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Lorenzo Venturini
Urbanistica e comunità, Politiche e piani per la rigenerazione urbana a New York
11 Agosto 2004
Tesi Ricerche Dissertazioni
Questa tesi è stata preparata nell’ambito del dottorato di ricerca in Politiche Territoriali e Progetto Locale (XVI Ciclo) presso il Dipartimento di Studi Urbani dell’Università degli studi Roma 3, e consegnata nel giugno 2004. Ne inserisco qui il primo e l’ultimo capitolo. Il testo integrale è allegato in formato .pdf.

1. Introduzione

La pratica del community planning si colloca tra urbanistica e politiche sociali: se da un lato la comunità è l’esperto in grado di fornire indicazioni ai progettisti per sviluppare soluzioni complessivamente più rispondenti ai bisogni reali, dall’altro il consolidamento della comunità in quanto tale è uno degli scopi del processo di piano. In tal senso infatti si parla di community building, individuando nel processo di formazione dei piani l’occasione per favorire il miglioramento della coesione interna delle comunità locali e i rapporti di vicinato.

Municipal Art Society, New York

Tra urbanistica e comunità

Indagare il rapporto tra urbanistica e comunità nella metropoli contemporanea significa avventurarsi in una ricerca difficile e complessa, che necessita di alcune precisazioni. La scelta della comunità come oggetto di indagine può sollevare alcune perplessità, dato che si tratta di una categoria dai contorni non ben definiti e non proprio rappresentativa degli abitanti della New York contemporanea. Il tema è ambiguo anche perché lascia intendere che l’urbanistica – o una sua componente – abbia uno stretto rapporto con le comunità, e questo accade solo in particolari circostanze.

Numerosi studi sociologici ci dicono che la comunità è un’entità sempre più vaga e indeterminata, e che la sua perdita di significato rimanda alla perdita del senso di identità e di coesione sociale che caratterizzano la vita urbana contemporanea. Lo sappiamo grazie agli studi, e molti di noi lo sperimentano personalmente nella vita quotidiana. Eppure nella letteratura che ho esaminato, nei meeting e nelle lezioni a cui ho partecipato a New York, il termine community ricorreva con una certa frequenza. È probabile che il significato attribuito al termine non sia lo stesso che gli si attribuisce in Italia e nella tradizione europea, dove è riferito a comunità storiche nelle quali i legami sociali sono alimentati da un rapporto stabile con un dato gruppo e un dato territorio. Personalmente, ho maturato l’idea che a New York la parola community rimandi ad un modello ideale di organizzazione sociale a cui fare riferimento: la comunità è solidale, coesa, sicura, protettiva. Un’idea alla quale tendere, un modello da seguire per chi si pone il problema di come orientare le politiche e l’azione sociale. Tra le definizioni usate dagli studiosi e dai planners newyorchesi mi sembra che prevalga, con una certa approssimazione, la descrizione della comunità come un insieme di abitanti e di operatori economici che vivono o lavorano abitualmente in una data porzione di città, e che condividono anzitutto un determinato spazio urbano. In questo caso si tenderebbe a superare la definizione classica che rimanda alla società preindustriale, per riferirsi piuttosto a nuove comunità improprie che presentano solo alcune caratteristiche del modello storico. Si tratta di una definizione minima ma funzionale allo scopo del community-based planning che, non solo riconosce la comunità locale come interlocutore, ma che vi si affida per dialogare con gli abitanti di un quartiere, per affrontare i problemi comuni e favorire la partecipazione alla formazione delle decisioni.

Si potrebbe osservare che di comunità in realtà non ne esiste una sola in un dato territorio, e che casomai ne esistono tante, che hanno caratteri poco definiti, instabili e mutevoli, che sono fondate su occasionali interessi condivisi piuttosto che basate su durevoli legami territoriali. Dunque la community cui continuano ad alludere politici, funzionari e urbanisti nei loro interventi pubblici non sarebbe un soggetto di riferimento appropriato.

