorre comprendere e agire nel mondo non attraverso ilsenso comune, cioè attraverso la passiva e acritica acquisizione di supposizioni, credenze, aspettative che altri elaborano, ma piuttosto attraverso il buon senso, connettendo la vita concreta ad una profonda e critica comprensione di ciò che avviene intorno.
6.Per poterlo fare occorre innanzitutto una consapevolezza critica del linguaggio per comprendere quello che ci viene detto, e quindi essere in grado di reagire ai discorsi attivamente e non passivamente. Senza questa consapevolezza non può esserci un’effettiva cittadinanza democratica, ed non è possibile promuovere un qualsiasi progetto di cambiamento sociale alternativo.

L’argomento di questa edizione della scuola rimanda a parole relativamente nuove (vivibilità, rigenerazione, riqualificazione), ma la loro comprensione deve muovere da parole più antiche, che nel tempo hanno profondamente modificato il loro significato: povertà, disagio, degrado.

Sono parole tra loro collegate, che a volte vengono confuse o utilizzate indifferentemente l’una per l’altra. Tutte indicano che c’è un problema, se vogliamo di natura e con caratteristiche diverse: c’è un problema, e quindi ci si deve adoperare per risolverlo, superarlo, curarlo e muoversi verso una situazione che sia invece di ricchezza, benessere, agio, ecc. Sono parole che implicano un giudizio negativo verso quella condizione individuata. Vorrei sottolineare solo alcuni punti:
1. La parola povertà ha subito molte trasformazioni, da una serie ampia di significati profondi e diversi e non tutti di segno negativo, si è arrivati praticamente ad un unico significato. Oggi la povertà significa principalmente la mancanza di mezzi per il raggiungimento di quello standard di vita che l’ideologia dominante e il complesso delle pratiche sociali indica come l’obiettivo universalmente prescritto. Questo standard viene identificato con un livello di consumo di beni materiali, che tende ad essere sempre più opulento.
2. Disagio è il secondo lemma di questo gruppo. È una parola che denota una situazione di difficoltà, di sofferenza, di malessere generalizzato in cui l’individuo si trova. È una condizione soggettiva, che riguarda il sentire del singolo individuo, ma è strettamente legata alle condizioni economiche, sociali, culturali della società in cui l’individuo si trova, quindi assume in questo senso un carattere sociale.
3. I termini povertà e disagio sociale, spesso usate come sinonimi, indicano realtà diverse sebbene vi siano connessioni e sovrapposizioni. Vi sono persone povere che non manifestano stati di disagio, e contemporaneamente vi sono persone in stato di disagio che non sono povere. Nel testo si descrive come questi termini si siano intrecciati e come la parola disagio abbia in anni recenti soppiantato la parola povertà, nel senso che i problemi della nostra società vengono sempre più ascritti alla sfera del disagio e solo in questi ultimissimi anni, nelle società cosiddette avanzate, riemerge questo problema della povertà. Ma va sottolineato che la povertà, indipendentemente dal fatto che se ne parli o meno, esiste ancora, non è stata debellata neanche dalle nostre società opulente.
4. Sono rilevanti ai nostri fini, i riferimento alle connessioni di queste parole con la città. Disagio urbano, invivibilità, insicurezza, vulnerabilità, “malessere del benessere” sono altre parole ed espressioni esplorate nel testo per individuare le condizioni delle nostre città.

Benessere, vivibilità, urbanitè. Se il primo gruppo di parole indica il problema, la situazione da combattere e sanare, il secondo gruppo esprime in qualche modo l’obiettivo da raggiungere. Si tratta delle parole benessere, vivibilità, e una nuova parola cui nel testo accenniamo soltanto: urbanitè.
1.Il concetto di benessere ha una gamma di significati molto ampia. Nel testo si riprendono le accezioni più significative: a)benessere come piacere e soddisfazione di desideri. Questa è l’espressione usata, direi piuttosto retoricamente, dagli economisti. È, per intenderci il benessere espresso dal livello di reddito o di consumo e a livello nazionale dal prodotto nazionale lordo, o dal pil; b) poi abbiamo il benessere come opulenza, cioè dove la ricchezza materiale è l’elemento chiave per il raggiungimento della soddisfazione; c)il benessere come possesso di opportunità, e infine d) il benessere come qualità della vita, che apre la strada verso il concetto di qualità urbana.
2. Sulla qualità della vita si intrecciano due diversi filoni di ricerca. Uno di carattere più quantitativo, quello degli indicatori sociali, finalizzato a individuare obiettivi e parametri capaci di indicare scalarità e graduatorie. E un altro che si muove su un piano politico-filosofico a partire da una critica della società industriale. Entrambi questi filoni incontrano la tematica dei movimenti ecologici e ambientalistici e il concetto di sviluppo sostenibile. La sintesi e la mediazione tra la linea degli indicatori sociali, quella della qualità della vita, nonché i ragionamenti sullo sviluppo sostenibile conducono all’elaborazione di un nuovo obiettivo: la qualità urbana. Ne parleremo molto in questi giorni.
3. Attraverso un percorso assai diverso si afferma il terminevivibilità. Questo termine ha un’ interessante storia. Intanto, in sé il termine viene dalla biologia e significa sostanzialmente capacità di sopravvivenza. E negli Stati Uniti viene ripreso negli studi urbani, per paragonare la città al metabolismo e studiarla in termini di la natura metabolica della città, in termini di input (le risorse materiali, energie, il suolo ecc.) e output (gli scarti da una parte cioè i vari tipi di rifiuti e la vivibilità, in termini di prestazioni utili al nostro vivere dall’altra). Il termine,livable, livability, viene poi ripreso a partire dagli anni Ottanta, sempre negli Stati Uniti, per individuare una serie di miglioramenti da effettuare per rendere le condizioni delle metropoli più piacevoli. Adesso, almeno in inglese, è fortemente associato al lavoro di un gruppo di americani che annualmente fanno delle convegni su questi temi e che come modello di città vivibile assumono le città europee, con le loro piazze. Ma su questo termine sarebbe interessante discutere, so che Paola Somma ha cose da dire a proposito e credo che saranno molto utili sia a voi che a me, che dopo questa scuola avrò da rivedere tutte queste parole, anche alla luce di queste 4 giornate.

Anche i termini concorrenza e competizione all’inizio sembrano semplici e scontati. Poi, quando si cerca di approfondire, ci si rende conto di quanto invece siano complessi. Non voglio sintetizzare il testo scritto. Voglio limitarmi a sottolineare quattro aspetti:
1.Etimologicamente concorrenza ha due significati essenziali. Quello più antico esprime il correre insieme, nel senso di convergere, quindi cooperare. Il secondo esprime il gareggiare, il lottare l’uno contro l’altro per prevalere. Oggi è di gran lungo quest’ultimo significato che è prevalso.
2. Anche nella accezione più usuale, di concorrenza economica, il termine ha subito diversi slittamenti di significato in relazione alle modifiche del sistema economico – il capitalismo – al quale si riferiva. Li troverete nel documento.
3. Solo molto tardivamente il termine competizione è stato attribuito alla città. Nel documento troverete la descrizione particolarmente ampia di questa fase, in relazione ad una interessante descrizione delle trasformazioni urbane in relazione alle diverse fasi del capitalismo che ho ripreso da David Harvey.
4. La domanda finale è: la competizione è effettivamente utile alla città, oppure provoca più danni che vantaggi. Non vi do la risposta perché altrimenti non leggete il documento!

Prima chiudere vorrei accennare brevemente aRigenerazione e riqualificazione. Ne riparleremo venerdì e troverete questo gruppo di parole su eddyburg tra qualche settimana.
1.Il termine rigenerazione urbana viene dalla pianificazione britannica della metà degli anni ’70 e si riferisce a quell’insieme di politiche e strumenti che permettono il riutilizzo di aree ed edifici dismessi, obsoleti, sottoutilizzati, creando nel contempo nuovi posti di, un miglioramento dell’ambiente urbano e dell’apparato sociale. Si cerca così di dare una risoluzione ad ampio spettro dei problemi funzionali della città, cercando di soddisfare contemporaneamente questioni sociali ed economiche e tentando di generare delle ricadute sulla qualità urbana complessiva.
2. In Italia l’uso di questa parola sembrerebbe improprio perché la pianificazione urbana non ha cercato di affrontare necessariamente la componente economica (e spesso, almeno in un primo tempo, neanche quella sociale). Ci sono diversi motivi, innanzitutto la tradizione di pianificazione italiana, in cui vi è una netta separazione tra programmazione e politica economica da una parte, e politiche urbane e territoriali dall’altro. E poi il differente sviluppo economico dei due paesi.
3. In Italia si parla soprattutto di riqualificazione urbana, riferendosi soprattutto alla componente fisica, ambientale, anche se l’espressione “rigenerazione” è diffusa, ma talvolta appunto utilizzata in modo improprio, cioè non riferita al suo significato inglese originario.
4. Ma diciamo che anche le differenze concettuali si sono andate via via smorzando. Tant’è che all’interno della più recente strumentazione complessa è inclusa soprattutto la componente sociale, e in taluni casi anche quella economica.
File allegati

