Un ennesimo racconto di serrande abbassate per sempre, di quartieri che si desertificano, e la solita ottusità a capire, a dare la colpa al destino cinico e baro. La Repubblica, 20 marzo 2013, postilla (f.b.)
TORINO - C’ERA il rumore leggero delle saracinesche ben oliate che si alzavano girando una chiavetta. C’erano i saluti allegri fra chi cominciava una giornata di lavoro. «Buongiorno, buona giornata ». Le eleganti ragazze del negozio con abiti da duemila euro e i più anziani commessi della rivendita di pantofole si incontravano con i ragazzi pronti a passare la giornata cuocendo hamburger e patate fritte. Adesso c’è troppo silenzio, in via Amendola. Troppe serrande sono state abbassate per l’ultima volta. Sono state tolte anche le insegne. Via il nome dalle tre vetrine di Trussardi, via un nome antico, Vindigni, dove i torinesi andavano a comprare l’abito della festa. «Prossimamente aprirà enoteca », annuncia un cartello. Spente e rottamate le friggitrici e le piastre del Burger King, che un tempo attirava giovani anche dalle periferie, perché era il primo fast food aperto nella città dei Savoia. Adesso, per conoscere «chi c’era qui», devi chiedere all’uomo che porta fuori il cane o alla commessa della tabaccheria.
Un centro Tim ha trovato un’altra strada, si è trasferita anche l’ottica Cavalli. Arrivi in piazza Cln e anche qui ci sono i buchi neri. Se ne sono andati la profumeria Piera Giordano, il Plaisir che vendeva tutto per “la salute del corpo”, e anche “Pantaloni e pantaloni”. Svolti in via Roma — la via Condotti di Torino — e vedi i segni lasciati dalle insegne divelte. “Affittasi”, annuncia un grande cartello su quello che era il negozio di Cartier. Chiuse le vetrine sfavillanti di due gioiellerie, Fasano e Palmerio, dove migliaia di torinesi avevano comprato le fedi per il matrimonio e lasciato gli occhi sugli altri gioielli.
«E stiamo parlando — raccontano Antonio Carta e Morena Sighinolfi, presidente e direttore della Confesercenti sotto la Mole — delle strade più ricche della città. Immagini cosa succede nelle periferie». I numeri parlano chiaro. Nei soli due mesi di gennaio e febbraio nel capoluogo il saldo fra aperture e chiusure è stato di meno 231 per i negozi e meno 250 per le «somministrazioni», vale a dire bar, ristoranti, pizzerie, kebab… Ogni giorno 15 serrande non vengono rialzate. «In centro la crisi è provocata dal caro-affitti e dal fatto che i clienti sono attratti dai grandi centri commerciali che, da gennaio, hanno deciso di restare aperti tutte le domeniche ». La vicenda degli affitti in centro ricorda la favola della rana di Fedro, che si gonfiava per sembrare grossa come un bue. I proprietari dei muri hanno continuato ad aumentare i prezzi — in via Roma e dintorni 150 ma anche 200 euro al metro quadro ogni mese, e così per 100 metri si debbono pagare fino a 20 mila euro — con il risultato di avere centinaia di proprietà «scoppiate» e senza reddito.
«Ormai solo i grandi marchi — dice Antonio Carta — riescono a resistere in centro. I negozi appartengono per il 90 per cento ad assicurazioni e banche che — mi ha spiegato
un loro dirigente — preferiscono lasciarli sfitti piuttosto di abbassare i prezzi, per “non deprimere il mercato”. Fino al 2011 c’erano tante chiusure ma il numero di chi apriva era superiore. Questo perché i genitori, con la liquidazione della Fiat e la pensione, costruivano un posto di lavoro per il figlio, aprendogli un negozietto o una videoteca. Ora quei soldi sono finiti. E migliaia di operai in cassa integrazione, con il 30 per cento di reddito in meno, non possono certo fare investimenti: fanno fatica a fare la spesa».
Le strade con le serrande bloccate ci sono «anche perché alcuni commercianti hanno fatto degli errori». «C’è stato qualche collega — racconta Franco Orecchia della Vestil, negozio di abbigliamento di tre piani in piazza Statuto — che per ridurre i costi ha abbassato la qualità. Ed ha pagato caro. Se uno è abituato a cenare in un buon ristorante, con la crisi non va al fast food. Torna al ristorante, ma solo quando se lo può permettere. Così succede nell’abbigliamento. Se sei servito bene, compri meno capi ma non cambi negozio». Diciassette dipendenti più quattro della famiglia. «Qui trovi abiti da 480 a 3.500 euro. Solo per la taglia 50, ad esempio, lei può scegliere fra 200 pantaloni diversi. Investire nell’offerta è un obbligo: il cliente che non trova ciò che vuole va a cercarlo da un’altra parte». Vetrine illuminate dal 1957 ma aperte al nuovo. «Al secondo piano ho un angolo dedicato a pasta, salse e vino di alta qualità. È un’offerta che funziona nelle librerie. Perché non provare anche noi?».