Tuttavia, come affermano alcuni sociologi, l’idea – o meglio il desiderio – di comunità persiste. Pur nella sua indeterminatezza fisica e temporale, la comunità può trovare la sua ragione d’essere in un dato momento e in un dato luogo, quando un gruppo di persone si riunisce per discutere del futuro del territorio che, almeno temporaneamente, condivide. Perciò questa “ricerca della comunità perduta”, condotta attraverso l’esame delle pratiche urbanistiche e delle analisi socioeconomiche dalle quali le pratiche traggono ispirazione, può essere intesa anche come una sfida, come una provocazione. Andiamo a vedere di cosa si occupano i community planners, chi sono i community leaders, cosa significa community building e, per differenza, di cosa si occupano i poteri politici, economici, istituzionali e i planners più convenzionali.

I contenuti della ricerca

Il lavoro descrive le trasformazioni urbanistiche e sociali che hanno accompagnato la transizione di New York verso l’economia post industriale e che stanno plasmando la metropoli contemporanea, tentando di evidenziare le sfide che l’urbanistica si trova ad affrontare. La ricerca utilizza due chiavi di lettura privilegiate: 1) gli studi sociologici che si occupano (e si preoccupano) della giustizia sociale, della democrazia e della qualità dell’abitare; 2) quella particolare pratica urbanistica conosciuta come community-based planning.

Attraverso l’esame delle dinamiche sociali, delle scelte politiche e urbanistiche che regolano le trasformazioni urbane, rileggiamo la storia recente ed i problemi quotidiani della città e dei suoi abitanti. Quando l’attenzione si sofferma sulle vicende più note, a fianco della storia “ufficiale” vengono considerate anche letture critiche, che interpretano i fatti ed i loro effetti in un più ampio quadro di interesse generale. Anche se questo esercizio può essere considerato poco interessante per il giornalismo e per le cronache di costume più attenti agli eventi spettacolari (ma spesso anche per la letteratura dell’architettura e dell’urbanistica), può esserlo per chi si occupa degli aspetti sociali dell’intera città. Per chi osserva come si vive la quotidianità nella metropoli più importante al mondo, come questa si trasforma e che rapporto hanno i suoi abitanti con il governo delle trasformazioni. L’esercizio può anche stimolare la riflessione su quanto l’urbanistica serva ai cittadini e al buon governo del territorio, quali interessi asseconda e quali trascura.

Il punto di vista utilizzato per osservare le trasformazioni urbane e i relativi piani non riscuote i consensi e l’interesse delle maggioranze. Infatti, l’urbanistica con le comunità è considerata una pratica relativamente marginale, sia per l’entità del fenomeno sia per l’area sociale cui in prevalenza si rivolge. Non ultimo, per il ridotto peso politico e per la scarsa incidenza sui processi reali di trasformazione delle città, che sono concentrati nelle mani dei cosiddetti poteri forti: politico, finanziario e immobiliare sopra a tutti. [1] Ma la “lente” sociale, messa a fuoco sulla vita quotidiana dei quartieri (delle comunità), consente di vedere in maniera più complessa e più approfondita gli effetti delle politiche e delle azioni di trasformazione urbana. Gli effetti di quelle esternalità, che non sono considerate nella valutazione delle politiche urbane, dei piani di trasformazione fisica, pubblici e privati che si occupano prevalentemente degli aspetti economici e funzionali.

Con lo sguardo rivolto agli abitanti più che agli edifici, questo lavoro cerca di descrivere le “regole del gioco” dell’urbanistica di New York degli ultimi decenni, lasciandole sullo sfondo. Si sofferma, invece, sui piani con le comunità, che raccontano una sorta di “controstoria” delle vicende urbanistiche più conosciute. Il community-based planning è una pratica che affonda le sue radici nella cultura statunitense fin dalle sue origini, nella spiccata attitudine degli “americani” ad associarsi spontaneamente per affrontare le più disparate questioni ritenute di interesse comune. Questa attitudine, che nei secoli ha generato un complesso universo di associazioni non-profit e gruppi di interesse, ha costituito la base della lunga stagione di lotte per i diritti civili, per la pace, contro le ingiustizie sociali e la segregazione razziale iniziate negli anni sessanta e settanta.