1. Linguaggio, discorso, potere
2. Povertà, disagio, degrado
3. Benessere, vivibilità, urbanité
4. Concorrenza, competizione

La tesi che è stata ribadita è sintetizzabile in quattro punti: 1) la proposta di promuovere l’ampliamento delle costruzioni esistenti non ha nulla a che fare con il problema della casa, che esiste ma ha bisogno di provvedimenti di segno radicalmente diverso; 2) quel “piano casa” è un grimaldello per scardinare il sistema di regole sul territorio (la pianificazione urbanistica) il cui fine è dirigere le trasformazioni del territorio verso finalità d’interesse generale, sostituendole con il rafforzamento della speculazione immobiliare; 3) in particolare, l’effetto principale del “piano casa” è proseguire la distruzione del paesaggio italiano e contrastare l’attuazione di quel “codice dei beni culturali e del paesaggio”, che costituisce l’estremo tentativo di tutelare quel bene, d’interesse della Repubblica e perciò tutelato dalla Costituzione, che è il nostro paesaggio; 4) le regioni, e in particolare quelle amministrate dal centro sinistra, hanno avuto il grave torto di avallare la logica di quel “piano casa”, di attuarla prima ancora che il governo trasformasse in norma statale le premesse dell’intesa con le regioni, accentuandone addirittura (come nel caso della Campania) gli elementi negativi, e comunque accettandone la logica perversa.

Il problema della casa esiste. Esso non dipende dal fatto che i volumi edificati siano inferiori al fabbisogno, ma dalla differenza tra il costo della casa e il prezzo che possono pagare quelli che di casa hanno bisogno (i giovani, la maggioranza dei lavoratori dipendenti, gli immigrati, per non parlare di quei “poveri” il cui numero sta aumentando), dal fatto che le case in affitto sono in Italia molto inferiori a quanto sarebbe necessario per garantire una ragionevole mobilità territoriale, che gli alloggi a prezzi accessibili sono spesso distanti dai luoghi di lavoro e obblighino a stressanti trasferimenti da casa a lavoro. Affrontare questo problema non ha nulla a che fare con il promuovere l’aumento di cubatura delle abitazioni esistenti (cioè con l’aumento del patrimonio di chi la casa l’ha già), e meno ancora con l’incremento delle cubature di alberghi o capannoni industriali. Richiederebbe un vasto programma di edilizia pubblica, finanziata dallo stato e realizzata su aree pubbliche, concessa in affitto a chi ha bisogno di abitazione, depurata dall’incidenza dell’incremento della rendita fondiaria. Quel programma che fu concepito e avviato negli anni Settanta e poi smobilitato a partire dagli anni Novanta. Di questo parleremo un’altra volta.

M’interessa invece riferire della recente polemica, nella quale sono stati ripresi temi ampiamente trattati su eddyburg.it. Essa è partita da un articolo di Salvatore Settis, il prestigioso direttore della Scuola normale di Pisa, autorevole presidente del Consiglio superiore dei beni culturali fino alle sue dimissioni pochi mesi fa. Settis ha ricordato che le regioni, a partire da quelle di sinistra, hanno attuato il “piano casa” proposto dal premier prima ancora che esso diventasse legge dello Stato, e che «l’aggiunta di volumetrie vietate fu l’oggetto dei condoni edilizi di Berlusconi deprecati dalla sinistra». Ma rileva che ora «le regioni “di sinistra”, sbandierando la dubbia etica del male minore, difendono il proprio piano-casa con un argomento miserevole: perché esso consente devastazioni minori di quelli delle regioni “di destra”». Ampliando il discorso Settis, che ha seguito con grande attenzione le vicende del Codice del paesaggio, rileva che «la convergenza fra governo e “opposizione” non è un caso, è il cuore del problema». E sebbene la nuova disciplina di tutela del paesaggio sia «in un Codice bipartisan, prodotto da due governi Berlusconi e da un governo Prodi non meno trasversale è stata la decisione di rinviarne tre volte l’entrata in vigore».

A Settis hanno risposto subito due esponenti delle regioni di centrosinistra, Maria Rita Lorenzetti dell’Umbria e Riccardo Conti della Toscana. Essi hanno difeso la loro anticipata attuazione dell’inesistente decreto del governo con due argomenti: Umbria e Toscana si sono sempre comportate bene nella difesa del paesaggio (e questo certamente è vero, ma non si comprende perché ora si debba mutare atteggiamento) e che la sinistra deve porre attenzione agli «edili che perdono il posto di lavoro» e tener conto della congiuintura economica. Che da una crisi come quella attuale si possa uscire ripristinando i meccanismi che l’hanno generata (la “bolla immobiliare” non è estranea allo tsunami che si è sollevato dagli USA) è veramente indice di miopia. Che rilanciare un boom edilizio basato sulla deroga ai piani urbanistici come quello che, nell’immediato dopoguerra e con ben altre motivazioni, devastò gran parte dei paesaggi italiani e rese invivibili le città, sembra davvero lontano da una politica “di sinistra”, come ha osservato qualche giorno fa Sandro Roggio su l’Unità. É perciò credibile il rilievo che ha fatto su eddyburg.it Maria Pia Guermandi, quando ha osservato che la scelta delle regioni che si sono accodate al “piano casa” del premier è una scelta «culturalmente suicida» ed è «economicamente avventurosa, miope e arcaica», ma è probabilmente una scelta che i suoi promotori ritengono «elettoralmente redditizia». Che ci indovinino sembra dubbio; sono convinto che l’elettore che accoglie parole d’ordine e proposte “di destra” riterrà sempre che di esse sarà più efficace interprete un personale politico “di destra”.

Non solo perciò è dannoso per il paese inseguire il governo nella sua politica di rilancio di un’edilizia di mera speculazione, ma non ha neanche senso attardarsi a proporre “piani casa” abborracciati, svincolati da quella visione ampia e programmatica che si affermò negli anni Settanta. Meglio tentar di “depeggiorare” i provvedimenti che le maggioranze di destra e di sinistra stanno promuovendo: come in Campania, dove la giunta Bassolino sta tentando di far passare la peggiore delle leggi finora varate, e come in Sardegna, dove la giunta Cappellacci sembra voler togliere a Bassolino il primato della legge peggiore.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 28 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti.

Tutti gli articoli citati sono disponibili su eddyburg.it, nella cartella Terremoto all'Aquila

Dal sito http://22passi.blogspot.com/

La Stampa, 17-21 agosto 2009.

Questo il senso di una recente sentenza del Consiglio di Stato a proposito della bocciatura di una lottizzazione a Cala Giunco, sulle coste sarde. Nel nostro Paese, nel Continente e nelle Isole, la Costituzione esiste ancora ed è uguale per tutti. Uguale per tutti è l’articolo 9, che impegna tutti alla tutela del paesaggio come uno dei beni supremi. La legislazione che tutela il paesaggio ha un valore che supera altre regolazioni, compresa quella dei cosiddetti “piani casa” (che con il bisogno di casa non hanno quasi nulla a che fare).

Scrivono i giudici del Consiglio di Stato: «Nella valutazione comparativa di contrapposti interessi, quello generale alla salvaguardia del paesaggio anche a tutela delle generazioni future, e quello individuale e imprenditoriale allo sviluppo degli insediamenti turistici, trova piena legittimità costituzionale la previsione regionale, estesa anche alle lottizzazioni in corso».

Questa sentenza ha due effetti, entrambi importanti: il primo riguarda territorialmente la Sardegna, l’altro l’Italia.

In Sardegna, è ulteriormente ribadito il giudizio positivo che la giustizia amministrativa esprime a favore della pianificazione paesaggistica della giunta Soru. Questa è «di particolare rigore, ma trova piena giustificazione nell’esigenza di salvaguardare un paesaggio di incomparabile bellezza, che ha già subìto attentati a causa della propensione italica ad un’edificazione indiscriminata».

Analoghe sentenze del tribunale amministrativo regionale avevano già proclamato la correttezza tecnica, amministrativa e giuridica del PPR, e dell’intera azione di difesa della costa e dei beni paesaggistici, ben al di là della fascia dei risibili 300 metri delle vecchie norme e degli stessi 3000 metri del primo, e transitorio, provvedimento “salva coste”. Ma l’avallo, ampiamente circostanziato e motivato, del giudice nazionale acquista un valore significativo, anche perché interviene in una fase in cui si tenta di smantellare gli argini eretti per tutelare gli interessi dell’umanità attuale e futura in merito alla bellezza creata dalla natura e dalla storia.

