Se si vuole far tornare alla normalità la gestione dei rifiuti in Campania la prima cosa da fare è porre fine alla sequela di falsità, denigrazioni e insulti verso le popolazioni della regione che pagano anni di responsabilità altrui. E rispondere a 2 domande.
1. Perché, se gli sversamenti di rifiuti tossici provenienti da tutte le regioni d'Italia durano da decenni, chi ora fa barriera contro le discariche dei propri rifiuti non si è opposto anche a quelle devastazioni? La prima risposta è che la popolazione campana non si comporta diversamente da quella di qualsiasi altro territorio inquinato da rifiuti industriali. Ci si accorge «dopo» di ciò, quando il danno è fatto; spesso anni dopo, quando si cerca una diversa destinazione d'uso dei siti. Ma ci sono altri fattori.
a. L'ignoranza delle conseguenze ambientali e sanitarie - ma anche economiche e sociali - di quelle operazioni. Di qui l'importanza di un'educazione ambientale vera, adeguata a una società industriale e non relegata a qualche «progetto educativo» che si sovrappone senza modificarli ai curricula scolastici: dalle elementari all'educazione permanente. Oggi, se interrogate un abitante di Napoli sul ciclo dei rifiuti, le sue fasi, le alternative praticabili, troverete una conoscenza che lascia a bocca aperta persino gli esperti. Conoscenza acquisita a proprie spese. Ponete le stesse domande al cittadino di una regione «a posto» con i rifiuti e vedrete quanta strada ha ancora da fare. Questa cultura, di cui c'è un vitale bisogno per governarsi, non riguarda solo i rifiuti, ma l'energia, le acque, l'assetto idrogeologico, l'urbanistica, la mobilità, l'agricoltura, ecc. Certo la tv non ha contribuito granché.
b. Non parliamo di un territorio qualsiasi. Nelle province di Napoli e Caserta il territorio è controllato dalla camorra; partner utilizzato da molte industrie di tutto il paese per sbarazzarsi a basso costo dei loro rifiuti. Opporsi alla camorra, soprattutto dove le amministrazioni sono colluse, presenta dei rischi. E' vero che in questi territori c'è una contiguità con la malavita organizzata che riguarda tanto molte istituzioni pubbliche e imprese quanto una parte rilevante della popolazione. E' una contiguità senza soluzioni di continuità: tra la cosca criminale arcinota e il cittadino o l'amministratore compromessi non c'è quasi mai rapporto diretto, bensì mediazioni e «diluizioni» che passano attraverso finanziamenti, appalti, favori, assunzioni, consulenze, protezioni, raccomandazioni, prestiti, e quant'altro. A volte senza sapere veramente con chi si ha a che fare. In contesti simili, tacciare tutte le mobilitazioni popolari - anche le più odiose, come l'assalto al campo rom di Ponticelli - come «camorristiche» è il modo migliore per spingere sempre più gente nell'abbraccio della malavita. E tuttavia denunce e esposti di singoli cittadini o di organismi collettivi sono stati numerosi, da anni; spesso senza esiti. Ma molte delle inchieste sulla malavita organizzata sono partite da quelle denunce.
c. Il litorale campano da Castelvolturno a Castellammare è una delle aree più densamente popolate del mondo. Realizzare impianti dall'indubbio impatto ambientale e sanitario in contesti del genere non è certo impossibile, ma richiede rigore e selezione delle soluzioni meno lesive per la popolazione. Nessuno ha mai proposto una discarica a Milano non dico in Parco Sempione, ma nemmeno a Monte Stella; oppure a Roma, non dico a Villa Borghese, ma neppure a Villa Ada. Perché allora a Napoli una delle poche aree ancora verdi, densamente abitata, deve diventare la discarica di tutta la città? Lo stesso vale per l'inceneritore di Acerra, costruito nel sito più inquinato e più cancerogeno d'Europa, o per Agnano, dove se ne vuole fare un altro, inutile anche per chi ama questi impianti. Gli impianti ovviamente si devono fare: ma commisurandone alla «capacità di carico» dei territori dimensioni, localizzazione, impatto e tipologia. Perché, allora, solo inceneritori e non compostaggio e riciclo, come molti comuni hanno chiesto di fare? I cittadini campani chiedono che prima di costruire un nuovo impianto - e non dopo - il sito sia bonificato dai guasti pre-esistenti, per non aggiungere inquinamento a inquinamento. Invece la localizzazione di molti impianti sembra aver seguito la logica opposta: sono stati fatti nelle aree già compromesse. Il che equivale a avvelenare la popolazione. Ovvio che le reazioni siano drastiche.
2. Ma perché mai in Campania «non si fa la raccolta differenziata»? Dove le amministrazioni si sono date da fare - una cinquantina di comuni, anche di dimensioni consistenti - la raccolta differenziata ha raggiunto livelli di eccellenza. Dove non si è fatta è perché i comuni l'hanno delegata al Commissario o a consorzi che non se ne sono occupati. Ma, soprattutto, perché è stato loro impedito di farla. Da chi? Dai sostenitori dell'inceneritore. L'associazione delle banche italiane (Abi), sponsorizzando con un intervento illecito e a danno dei concorrenti, il gruppo Impregilo, che aveva presentato il progetto tecnico di inceneritore peggiore - ma che poi ha vinto la gara - faceva notare fin dal 1999 che per garantire un adeguato rientro dei costi sostenuti dall'impresa era necessario ridurre al massimo il prelievo alla fonte dei rifiuti combustibili, cioè carta e plastica. Senza questi materiali, infatti, l'inceneritore «si spegne». Di qui l'esigenza di bloccare la raccolta differenziata, frazione organica compresa. Tanto che nel 2001, la Fibe (l'azienda del gruppo Impregilo cui era stato consegnato il monopolio dei rifiuti campani) ha imposto la chiusura e lo smantellamento dell'impianto di compostaggio di S. Maria Capua Vetere, in funzione da due anni, perché «i rifiuti erano suoi» e intendeva mandarli tutti nel futuro inceneritore di Acerra, facendoli passare attraverso uno degli impianti di selezione del rifiuto indifferenziato (i cosiddetti Cdr) appena aperti: impianti che ha poi usato non per alimentare l'inceneritore, non ancora pronto dopo sette anni, ma per produrre montagne di ingestibili ecoballe. Senza impianti di compostaggio non si può raccogliere l'umido. Così, quando il consorzio Caserta2 ha realizzato un nuovo impianto a San Tammaro, il commissario gli ha riempito i capannoni di ecoballe nonostante che per quell'uso, lì di fronte ci fosse un piazzale grande come quattro campi di calcio. Così, per uscire dall'emergenza, si rende «indispensabile» l'inceneritore; anzi, quattro: perché i campani «non vogliono fare la raccolta differenziata».
Certo, come ovunque in Italia, ci saranno anche state in passato delle resistenze verso una raccolta differenziata porta a porta: quella che, dopo un periodo di avviamento, costa meno e toglie i cassonetti dalle strade. Ma invece di affrontare le difficoltà, troppe amministrazioni le hanno assecondate o indotte, per continuare con i vecchi sistemi e i vecchi appalti e «lasciar lavorare» Fibe e commissari. Oggi però, con montagne di rifiuti per strada, non c'è un solo cittadino campano che non voglia fare la raccolta differenziata «spinta». Anzi, in molti quartieri si sono organizzati per farla da soli, bypassando aziende, comuni e consorzi; anche se poi è difficile trovare chi viene a prelevare il materiale raccolto. La crisi della Campania va affrontata cominciando con il restituire alle sue popolazioni, con atti concreti, il rispetto che è loro dovuto.