In quegli anni nasceva l’ advocacy planning, una particolare forma di urbanistica con finalità sociali che si batteva per una maggiore giustizia sociale, coinvolgendo i cittadini nei processi decisionali e assistendo i più deboli nella difesa dei propri quartieri, nel tentativo di migliorare le loro condizioni di vita. Il community planning americano ha pertanto una precisa connotazione culturale e storica, ma anche geografica: è un fenomeno tipicamente urbano, che nasce e trova alimento nelle città, dove i problemi sociali sono più evidenti e le lotte più accese. E, particolare non trascurabile per gli Stati Uniti, una maggiore densità abitativa. Nelle città lo spazio urbano non è rarefatto, la prossimità ha un significato diverso rispetto ai suburbs, il rapporto con ciò che accade nei pressi è più immediato, nel bene e nel male.

È bene analizzare in profondità le condizioni nelle quali si sviluppa il fenomeno dell’urbanistica con le comunità, comprenderne la sua effettiva utilità sociale. Si eviterà così di banalizzarlo relegandolo ad una pratica ideologica che ha caratterizzato una fase politica ormai trascorsa, o di elevarlo impropriamente a strumento tecnico buono per ogni occasione e in ogni parte del mondo. Quella del community planning è soprattutto una storia di lotte per la difesa dei quartieri da discutibili operazioni di rinnovo urbano, una storia di rivendicazioni per case più umane, meno costose e più vivibili. È una storia di successi e di insuccessi, di un cammino difficile e incerto verso una maggiore equità sociale, verso una partecipazione effettiva alla vita democratica. Un elemento costante di questa storia, come si evince dal nome che porta, è la comunità: quella rete di relazioni, quella sorta di assicurazione sociale di cui hanno bisogno soprattutto coloro che devono unire le forze per difendere i propri diritti in assenza di potere e rappresentatività politica adeguati.

L’articolazione della ricerca

La prima parte del lavoro descrive le “condizioni al contorno” dell’urbanistica newyorchese, raccontando la storia delle trasformazioni urbane della città e delle regole che hanno cercato di governarla. I primi due capitoli prendono largamente a prestito le analisi e le opinioni che urbanisti, storici, sociologi ed economisti hanno sviluppato sulla città. Sono fonti di seconda mano, ma in questo caso mi sono parse necessarie per inquadrare criticamente fenomeni complessi. Una ricostruzione del genere può presentare alcuni limiti, perché pur servendosi di testi collaudati, scritti da autori noti e rigorosi, esprime comunque letture parziali e incomplete del fenomeno osservato. Tuttavia il ricorso a queste letture mi sembra raggiunga lo scopo prefisso: dare un’idea della complessità dei fenomeni, collegare fatti, persone e cose in un modo che sarebbe difficile per un osservatore esterno che attinga prevalentemente alle fonti di prima mano come i dati, le normative e i comunicati ufficiali.

Il secondo capitolo, dedicato a comprendere il contesto economico e sociale, si chiude con una domanda che si è fatta progressivamente avanti osservando le diverse anime dell’urbanistica newyorchese, e che ha trovato qualche conferma nelle analisi socioeconomiche sulla New York degli anni ottanta: esiste una doppia urbanistica così come esiste una città duale? Emerge il ritratto di una città sempre più polarizzata nella sua composizione sociale: da una parte un’élite ricca e potente, ben connessa e consapevole dei propri interessi, e tutto il resto dall’altra parte, una miriade di minoranze che rappresentano la stragrande maggioranza, un magma estremamente dinamico che ha in comune soprattutto la frammentazione sociale. La mia impressione è che a questo quadro sociale facciano da specchio le diverse anime della pianificazione urbanistica: queste, pur non potendo essere ridotte ad una banale dicotomia – come del resto anche la società nel suo insieme – sembrano descrivere un’urbanistica del potere e un’altra, eterogenea, che nasce dalle esigenze delle comunità e ritorna alle comunità. Queste ultime, debolmente e faticosamente, cercano di reclamare pari opportunità e pari considerazione rispetto alle élites, di ridurre le sperequazioni nelle scelte urbanistiche e nelle scelte politiche che riguardano l’intera vita sociale della città.