C’è però anche un motivo di rimpianto e un motivo di rimprovero: il rimpianto per la mancata estensione del PPR all’intero territorio della Sardegna; il rimprovero per chi non ha consentito di portare a termine il lavoro, sia con l’estensione del PPR sia con l’attivazione delle politiche previste per la sua implementazione. Ma il futuro è ancora aperto. L’attenzione di chi, in Sardegna, vuole opporsi alla marea montante della cementificazione, privatizzazione, segregazione (come i tentativi di riservare le spiagge ai turisti ricchi), dovrebbe indirizzarsi alla ripresa del cammino iniziato dalla giunta e non alla rincorsa della logica nefasta dei “piani casa”.

Anche al resto dell’Italia la sentenza del Consiglio di Stato dice qualcosa di interessante e utile per resistere. Le ragioni del paesaggio e della sua difesa restano vincenti su tutte quelle che le minacciano, siano esse motivate da interessi di speculazione immobiliare o siano argomentate da preoccupazioni relative allo “sviluppo”. Non è necessario alcun astratto “equilibrio” tra le esigenze della tutela e quelle di uno “sviluppo” basato sul parametro quantitativo del PIL. Le prime prevalgono in ogni caso, e l’unico sviluppo umanamente e socialmente valido è quello basato sulla messa in valore (non sulla “valorizzazione” economica) del patrimonio che i nostri avi ci hanno lasciato, e che dobbiamo conservare per i nostri posteri, accrescendone la consistenza e la qualità.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 21 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti.

Si vedano gli articoli di Mauro Lissia su la Nuova Sardegna e di Paolo Urbani su l'Unità a proposito delle sentenze dei tribunali amministrativi.

Per l'equilibrio tra tutela e sviluppo si vedano l'articolo degli assessori regionali di Toscana ed Umbria e la replica di eddyburg .

Il secondo tassello è stato l’avvio di una operazione di aumento del volume (e del relativo valore commerciale) delle costruzioni esistenti, in deroga ai piani e ai vincoli; la proposta è stata raccolta da tutte le regioni, di destra e sinistra, nel timore di perdere il consenso dei proprietari di case e della imprese edilizie. Il terzo tassello è la proposta di realizzare in Italia un centinaio di “new towns”, da costruire su aree demaniali e su quelle dove sorgono quartieri Iacp. Sulla privatizzazione (poiché di questo si tratta) delle aree demaniali ho già scritto la settimana scorsa denunciando il furto, che in tal modo si compirebbe, di un patrimonio che è di tutti. Ma vorrei fare una riflessione più ampia.

L’insieme delle proposte rivela – nella più ottimistica delle ipotesi – la più profonda ignoranza di come si ponga in Italia il problema della casa. In primo luogo, non è un problema quantitativo. In Italia ci stanno già più abitazioni che famiglie, e gli sportelli dei comuni continuano a sfornare permessi di costruire a più non posso. Le periferie delle città sono piene di case invendute. Il fatto è che in Italia c’è una quantità di abitanti (ivi compresi gli immigrati chiamati in Italia dalle imprese e dalle famiglie indigene) che non trovano alloggio da condurre in affitto, o da comprare, a prezzi compatibili con i loro redditi. Non si tratta solo di forestieri ma anche di coppie giovani e non più giovani che non vogliono più, o non possono, vivere ancora con i loro genitori. Si tratta di persone che lavorano in luoghi diversi da dove abitano, e che vorrebbero lasciare un alloggio che li obbliga a fare ore di viaggio scomodo e costoso. Si tratta di persone che hanno perso il lavoro, o non l’hanno ancora trovato, e che non godono di reti protettive parentali.

Chi pensa a questi abitanti del nostro paese? Certamente non le norme che favoriscono l’aumento di volume delle case esistenti. In misura assolutamente irrisoria quei 350 milioni già stanziati dal governo Prodi. E le cento “nuove città”, che si affiancheranno agli 8mila comuni e alle decine di migliaia di città e paesi che già esistono? Serviranno a chi ha i soldi per contrarre un mutuo per l’acquisto di quelle case. Non se ne potranno certo giovare le 650mila famiglie che, avendone i requisiti, hanno chiesto di accedere all’edilizia popolare, e neppure gli immigrati o i lavoratori precari. Quello che è certo che guadagneranno le imprese cui saranno cedute le aree demaniali e quelle degli Iacp: aree, come ho scritto la settimana scorsa, che sono un bene di tutti, di cui il governo è solo amministratore e non proprietario, perché è patrimonio di tutti noi.

Come urbanista non posso poi non indignarmi quando sento parlare di “new towns”. Si vuole evocare la politica applicata nel dopoguerra in Gran Bretagna, quando si avviò la realizzazione di nuove città dopo un attento studio e una rigorosa pianificazione territoriale e urbanistica, collegata a un vasto programma di sviluppo economico. Leggete il recente articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della sera (4 settembre), ripreso in eddyburg.it, per comprendere tutta la differenza tra le “new towns” e le lottizzazioni tipo Milano Due, che costituiscono il modello di riferimento dell’attuale governo.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali l’11 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti. L'immahine è la new town (di quelle vere) di Milton Keynes, G.B.

Non so se tutti sanno che cos’è il demanio pubblico. È qualcosa che appartiene a tutti noi cittadini italiani. È stato formato con le tasse che noi, e i nostri padri e nonni, abbiamo pagato allo Stato. Una parte è costituita dagli immobili (terreno ed edifici) che appartenevano alla proprietà feudale degli stati preunitari, e quindi costituisce il patrimonio pubblico di base della nostra nazione. Il resto l’abbiamo proprio pagato noi, direttamente, con le nostre tasse.

Vi sembra giusto che questo patrimonio di tutti sia privatizzato? A me no. Così come non mi sembra giusto che sia venduto a privati il patrimonio degli Istituti delle case popolari, anziché essere dato in affitto alle famiglie più bisognose. La disponibilità di un patrimonio edilizio pubblico è essenziale. Ogni paese civile ne dispone in percentuale molto più elevate che in Italia: 34 % del totale delle abitazioni in Olanda, 20 % in Svezia, 15 % in Francia, meno del 5 % in Italia. Il dato è ancora più preoccupante in quanto in Italia è molto più bassa che negli altri paesi europei la percentuale di alloggi in affitto. Non riescono a trovare un’abitazione in affitto a prezzi decenti non solo quanti sono poveri (e i poveri, si sa, in Italia stanno aumentando), ma anche chi ha un normale reddito di lavoro e deve spostarsi dalla casa dei suoi genitori per trovare un’occupazione.

Ridurre il patrimonio abitativo pubblico, investire risorse per aumentare il peso delle abitazioni in proprietà rispetto a quelle in affitto, è una politica che accresce le diseguaglianze sociali e riduce la libertà di cercare occupazione là dove c’è. Obbliga chi ha un po’ di risparmi a investire nell’acquisto di una casa in proprietà, distraendo così il risparmio dagli impieghi produttivi e dai consumi, quindi indebolisce il sistema economico. È una politica reazionaria nel vero senso del termine: perché porta il nostro paese all’indietro nel tempo.

Del resto, come molti hanno osservato anche il “piano casa” di cui si sta dibattendo è un ritorno al passato. Affidare la ripresa economica allo sviluppo dell’attività edilizia e, per ottenere questo risultato, “liberare” i costruttori e i proprietari immobiliari dalla regole dei piani urbanistici, è proprio la strada che percorsero (ma con ben altre motivazioni e in una realtà radicalmente diversa) i governi italiani degli anni Cinquanta. Il diffondersi della cementificazione . la devastazione del paesaggio e delle nostre città compiuti ignorando la pianificazione urbanistica provocarono allora guasti di cui ci si rese conto, tentando di correre ai ripari. Oggi si è ripresa quella strada.

Curiosamente però, come ha osservato Salvatore Settis su la Repubblica del 1 settembre, il decreto del governo non è mai arrivato, mentre le regioni si sono tutte prodigate per attuarlo. Ciascuna a suo modo, ma tutte, destra o sinistra, nella stessa logica: bisogna privilegiare i proprietari di case rispetto a quelli che una casa non l’hanno, e non possono né comprarla né prenderla in affitto ai prezzi del mercato. I voti dei primi sono di più, e l’obiettivo principale è prendere più voti e consolidare il potere, indipendentemente dal merito dei problemi e delle soluzioni. Questa sembra essere diventata una regola bipartisan: ragione di più per esserne preoccupati.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 3 settembre 2009, e lì raccoglie numerosi commenti

L’incomparabile paesaggio e il delicato equilibrio territoriale della penisola sorrentino-amalfitana erano difesi da un piano paesaggistico, redatto in conformità alla legge Galasso del 1985. Era stato approvato con una legge delle regione Campania nel 1987. Il piano non consentiva che, in quell’area, si costruisse un simile oggetto. Le norme del piano erano chiarissime, e il TAR aveva infatti bocciato, nel 2000, il piano regolatore del comune di Ravello che prevedeva quell’intervento. Ma qualcuno ebbe un’idea brillante: perché non chiediamo a un famoso architetto, di fama mondiale, di farci un bel disegno di una bella costruzione in quel luogo? Riusciremo a vincere le opposizioni. Così avvenne. Fu interessato l’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, il progettista di Brasilia. Nonostante la sua tarda età (è nato nel 1907) il grande architetto progettò l’edificio e consegnò il bozzetto ad Antonio Bassolino, che era volato fin laggiù per vedere Lula e ricevere il dono di Niemeyer. Con il palese proposito di scavalcare l’illegittimità dell’approvazione del progetto regione e comune promossero una procedura eccezionale: un “accordo di programma” che avrebbe scavalcato la legge.