C’è anche chi, pur puntando sulle eccellenze, si deve arrendere. «In tutta la mattinata — dice Luciano Ferrarese, con mini market in via Cibrario — ho incassato 40 euro. Ho frutta e verdura biologiche e anche se siamo a marzo i primi meloni di Mantova. Le colombe pasquali sono di pasticceria. Fino a due anni fa in questi giorni le avevo esaurite, quest’anno non ne ho venduta una». Luciano Ferrarese, negli anni buoni, si è comprato i muri. «Anche senza pagare l’affitto, devo chiudere. Con gli incassi troppo magri, uso la mia pensione per pagare le spese generali. E me ne vado senza “liquidazione”, perché la licenza con la legge Bersani non si vende ma si riconsegna gratis in Comune. L’avevo comprata nel 1985, con 50 milioni di lire. Allora avrei potuto comprarmi due piccoli appartamenti. Ma non oso lamentarmi, c’è chi sta peggio. Vedo dei miei ex clienti che all’alba vanno a cercare nei cassonetti…».
«Lo spartiacque — dicono Antonio Carta e Morena Sighinolfi della Confesercenti — arriverà a Pasqua. Se non ci sarà una ripresa dei consumi, altre centinaia di saracinesche si abbasseranno in pochi giorni. Sarà un disastro. Noi curiamo i bilanci delle imprese e nell’ultimo anno abbiamo rilevato un dato allarmante: non chiudono solo le aziende con problemi — mutui troppo alti,
esposizioni bancarie, merci sbagliate — ma anche quelle finanziariamente sane e con una buona clientela. Questo significa che le famiglie stanno davvero finendo i soldi: hanno rinunciato prima al voluttuario (scarpe, jeans ...) poi agli alimentari, con tagli alla carne, alla verdura, al pesce. Ora chiudono bar e pizzerie: devi fare i conti prima di andare a prenderti un caffè».
C’è chi la crisi la può pesare a quintali. «Prima vendevo — racconta Luigi Frasca, titolare della “Bottega della carne, Da Natalino” — due mezzene di vitello piemontese, 260 — 270 chili l’una — alla settimana. Adesso ne vendo solo una. Chi vendeva una mezzena, ora vende un quarto. I miei genitori e i miei nonni con la macelleria si compravano le case e le macchine e facevano studiare i figli. Noi facciamo fatica a stare in piedi». A Porta Palazzo, nella galleria Umberto I, Gianni Berteti dice di avere cambiato mestiere. «Vendo profumi ma soprattutto faccio lo psichiatra. Vengono in bottega colleghi e clienti che mi raccontano che così non si può andare avanti, che se devi scegliere fra la pastasciutta e un profumo ovviamente scegli il cibo. Si sta qui a parlare e il registratore di cassa resta muto». Qualche serranda è chiusa (un ristorante, il negozio del primo cinese arrivato a Torino…) e le altre vetrine sono ancora illuminate. Ma nessun passo di cliente viene a disturbare il silenzio nella galleria.
Postilla
Dare la colpa al destino o alla crisi? La cosa che più colpisce, di questa ecatombe commerciale, è la sua perfetta, banale, assoluta prevedibilità: cambia il ruolo dei centri urbani, si afferma quello delle periferie automobilistiche e della dispersione, con relativa supremazia degli scatoloni. E non perché sono scatoloni, o (solo) perché siano gestiti da una specie di Spectre globalizzata all'assalto della bottega familiare buona e brava. Ma perché sono organici alla forma insediativa, sociale, di consumo e comportamento prevalente. Si poteva fare qualcosa? Si può fare qualcosa? Sicuramente, e ci provano da decenni in tutto il mondo. La vera sciocchezza, la cosa più frustrante e fastidiosa, è dover assistere a questa agonia dei quartieri impotenti, con tutti, nessuno escluso, che danno la colpa ad altri, e non alla propria incapacità di riflettere sulla mutazione del commercio urbano, e sull'indispensabile avvio di politiche pubblico-private diverse dalla solita tutela corporativa dei bottegai (f.b.)