La seconda parte è dedicata agli approfondimenti, e indaga le condizioni sociali e politiche nelle quali si manifesta la partecipazione. Si inizia con i soggetti protagonisti della partecipazione: le comunità e le associazioni. È l’occasione per riflettere sul concetto di comunità e sul ruolo peculiare che hanno le associazioni nella società americana. L’attenzione si sposta poi sulle pratiche della partecipazione, ripercorrendo le origini e le motivazioni dell’ advocacyplanning. Chiude il capitolo un esame sulle forme che la partecipazione può assumere, indagando la relazione che intercorre tra pianificazione e potere. Anche questo capitolo fa ampio ricorso ad interpretazioni fornite da altri autori, attraversa i confini disciplinari dell’urbanistica per approdare nel più ampio campo delle scienze sociali, dove sembra trovare un significato più ampio e correlarsi al più esteso insieme delle politiche urbane e, con azioni complementari, perseguire obiettivi comuni.

La terza parte affronta l’argomento centrale del lavoro: come si manifesta l’urbanistica con le comunità nella città di New York? Dopo un breve richiamo alle origini del community planning negli USA l’indagine si sviluppa descrivendo le caratteristiche specifiche del planning newyorchese, le sue leggi, la sua storia e le sue applicazioni. Perché si fanno piani comunitari, a chi sono rivolti e chi coinvolgono, come si manifestano e quali sono i loro effetti concreti. Il capitolo si conclude esaminando le relazioni che intercorrono tra l’urbanistica e la programmazione economica, con una riflessione sulla spesa pubblica cittadina.

La quarta parte esamina alcuni esempi: si tratta di esperienze accomunate dalla partecipazione, ma che nascono e si sviluppano in contesti e con modalità anche piuttosto diversi tra loro. Il caso di Greenpoint a Brooklyn esamina un piano della “partecipazione ufficiale”, realizzato secondo le disposizioni della normativa comunale, interessante anche per la complessità dei temi trattati. Il piano di Melrose Commons, nel Bronx, descrive un’esperienza riuscita di opposizione ad un piano di rinnovo urbano progettato per la comunità – ma che l’avrebbe notevolmente danneggiata – e sostituito da un nuovo piano costruito con la comunità e con tutti (o quasi) i soggetti pubblici che a vari livelli rappresentano il quartiere, dalle associazioni ai politici. La proposta di piano per Hell’s Kitchen, a Manhattan, descrive un’esperienza relativamente più giovane e immatura, ancora in corso, e perciò più difficile da valutare. Ma è interessante per lo svolgimento del processo e per la collocazione dell’area: si tratta infatti della parte più ad ovest di Midtown, un’area dove è in atto un conflitto tra una comunità coesa ma debolmente rappresentata e gli enormi interessi immobiliari dei developers e dei proprietari fondiari che vorrebbero espandere nel quartiere il cuore finanziario della città. Il contrasto è accentuato dalle ipotesi di localizzazione nella stessa area di strutture sportive che ospiterebbero parte dei Giochi Olimpici del 2012 in caso di assegnazione alla città di New York.

2. Conclusioni

Lavorare con le comunità per favorire la rigenerazione urbana e accrescere la coesione sociale

Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.

Manuel Castells, Volgere di millennio

In questo lavoro abbiamo assunto la città di New York come un osservatorio privilegiato per comprendere le trasformazioni fisiche e sociali della città contemporanea. Qui si possono osservare in modo più evidente che altrove i fenomeni che caratterizzano il passaggio dalla società industriale a quella dell’informazione e dell’economia globalizzata. Attraverso la ricca letteratura disponibile abbiamo analizzato le principali trasformazioni urbane e i corrispondenti mutamenti economici e sociali, cercando di comprendere il ruolo che l’urbanistica ha avuto in questa vicenda.

Abbiamo così appreso come l’urbanistica pubblica e il mercato immobiliare siano state spesso alleate, e come un’ “altra urbanistica” abbia tentato di rappresentare le ragioni dei cittadini comuni, di promuovere percorsi di pianificazione più rappresentativi degli interessi della città e dei suoi abitanti. Abbiamo potuto constatare come l’urbanistica con le comunità proponga oggi un approccio alla pianificazione molto attuale rispetto alle questioni da affrontare, per molti aspetti anche più attuale di quando, negli anni sessanta, nacque l’advocacy planning. Se allora la sfida del community planning rientrava nei più ampi social movements per l’estensione dei diritti civili, ora la stessa sfida si fa più impegnativa, perché l’urbanistica partecipata è chiamata a contribuire al rafforzamento complessivo delle condizioni che favoriscono la coesione sociale, siano esse fisiche o relazionali.