Italia nostra si oppose. Divampò la polemica. I sostenitori del progetto raccolsero 167 firme di famosi intellettuali, giornalisti, scrittori, filosofi, economisti, perfino ambientalisti: da Massimo Cacciari a Renato Brunetta, da Paolo Sylos Labini a Mario Pirani, da Giorgio Ruffolo a Nicola Cacace, da Ermete Realacci a Cesare De Seta e tantissimi altri di ugual peso. Altri si opposero. Le ragioni degli oppositori erano di diverso ordine. In primo luogo, la difesa della legalità: se c’è una legge che vale per tutti, questa legge non può essere scavalcata con un atto d’imperio, solo perché questo atto è sollecitato e costruito dal presidente della Regione. In un paese che rispetta la legalità non si fanno provvedimenti ad personam. Accanto a questo, c’erano ragioni di merito, che poi erano alla base della tutela decretata dal piano paesaggistico. Il paesaggio di quella costa è un paesaggio perfetto, nel corso dei secoli lavoro dell’uomo e natura hanno trovato un equilibrio che tutto il mondo ama, non ha senso aggiungere – alle poche brutture delle recenti costruzioni abusive, che occorre distruggere – ulteriori interventi dissonanti. Esistono meravigliose ville e altre costruzioni antiche, già in parte adoperate per splendide manifestazioni musicali, si utilizzino quelle. Inoltre un auditorium di 400 posti, che eserciterebbe un richiamo di massa su tutta la penisola, richiamerebbe grandi quantità di automobili che peggiorerebbero ancora il traffico sulle tormentate – ma bellissime – strade della costiera.

Gli interventi favorevoli (su eddyburg c’è un’intera cartella, “SOS Ravello”, dedicata all’argomento) puntavano tutti essenzialmente su un argomento: la bellezza incontestabile di un’opera d’arte deve vincere su tutto. Adesso l’opera d’arte c’è, è lì, ha modificato il paesaggio della Costiera amalfitana. Il disegno originario di Niemeyer è un lontano ricordo: il progetto esecutivo è stato fatto dopo, da altri. Comunque, chiunque può giudicare. Qualcuno che lo ha visto dice che meriterebbe d’essere definito un ecomostro. Ma non voglio esprimere il mio parere. Vorrei chiedere, a chi ha l’occasione di passare per la costiera amalfitana con una macchina fotografica, di fotografarlo e di mandare le immagini, in formato .jpg, all’indirizzo eddyburg.it. Formeremo una giuria di fotografi che sceglierà quelle che, a Natale, inseriremo nel sito.

Questo articolo è andato in rete su Tiscali il 27 agosto 2009, e lì raccoglie numerosi commenti

La Stampa, 17-21 agosto 2009.

Un piano urbanistico o territoriali deve essere un piano: deve essere uno strumento che esprime le scelte sul territorio di una determinata istituzione, in termini tali che esse siano comprensibili ed efficaci: che cioè siano chiare per tutti i soggetti coinvolti, e che inducano effettivamente le trasformazioni proposte. Altrimenti un piano è un insieme di chiacchiere.

Il primo aspetto critico del Ptrc è proprio questo: è un insieme di scritti spesso condivisibili, ma è del tutto inefficace proprio là dove le analisi sono più corrette, gli obiettivi più giusti, gli auspici più condivisibili. Là dove, ad esempio, si argomentano la necessità di interrompere il consumo di suolo, di tutelare il paesaggio e l’agricoltura, di assumere come obiettivi a qualità e non alle quantità.

Chi non si accontenta dell’apparenza e cerca la sostanza e va a questa (al fascicolo delle Norme tecniche d’attuazione) scopre il piano è una truffa. Nessuna delle affermazioni condivisibili verrà tradotta in pratica: comuni e province, che sono i principali esecutori del piano, sono lasciati liberi di seguire i suggerimenti, oppure di fare esattamente il contrario. Una sola cosa è chiara: guai a intralciare in alcun modo l’attività edilizia; se questa entra in contrasto con altre finalità, destinazioni, progetti, questi devono cedere il passo.

Le uniche cose efficaci del Ptrc sono quelle che la Giunta regionale riserva a se stessa: la infrastrutture per la viabilità (quelle che più se ne fanno, più aumenta il traffico e più ce ne vogliono), gli approdi turistici, le “cittadelle aeroportuali”, i nuovi insediamenti previsti lungo la grande viabilità e soprattutto ai nodi del sistema autostradale. Attorno a questi, aree di due chilometri di raggio sono sottratte alla potestà della pianificazione comunale. Lì si concentreranno nuovi grandi interventi terziari (per il commercio, gli uffici, la ricettività turistica, la ricreazione) contribuendo all’ulteriore svuotamento dei centri urbani esistenti dalle attività che ne assicurano la vitalità. In compenso a questa sottrazione di potere si lasciano le mani libere ai comuni di lasciar costruire praticamente dappertutto. Contravvenendo alla legge, la regione ha rinunciato ad applicare le norme del Codice del paesaggio, quindi a proteggere la più nobile delle risorse regionali. Ma è stata tra le prime ad applicare il “piano casa” di Berlusconi, che affida la soluzione di un problema drammatico per i senza casa all’arricchimento di chi la casa l’ha già.

Sotto le brillanti apparenze (luccicanti specchietti per le allodole) il Ptrc rivela la strategia territoriale ed economica dell’attuale maggioranza regionale: puntare tutto sulla crescita della rendita immobiliare. Quella dei grandi investitori, gestita dalla giunta regionale, e quella piccola e piccolissima, affidata al bricolage degli interessi polverizzati sul territorio, lasciata ai comuni. Il pensiero liberale e l’economia classica avevano compreso che lasciare le briglie sciolte alla rendita significa privilegiare gli impieghi parassitari del reddito: quelli che, a differenza del salario e del profitto, aumentano le ricchezze personali senza alcuna ricaduta d’interesse generale. E in più, come comprendiamo oggi, significa distruggere il paesaggio, la natura, la bellezza, che costituiscono la nostra vera risorsa.

I punti della critica cui ho qui accennato sono sviluppati in un corposo documento che, a nome di oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi di cittadini attivi abbiamo consegnato alla regione (è accessibile qui: http://eddyburg.it). Il risultato di questo lavoro è che siamo riusciti a discutere delle proposte della regione in decine e decine di incontri, e a far crescere la consapevolezza che un Veneto diverso da quello proposto dal Ptrc è necessario e possibile.

INGREDIENTi (6 persone)

500 gr di pasta corta

50 gr. Di bottarga grattugiata

50-80 gr di cuore ddi tonno sotto sale, sostituibile con mosciame

2 cucchiai di succo di limone

10 pomodorini ciliegina

2 spicchi d’aglio

un mazzetto di prezzemolo

olio d’oliva q.b.

PREPARAZIONE

Soffriggere in una padella abbastanza grande l’aglio con i pomodorini e schiattarli

Grattugiare a scaglie il tonno e metterlo a bagno nel limone, finchè non si ammorbidisce

Cuocere la pasta e, appena scolata, ripassarla nella padella calda, aggiungendo il tonno e la bottarga

Tolta la padella dal fuoco spargere il prezzemolo tritato e servire.

Repubblica, 24 agosto 2009

Su questo argomento Eddyburg ha pubblicato tre articoli: due del manifesto del 13 agosto, dove la redazione informa dell’atto e delle reazioni suscitate e Sandro Roggio argomenta culturalmente e tecnicamente la scelta regionale, e uno della Repubblica del 12 agosto, dove Giovanni Valentini, pur nell’ambito di una valutazione che sembra complessivamente positiva (come ci si aspettava, da uno dei pochi giornalisti attenti all’impatto ambientale delle trasformazioni territoriali) adombra alcune critiche. Mentre rinvio agli articoli del manifesto chi voglia più puntuali informazioni sul contenuto del decreto, vorrei soffermarmi su alcune critiche sollevate, esplicitamente o implicitamente, da Valentini.

Una prima critica Valentini la formula al fatto che il provvedimento vincola (temporaneamente, per tre mesi) una fascia indiscriminata di 2.000 metri. Qui Valentini fa propria una eccezione che era stata subito sollevata, nell’isola, dagli amici (per professione operativa o per interesse patrimoniale) del cemento turistico, o dai loro rappresentanti con la fascia tricolore.

“Per un´isola frastagliata come la Sardegna – afferma Valentini - due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi. Dipende, tratto per tratto, dalla configurazione della costa. Sarà opportuno perciò verificare in concreto, comune per comune, le caratteristiche particolari di questo o quel territorio per decidere di conseguenza. Sul piano del metodo, un confronto aperto e democratico con le amministrazioni locali comunque s´impone”.

Giusto. E infatti sia nella relazione del decreto, sia nel disegno di legge presentato contestualmente, ci si impegna a procedere a quella verifica “in concreto, comune per comune”, delle “caratteristiche particolari di questo o di quel territorio per decidere di conseguenza”. Ma si decide di farlo nell’unico modo corretto in una società moderna e democratica: cioè con un piano: con uno strumento che consenta gli approfondimenti necessari, la sintesi tra le diverse esigenze, e una procedura trasparente nell’ambito della quale tutti possano conoscere, esprimere le proprie osservazioni, essere considerati nelle loro proposte.

La questione è proprio questa. Si denuncia e si depreca, giustamente, quando questa o quell’altra iniziativa minaccia di deturpare il paesaggio o di degradare l’ambiente, ma ci si dimentica che gli strumenti attraverso i quali minacce e degradi possono essere durevolmente contrastati non sono articoli di giornali. Sono quegli strumenti complessi che la cultura liberale ha promosso, istituito, e in paesi fortunati praticato; sono i piani urbanistici e territoriali, magari “con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”, secondo le parole di Giuseppe Galasso (un liberale, appunto). Certo, i piani sono una cosa seria, richiedono tempo, intelligenza e determinata volontà politica per essere formati. Se la “tutela intelligente” che essi consentono non c’è, e su quel territorio sussistono tensioni edificatrici e privatizzatici minacciose, occorre un atto di “tutela stupida”, come quel vincolo generalizzato che il decreto Soru provvidenzialmente ha istituito.

Un’altra critica che Valentini raccoglie (e il fatto che la raccolga un giornalista con i suoi crediti la dice lunga sulla forza dell’ideologia dominante) è quella che il vincolo (temporaneo) sulla fascia costiera si tradurrebbe in una valorizzazione delle proprietà immobiliari esistenti. Afferma Valentini: “c´è il rischio di favorire gli interessi forti, quelli di chi già possiede abitazioni, residence, ville o alberghi sulle coste sarde. O peggio ancora, di alimentare involontariamente una bolla speculativa, come quella finanziaria ai tempi d´oro di Internet”.

Se si volesse tradurre in indirizzi pratici questa preoccupazione si dovrebbe allargare a dismisura l’edificabilità delle coste sarde. Con esiti prevedibili per chiunque, e certo distanti rispetto alle attese dei difensori del paesaggio, tra i quali certamente il giornalista di Repubblica merita di essere annoverato. E con buona pace di quegli economisti (anch’essi liberali) i quali, da Davide Ricardo a Luigi Einaudi si sono affannati a dimostrare che la rendita immobiliare non segue le medesime leggi di mercato che governano le merci fungibili.

Una terza osservazione di Valentini merita di essere raccolta, poiché anch’essa esprime un martellante idolum fori.

“Per crescere e prosperare, alla Sardegna serve un modello di sviluppo economico-sociale, moderno, compatibile con la difesa dell´ambiente e con la valorizzazione di tutte le sue risorse, a cominciare proprio da un turismo sostenibile” afferma Valentini. E prosegue ammettendo che “ha ragione il governatore Soru a dire che questo non si può identificare con l´attività edilizia”. Ineccepibile, fin qui. Purtroppo prosegue: “Ma è pur vero che non deve ispirarsi a un paradigma ‘cavernicolo’, fatto esclusivamente di campeggi, tende, roulotte e caravan. La ‘perla del Mediterraneo’ ha bisogno di essere protetta dai nuovi barbari, non di essere blindata e diventare un´isola off limits”.

In queste affermazioni davvero si riflette una concezione del turismo, e più in generale della fruizione del paesaggio, che definire arcaica è poco. Impedire l’edificazione indiscriminata significa soltanto arrestare quello sfruttamento rapace e distruttivo della risorsa stessa che alimenta le correnti di visitatori. Significa porre le premesse per un turismo né devastatore e privatizzante (come quello dominante in tanta parte delle coste sarde) né ispirato al “paradigma cavernicolo”, altrettanto distruttivo. Un turismo, invece, capace di definire un equilibrato rapporto tra la capacità di carico delle risorse e le presenze di visita e soggiorno, di estendere la fruizione a tutte le numerosissime aree ricche di qualità ambientali e paesaggistiche, di programmare l’offerta turistica in modo da evitare che l’unica discriminante alla fruizione sia quella del reddito.

Sviluppare un turismo siffatto non è certamente facile, e richiede intelligenza, impegno, volontà politica duratura, capacità di guardare al futuro. Richiede però che si compia un primo passo. Proprio quello che ha fatto Renato Soru: mettere un fermo a quel turismo cementizio che oggi è il protagonista della devastazione delle coste. Sarebbe bello se la Sardegna diventasse davvero off limits per quel turismo, che fu oggetto – sulle pagine stesse di Repubblica – delle memorabili sacrosante invettive di Antonio Cederna. In anni lontani. Quando alla pianificazione del territorio si credeva; se non in Sardegna, nelle regioni amministrate dalla sinistra (e non esclusivamente in quelle).

Gli articoli del manifesto sul decreto Soru

L'articolo di Repubblica sul decreto Soru

Il termovalorizzatore della Campania

Il governo incrimina lo Statuto della Toscana

Siamo ormai abituati ai gesti istrionici per esserne troppo stupiti; ma frasi come quelle pecorecce espresse nei confronti della signora sotto la tenda, o l’invito a farsi una vacanza al mare, o la promessa di assegnare agli sfrattati una delle sue numerose case, hanno urtato particolarmente perché pronunciate al cospetto di una tragedia ancora viva, di fronte alle stesse dolenti persone che ancora ne portavano i segni.

Ha colpito ed è stato criticato il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, più facili grazie alla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento che è stata adottata (e criticata). Altrettanto giustamente sono state criticate le condizioni di vita nelle improvvisate tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini, cacciati dalle loro case da un disastroso ma prevedibile evento.

Le critiche e preoccupazioni su questi aspetti sono giuste. Ma la vera tragedia del modo berlusconiano di procedere alla ricostruzione risiede in due scelte, tra loro strettamente collegate, che avrebbero meritato un’attenzione più ampia: la scelta dell’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la scelta della ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è colpita direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non ha promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia? A me, francamente, che questo modo di governare sia volto all’arricchimento di qualche clan interesse meno del fatto che questo modo uccide la città e la società. Rende vera e attuale nel nostro Abruzzo la frase di Noemi Klein: “le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case”.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2009 nel giornale online Tiscali Italia, sul quale compaiono anche i numerosi commenti dei lettori, terribilmente istruttivi.

Eduardo Salzano è un urbanista molto noto e non solo in Italia. Un urbanista militante, nel senso che ha sempre coniugato la teoria, l’attività di docente alla Università IUAV di Venezia e di saggista, con le pratiche dell’impegno anche politico. Un suo libro, «Fondamenti di urbanistica» ristampato di recente da Laterza, è un raro esempio di chiarezza su metodi è obiettivi della pianificazione. Oggi tra le altre cose, cura un sito (eddyburg.it) che si occupa di governo del territorio. Negli ultimi anni ha dedicato molta attenzione alla Sardegna che considera uno dei paesaggi più importanti del Mediterraneo e sta seguendo con grande interesse il dibattito in corso sulla tutela delle sue aree litoranee. La sua posizione su questi argomenti è molto netta.

- Il ritardo nel dibattito ha pesato: i partiti, anche quelli di sinistra, arrivano tardi a riconoscere l’importanza della questione ambientale. Penso al discorso di Berlinguer sull’austerità del ‘77, che non aveva determinato conseguenze, come se mancasse il coraggio di entrare nel merito. O alla linea di prudente attesa del movimento sindacale, che poteva constatare che al consumo di territorio non corrispondeva una contropartita occupazionale accettabile.

«Mi sembra che si registrino due carenze gravi. Da una parte, un forte ritardo a dare il giusto peso alla questione ambientale. Questa viene intesa in un senso molto riduttivo, che porta a risolvere il problema a furia di maquillages e di mitigazioni, mentre quello che è irrimediabilmente in crisi è il modello di sviluppo basato sulla crescita quantitativa della produzione di merci. Non posso non riferirmi alle analisi di Claudio Napoleoni e di Franco Rodano, che hanno trovato una intelligente eco politica nella proposta dell’austerità di Enrico Berlinguer. Chi esprime oggi molto lucidamente il paradosso della crescita è Carla Ravaioli, per esempio in “Un altro mondo è necessario”, pubblicato da Editori Riuniti nel 2002.

Ma dall’altra parte, c’è un vizio di fondo della cultura italiana, che si riflette anche nelle posizioni e nelle sensibilità delle élites culturali. Un vizio che definirei come l’ignoranza del territorio. L’interazione tra azione dell’uomo e trasformazioni del territorio, e le ricadute che queste hanno sul destino vicino e futuro della società, è del tutto estraneo alla cultura corrente, anche a quella “alta”».

- Questi indugi hanno pesato anche in Sardegna: molti paesaggi costieri sono stati cancellati e i turisti più attenti cominciano ad accorgersene. Si è depauperata la materia prima, e non si avvera il meraviglioso programma: molto volume edificato uguale ricchezza per tutti. Crescono gli abitanti di alcuni centri litoranei e si prefigura un vuoto al centro dell’isola per lo spopolamento di paesi.

«I nostri territori sono pieni di ricchezze inaudite. Millenni di storia hanno lasciato il loro deposito, e hanno costruito un patrimonio di bellezza inestimabile: ancora viva, ancora presente nella vita, nei sapori e negli odori, nelle parole e nelle musiche, nei mestieri e nei saperi dei nostri popoli. Ci sono tesori di qualità nascoste nelle nostre terre, forse nelle colline e nei monti ancora più che nelle coste. Questa è la risorsa che dobbiamo utilizzare: modelli nuovi di turismo (anzi, di conoscenza, ricreazione, godimento), non più su quelli basati sullo sfruttamento rapace e intensivo di beni che sono disponibili anche altrove (sole, sabbia, acqua). Milioni di persone oggi, miliardi nei prossimi decenni, chiedono qualità, conoscenza di cose diverse, comprensione di ritmi di vita diversi da quelli affannosi delle omologate metropoli. È in vista di questi nuovi, grandi flussi che occorre lavorare; è per essi che occorre in primo luogo individuare, riconoscere e tutelare, e poi rendere disponibili a una fruizione intelligente, le ricchezze dei nostri paesaggi. C’è indubbiamente un grande ritardo nella comprensione di questa necessità, e dei grandi orizzonti che essa apre».

- Forse qui in Sardegna la politica ha in parte recuperato il ritardo e rimosso alcuni equivoci. C’è la vittoria di Soru.

«La Sardegna di Soru è un esempio di intelligenza e di volontà. È venuto un segnale forte. A me è sembrato di scorgervi una saggezza molto antica: l’orgoglio di chi rifiuta ogni colonizzazione, e sa vedere la miseria morale e la rapacità che si nascondono dietro gli orpelli della cosiddetta modernizzazione. Ma è una strada molto difficile, perché è contro una corrente che sembra travolgere tutto. Mi ha dato molta speranza, però, vedere quanto sia largo il consenso che la politica di tutela del paesaggio delle coste ha trovato nell’opinione pubblica, non solo nell’isola».

- Le case da vendere producono scarsi vantaggi. Eppure resiste il mito dell’imprenditore che viene dal mare. Nello sfondo ricompare ciclicamente la scena nel romanzo di Conrad, ogni volta che il villaggio costiero avvistava il brigantino e «cominciavano a picchiare i gong, a issare le bandiere, le ragazze si ornavano i capelli di fiori, la folla si allineava sulla riva...». Pesa la disoccupazione: una famiglia in gravi difficoltà vende anche le cose più belle che possiede...

«Mi ha colpito molto la lucidità di Soru nello svelare, all’assemblea dei sindaci del 6 settembre scorso, la truffa nascosta dietro quel mito. Come ho scritto nel presentarlo su eddyburg.it, ho apprezzato la consapevolezza del ruolo della Regione, la responsabilità di rappresentare anche le generazioni future, la fermezza nel sostenere che “il turismo non è vendere la terra”. Sono tre aspetti strettamente collegati tra loro. Governare è in primo luogo responsabilità: non è solo mediare tra gli interessi presenti. Responsabilità nei confronti di valori che non appartengono solo al “locale” né solo al “presente”. La bellezza che natura e storia hanno costruito non può essere degradata per gli interessi dei pochi proprietari attuali. Ciò che i millenni hanno creato deve essere tutelato nell’interesse delle generazioni future. Chi può rappresentarle, se non provvede un governo lungimirante?»

- Però in alcune aree della Sardegna e forte l’insofferenza nei confronti di vincoli a tutela del paesaggio o di altri beni culturali che vengono dallo Stato o dall’Europa: tarda a passare l’idea della solidarietà ecologica e generazionale.

«Sono meno pessimista di te. Grandi eventi (lo tsunami in Asia, la guerra nel Medio Oriente, le grandi epidemie moderne, l’inquinamento delle metropoli) fanno comprendere a gruppi sempre più vasti di cittadini che il destino delle civiltà umane è solidalmente legato, e che da soli non si resiste al male del mondo. Un giorno si comprenderà anche quali sono le cause, e allora si sarà maturi per sanarle. Io ho molta fiducia nell’uomo, soprattutto da quando ha scoperto (sta scoprendo) che è maschio e femmina».

- L’impressione è che le scelte più vicine al bene ambientale siano molto condizionate. Una disposizione che viene da lontano, è più rigorosa ma ha spesso la debolezza di non essere condivisa localmente. Non è una questione semplice: il principio di sussidiarietà è normalmente letto nel senso di garantire ad un’autorità inferiore una certa indipendenza rispetto ad un potere centrale.

«Ci sono cose che si vedono bene da vicino, e cose che si vedono bene da lontano. La sussidierietà rettamente intesa (all’europea, non alla padana) consiste proprio nel dire che a ciascun livello di governo spettano tutte, e solo, le decisioni su argomenti che solo a quel livello possono essere efficacemente governati. Ora mi sembra del tutto evidente che la tutela dell’ambiente naturale e storico e lo sviluppo di un turismo aperto alla prospettiva e chiuso alla rapina, sono questioni la cui responsabilità ricade sul livello regionale. Sostenere il contrario significa avere i paraocchi, e vedere solo il sacco di biada che si porta appeso al collo».

- La Regione dopo l’approvazione della legge di provvisoria salvaguardia deve redigere nuovi strumenti per sostituire i piani paesistici che due diverse sentenze hanno bocciato. Servirebbe indicare il metodo, anche considerando i tempi che non sono lunghi.

«A me sembra che lo sforzo da fare consiste nel tenere insieme due cose: una risposta tempestiva (nel tempo stabilito dalla legge) all’esigenza della salvaguardia, e l’avvio di un processo di conoscenza, governo e monitoraggio sistematico delle trasformazioni. Io partirei perciò da tre compiti pratici da svolgere in parallelo: 1) costituire un ufficio formato da personale prevalentemente interno, qualificato e soprattutto motivato (Roosvelt diceva che sarebbe un errore esiziale affidare la gestione di una riforma a personale che non ci crede); 2) utilizzare le conoscenze, e le proposte di tutela, che derivano dal lavoro fatto per la predisposizione degli atti bocciati dalla giustizia amministrativa, per una prima stesura di un piano; 3) mettere in piedi un sistema informativo territoriale capace di costruire e sistematicamente aggiornare il quadro conoscitivo essenziale per individuare, catalogare, riconoscere i dati del territorio, diffonderne la conoscenza, definire le regole per la sua conservazione / trasformazione».

- C’è la questione degli obiettivi. E non è cosa di poco conto se si guarda il dibattito di questi mesi: c’è chi ancora dà per scontata l’idea di trasformabilità, con qualche eccezione, delle aree che hanno fortunatamente resistito.

«A mio parere la questione va posta diversamente. Il nostro territorio è costituito da parti, elementi, componenti, ciascuna delle quali ha una sua individualità, delle qualità ancora riconoscibili, soggette dalla storia a trasformazioni le quali le hanno a volta arricchite a volta degradate. Si tratta di leggere questo processo e i suoi esiti. Si tratta di individuare insomma le regole che la storia (quella antica e quella recente) hanno seguito. Criticamente: nel senso di distinguere quelle che hanno dato risultati positivi, e di queste incoraggiare e promuovere la permanenza, cioè la conservazione attiva del paesaggio che hanno determinato. E di distinguere, per converso, le regole che hanno degradato e distrutto, e queste modificarle promuovendo trasformazioni che migliorino la qualità del paesaggio. Per fare un esempio, proprio il caso della villa di Soru che Pili ha presentato come uno scandalo. Lì Soru ha trasformato una brutta casa in stile tirolese in una tranquilla e sobria costruzione (senza aggiungere un metrocubo), e ha sostituito un bosco di essenze importate dall’Australia con piantagioni di alberi e arbusti tipici di quei paesaggi».

La buona cultura urbanistica italiana dell’ultimo mezzo secolo ha sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio. Prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne. Elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.

I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare Edoardo Detti (al cui insegnamento Sandro Roggio qui accanto rinvia) e alla sua difesa delle colline di Firenze. Ricordare, scavalcando l’Appennino, la difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti. Ricordare il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo. E, per restare vicini a Castelfalfi, ricordare l’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.

La buona cultura urbanistica ha compreso che non solo le forme, ma anche le comunità devono essere tutelate. L’azione di tutela non è mera conservazione, ma amorevole accompagnamento e guida delle dinamiche della vita che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, gli equilibri, i connotati (le “invarianti strutturali”) che la qualità di quei paesaggi, urbani e rurali, hanno costruito e mantenuto fino a oggi. Non solo le forme vanno tutelate, ma il loro rapporto con gli uomini: con le società che quei luoghi hanno abitato e spesso ancora abitano, li hanno costruiti e mantenuti per secoli e ancora possono essere aiutati a farlo.

Una società che cambia, ovviamente, negli individui che la compongono, negli obiettivi che la muovono, nei valori che la alimentano. Ma la saggezza ispirata da quei paesaggi storici e dalla loro storia sollecita a conservare, nelle trasformazioni, la fedeltà ai principi basilari e alle regole di fondo che hanno presieduto alla loro costruzione e consentito la loro durata. Così, le diverse funzioni che coabitano nelle città e nei paesi storici possono cambiare, ma deve essere conservata la mescolanza di ceti e mestieri, l’equilibrio tra residenti e forestieri e tra quotidianità ed eccezionalità e lo stretto rapporto tra la forma e le attività che caratterizzano il costruito e quelle che caratterizzano e disegnano il non costruito, il rurale.

Nulla di tutto questo è riconoscibile dei progetti proposti per Castelfalfi. Dove una volta il costruito prendeva risorse dal non costruito per accrescere il proprio benessere e restituiva forma del territorio agrario, paesaggio, domani dominerà esclusiva la monocultura turistica, la quale tutto prende al paesaggio senza nulla restituire. Gli stessi soldi prodotti dallo sfruttamento del territorio tornano alle multinazionali che lo sfruttamento hanno organizzato.

E’ quello che mi succede quando considero l’opinione corrente che si ha in Italia a proposito del territorio.

L’opinione corrente ha raggiunto il suo apice nella concezione del territorio propria del mondo, ideale e materiale, che è splendidamente rappresentato da Berlusconi. Può essere definita sinteticamente nel seguente modo.

Il territorio è qualcosa che esiste per essere trasformata, e le regole che le trasformazioni devono seguire sono quattro: (1) ogni trasformazione, sia la costruzione di una villa o un quartiere, di un ospedale o un’autostrada, deve consentire di guadagnare molto al proprietario o, nel caso di opera pubblica, al concessionario; (2) il guadagno deve manifestarsi nel tempo più breve possibile; (3) le conseguenze negative della trasformazione non devono ricadere sulle spalle del proprietario o concessionario; (4) tutto ciò che minaccia di ostacolare, o limitare, o ritardare il funzionamento di quelle tre regole deve essere contrastato e rimosso.

Vediamo alcuni casi dell’applicazione di questa concezione del territorio.

- La proposta di legge urbanistica dell’on. Lupi, presentata nella XV legislatura e ripresentata nella presente, che vuole sostituire a un sistema di regole dettate dal potere pubblico democratico l’iniziativa della proprietà immobiliare.

- La preferenza per le grandi opere realizzate con il sistema della concessione a imprese, mediante contratti che sottraggono al potere democratico il controllo effettivo del risultato, garantiscono il guadagno al privato e scaricano sul bilancio pubblico le perdite: è il sistema che vediamo applicare per le autostrade e per gli ospedali, per il ponte dello Stretto e per il MoSE della Laguna di Venezia.

- La soluzione del problema della casa affidata all’interesse del singolo proprietario di case o capannoni di aumentarne la cubatura, e quindi il valore venale, senza alcuna considerazione delle conseguenze sulle reti (fognature, acqua, viabilità), sui servizi (scuole, asili, palestre, parchi), sull’estetica e sulla funzionalità urbane.

- La continua spinta alla riduzione delle aree protette per le loro qualità, e perciò tutelate: una spinta aggravata dalla continua proroga della piena entrata in funzione del Codice del paesaggio e testimoniata dei colpi di mano che si stanno facendo per il Piano paesaggistico regionale della Sardegna.

La posizione alternativa, che condivido, è quella che vede il territorio e le sue qualità come un bene che nel suo complesso deve essere governato in nome dell’interesse generale, con una serie di azioni orientate prioritariamente a individuarne e conservarne le qualità (naturali e storiche), a garantirne la fruizione libera e l’accesso a tutti, compatibilmente con le esigenza della tutela. Un bene che può essere trasformato solo per utilizzarlo per esigenze che riguardino la società nel suo complesso, e in modi che ne provochino un miglioramento sul piano della bellezza e del saggio impiego delle risorse che esso fornisce, come su quello del soddisfacimento di fondamentali diritti umani e sociali. Mi riferisco al diritto ad abitare e fruire di spazi comuni dove intrecciare relazioni, aumentare il proprio potenziale di umanità e civiltà, esercitare il diritto della partecipazione al governo e all’espressione del consenso e del dissenso; al diritto a lavorare in condizioni di certezza e di sicurezza; al diritto di muoversi col minimo di ostacoli e di prezzi per le proprie necessità di lavoro, di scambio, di piacere.

Gli spazi naturali risparmiati dall’uomo e quelli trasformati dalle attività agricole rispettose della natura e dei suoi ritmi, le città della storia e quelle saggiamente sviluppate, sono testimonianze vive di trasformazioni orientate in questa direzione: nella direzione del territorio come un patrimonio comune, e non come strumento per l’arricchimento di pochi.

Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2009 nel giornale online Tiscali Italia, sul quale compaiono anche i commenti dei lettori

26 luglio 2009

Uscire dalla crisi? No, è il momento di

cambiare il sistema

Uscire dalla crisi. Non c’è soggetto di sinistra - partito, associazione, sindacato - che non affermi la necessità di questo obiettivo. Proprio come le destre, anche se certo con finalità diverse. Nella convinzione che solo rimettendo in moto l’economia, sia possibile (tentare di) salvare l’occupazione, difendere salari e pensioni, aiutare i lavoratori a superare la durezza del momento. Inascoltate, dalle sinistre come dalle destre, le voci sempre più numerose di personaggi peraltro alieni da ogni estremismo (vedi Stiglitz, Krugman, Morin, Guido Rossi, e molti altri) che affermano la necessità, sociale non meno che strutturale, di un diverso ordine economico. Mentre auspicare l’uscita dalla crisi equivale ad accettare il mondo così com’è.

Un mondo ricco, ma in cui esiste un miliardo di affamati, e l'1% della polazione detiene il 50% della ricchezza. Un mondo tecnologicamente in grado di produrre ampiamente il necessario con sempre meno lavoro umano, che invece insiste ad aumentare gli orari fino a proporre l’insensatezza di novanta ore a settimana. Un mondo che per la sua stessa razionalità usa la guerra come risorsa: oggi, in piena crisi mondiale, la produzione delle armi è in ottima salute. Un mondo che ancora tenta di credere all’inesistenza di una seria minaccia ecologica, continua a dilapidare la natura e a piegarne a fini economici i processi, stravolgendone senso e funzioni nella bulimia della crescita. Appropriandosi dello stesso impegno ecologista nella creazione di energie rinnovabili e forme produttive meno inquinanti, per piegarle alla logica della crescita nell’invenzione del “green business”. Davvero le sinistre possono accettare e di fatto - impegnandosi al suo recupero - legittimare questa realtà?

E’ comprensibile, certo, e forse anche utile nell’immediato, la lotta per la sopravvivenza della fabbrica a rischio, per la regolarizzazione di qualche gruppo di precari, per la difesa di categorie destinate al prepensionamento, ecc. Ma può la sinistra limitarsi a questi obiettivi? Non è necessario (nel mentre stesso che per essi ci si batte, e se ne ottiene il possibile) domandarsi se siano una risposta sufficiente oggi, in un mondo in cui precarizzazione, prepensionamenti, delocalizzazioni, sono strumenti obbligati di competitività sul mercato globale, dove l’economia (cioè la forma capitale) impera e la politica ad essa puntualmente s’inchina? Non è doveroso riflettere sulla irripetibilità di quel felice trentennio in cui la crescita produttiva nella forma dell’accumulazione capitalistica era parsa la risposta alla povertà? E ricordare come però negli ultimi decenni, mentre il prodotto continuava a crescere, anche la disoccupazione cresceva, e il precariato diventava regola, e i salari non facevano fronte all’inflazione, e insomma si produceva quella drammatica realtà che Halimi ha chiamato “Il grande balzo all’indietro”? Già allora solidi cervelli critici parlavano di crisi irreversibile del capitale: alcuni di loro, come Wallerstein, indicandone le cause nei limiti del pianeta, che non offre più spazi al connaturato espansionismo del capitale, altri, come Gorz, esplicitamente parlando della crisi ecologica come insuperabile barriera alla continuità del “sistema”.

E in fatto di ambiente sarebbe il caso che le sinistre facessero un sano esame di coscienza. Problema a lungo rifiutato, attribuito a interessi estetizzanti delle classi privilegiate, mentre si ignorava il fatto che a pagare le conseguenze del dissesto ecologico sono sempre i più poveri (operai, contadini, pescatori, profughi da inondazioni, cicloni, tornado). L’accumulazione capitalistica, come causa di distruzione della natura non è mai stata considerata da sinistra, e mai le masse lavoratrici sono state indotte a riflettere sulla materia. Dimenticando che solo su “pezzi” di natura, minerale vegetale animale, il lavoro esercita la propria fatica e la propria intelligenza. E che solo dalla natura la gran macchina dell’industria mondiale ricava la massa di prodotti di cui inonda i mercati. “Le merci sono natura trasformata”, già lo diceva Engels. Dunque se la natura continua ad essere saccheggiata, inquinata, cementificata, è lo stesso mondo di cui il lavoro vive ad essere messo a rischio. Non dovrebbe essere impegno delle sinistre difenderlo?

Un proposito del genere m’era parso di cogliere quando Rifondazione, per la voce dello stesso segretario, ha ripetutamente asserito: “Noi siamo per una società anticapitalista e ambientalista”. In questo abbinamento dei due obiettivi m’era parso di leggere una felice indicazione al programma elettorale, con la consapevolezza che una vera politica ambientale non può non essere anticapitalista, in quanto è il capitalismo il responsabile dello squilibrio del pianeta; e che per salvarlo occorre contenere la produzione, cioè pensare un’altra economia. Ma nel dibattito elettorale questo tema è praticamente sparito. Fatalmente - si sa - in prossimità delle elezioni il discorso politico, concentrato sulla cattura del voto, si rattrappisce, si limita a pochi temi supposti largamente condivisi, evita ogni azzardo.

Ora è nata la Federazione, e si appresta a “un nuovo inizio”. Bene. Non so però se ciò che si propone in prima istanza, cioè “ripartire dal lavoro”, sia il modo più utile di affrontare i problemi che ci sovrastano. Certo, il lavoro è tema sociale di rilevanza primaria, non solo oggetto della più pesante iniquità, ma base imprescindibile di continuità vitale della specie. E però non so se basti assumerlo come materia da cui “ripartire”, senza dichiarare l’esigenza di riflettere a fondo su come, quanto e perché il lavoro è cambiato e continua a cambiare. Vedi appunto la sempre più paurosa crisi ecologica; e la rivoluzione scientifica e tecnologica che ha sconvolto tempi e modi delle comunicazioni di ogni tipo, che ha radicalmente cambiato e continua a cambiare il nostro quotidiano, che nella forsennata corsa capitalistica alla crescita ha trasformato il produrre in tutte le sue forme, investendo e proiettando su dimensione mondiale anche i problemi di sempre.

Temo che isolare un problema, sia pure decisivo come il lavoro, rischi di allontanarci dal proposito di “un nuovo inizio”: che non può essere “l’uscita dalla crisi”, sia pure “da sinistra” (e in che modo poi?), ma solo l’ipotesi di un nuovo ordine economico. Difficile? Difficilissimo. Ma dopotutto la storia è fatta di cose che prima non c’erano.

9 agosto 2009

Sì ad una sinistra sociale ed ecologista…

“Noi vogliamo una sinistra sociale, ecologista, femminista, pacifista, anticapitalista e antipatriarcale”. Questo è l’obiettivo che un nuovo gruppo di lavoro si è dato, e che due suoi membri, Imma Barbarossa e Ciro Pesacane, hanno annunciato con un intervento su Liberazione del 1 agosto.

Può parere l’ingenuità di un “vogliamo tutto e subito” privo di conseguenze possibili, o un’accozzaglia di istanze disomogenee, allineate casualmente in un momento di irresistibile rifiuto del reale. A me pare invece un apprezzabile tentativo di aggregare in un unico progetto istanze solitamente programmate e vissute separatamente: l’ambientalismo, il femminismo, il pacifismo, ecc. qui proposti invece in un unico discorso. Il difetto sta semmai in una insufficienza di sintesi, quasi il progetto fosse frutto di una spinta inconscia più che di una meditata riflessione. Perché, se ognuna di queste istanze viene assunta in tutta sua portata e nella complessità delle sue possibili ricadute, ci si avvede come sempre i loro oggetti obbediscano a una medesima logica; e (quali ne siano gli antefatti e la specifica vicenda storica) tutti operino oggi come agenti decisivi di un unico sistema: il capitalismo. Ed è facile convincersene se appena si ci sofferma a considerarle.

Tralasciando il “sociale” (qualità imprescindibile, anzi ragione fondativa, di ogni “sinistra”, l’unica d’altronde che bene o male tutte le sinistre tentano di perseguire) occupiamoci di temi meno consueti: l’auspicio “ecologista” innanzitutto. E qui ci imbattiamo (come ho detto più volte) in uno dei più gravi “peccati” della sinistra; la quale a lungo ha negato la stessa esistenza del rischio ambiente, facendo proprio il paradigma dello stesso ordine economico che diceva di combattere, puntando sull’accumulazione capitalistica nella speranza di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e - alla pari dell’intero mondo politico - ignorando ciò che da sempre l’ambientalismo più qualificato afferma: cioè l’impossibilità di perseguire una produzione in crescita illimitata su un pianeta che illimitato non è, ed è pertanto incapace sia di fornire alla produzione quantitativi via via crescenti di risorse, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano; e pertanto la necessità di contenere la moltiplicazione del superfluo, la corsa all’iperconsumo e allo spreco, la santificazione del Pil.

Dunque lo squilibrio ecologico che va devastando il mondo e che nessuno può più ignorare, entra di diritto e d’autorità in un programma come quello che il gruppo propone: programma anticapitalista in ogni sua proposta, anche se la natura delle diverse istanze perseguite può sollevare qualche interrogativo.

Ad esempio una sinistra femminista e antipatriarcale (non credo scorretto affrontare insieme i due obiettivi, che nelle rispettive specificità obbediscono a esigenze analoghe) difficilmente di primo acchito può ritenersi necessariamente su posizioni anticapitalistiche. Si potrebbe addirittura sostenere il contrario, ricordando che proprio nei secoli di massima affermazione capitalistica le donne hanno conquistato diritti civili e sociali, e raggiunto livelli di libertà senza precedenti. Ma pronta, e sacrosanta, sarebbe l’obiezione femminista, a ricordare come il lavoro familiare e domestico, dovunque ritenuto dovere delle donne anche con regolare impiego, si ponga di fatto come “produzione e manutenzione di forza lavoro” fornita a costo zero all’industria capitalistica. E si potrebbe aggiungere come le conquiste femminili risultino limitate e in qualche misura deformate dalla cultura della società attuale, tutta giocata tra produzione e consumo, cioè dominata da una categoria la quale (secondo la millenaria divisione delle funzioni sessuali, che attribuisce al maschio la produzione e alla femmina la riproduzione) comporta il trionfo del “maschile”: e dunque iperattività, aggressività, violenza, guerra in qualsiasi forma, a definire ogni realtà e ogni rapporto, e poco o tanto a contaminare anche le donne che in questa realtà cercano di esprimersi. Senza dire (ma questo vorrebbe ancora un lungo discorso) della mercificazione imperante che della donna - da sempre ridotta a merce lei stessa - ha fatto strumento di invito alla merce.

E il pacifismo. Le guerre ci sono sempre state, con solerzia ci viene ripetuto. Vero. Ma non è meno vero che il capitalismo, oltre a usare la guerra come sempre per la conquista di nuove terre e di risorse pregiate, l’ha eletta a strumento regolatore del proprio equilibrio economico; e soprattutto a partire dal secolo scorso (come ampiamente argomentato da grandi economisti ) “una nuova alleanza tra industria e forze armate” (Galbraith) è stata stipulata a garantire la prosperità del sistema.

Agli amici impegnati in questo nuovo gruppo di lavoro, se saranno fedeli all’impianto dell’enunciazione, non mancherà materia su cui riflettere e faticare. Ma la strada imboccata credo sia quella buona: sapendo che, come sempre - ma più che mai oggi, in un mondo globalizzato - “tutto si tiene”, e proprio nelle connessioni e nella reciprocità di determinazione tra fenomeni apparentemente dissimili, è possibile leggere per intero i problemi che urgono e le battaglie che si impongono.

Qui altri haiku di Basho

citato da Zagrebelky, 23 aprile

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