Tuttavia, porre questioni attuali, evidentemente, non basta. Le trasformazioni socioeconomiche degli ultimi decenni non solo hanno favorito l’accentuazione delle disuguaglianze, ma hanno visto anche un progressivo indebolimento dell’attivismo sociale e politico, e dunque dell’elemento su cui principalmente si basa l’urbanistica con le comunità. Ci troviamo così di fronte ad una situazione paradossale: in un’epoca che registra la progressiva disgregazione dei legami sociali e la caduta dell’interesse per le questioni di pubblico dominio diviene maggiore la responsabilità delle istituzioni (pubbliche e private) che hanno finalità sociali. A maggiore responsabilità, però, non corrispondono adeguati strumenti.

Dalla lettura delle trasformazioni urbane degli ultimi quarant’anni, si osserva come città si è dovuta misurare con un processo di crescita e di trasformazione continuo e imponente, a causa del forte dinamismo economico e demografico seguendo, invece di organizzare preventivamente, il proprio sviluppo urbano. New York è allo stesso tempo l’immagine del liberalismo e dell’accumulazione dei capitali come dei suoi effetti secondari: forti disuguaglianze, situazioni di marginalità e di degrado, fanno da contraltare alla ricca città del commercio e della finanza. La forza economica del mercato immobiliare appare evidente ma, inaspettatamente, emerge un’importante componente pubblica nelle vicende di trasformazione urbana più importanti degli ultimi decenni. Ingenti finanziamenti pubblici hanno infatti sostenuto molte delle principali operazioni immobiliari private che hanno cambiato il volto della città, contribuendo ad accelerare la transizione verso la città della finanza e dell’informazione. Chi critica il sostegno pubblico a queste operazioni lo fa segnalando la contraddizione del sostegno al mercato più redditizio (degli uffici e delle residenze di lusso) a danno delle politiche di sostegno ai ceti più deboli (Fitch 1983). Questi ultimi risultano danneggiati sia direttamente dagli interventi realizzati, sia indirettamente, a causa della riduzione dei fondi per interventi di rigenerazione urbana delle aree più svantaggiate.

Gli abitanti di New York hanno talvolta contrastato le operazioni di rinnovo urbano, e dalle proteste spontanee si è sviluppato il community planning (Jacobs 1961, Angotti 2002). Emerge anche il contrasto tra due modi opposti di intendere l’amministrazione del potere: da una parte il verticismo decisionista e autoritario che ha visto uniti i poteri economici più forti (la FIRE Industry) e il potere pubblico, quest’ultimo abilmente condizionato dai primi attraverso strumenti di pressione come le fondazioni private (Fitch 1983). Dall’altra parte invece, una concezione della democrazia estesa, protesa verso l’estensione della rappresentatività, dell’inclusione di tutti i gruppi sociali (Davidoff 1965).

Uno sguardo sulla New York degli anni novanta evidenzia i fenomeni della polarizzazione sociale, economica e territoriale: le tendenze dei decenni precedenti si sono accentuate (Sassen 1997, Mollenkopf-Castells 1991). Nel multiverso economico e sociale della metropoli globale si riconoscono sempre più distintamente una élite economica ben organizzata che plasma i centri principali della città a sua misura ed immagine, così come si dota di nuove politiche e di nuovi strumenti funzionali al mantenimento dello stato delle cose. Basti pensare ai casi in cui, nei decenni trascorsi, a fronte di un disagio crescente nel fabbisogno della casa, venivano tagliati i fondi per l’housing e la rigenerazione di aree degradate mentre venivano finanziati quartieri per uffici e residenze di lusso nel nome dello sviluppo.

Alle scelte politiche degli ultimi decenni, che hanno guidato la transizione post industriale verso la global city e favorito lo sviluppo di una “città duale” (Mollenkopf-Castells 1991), fanno da specchio anche due diversi modi di intendere l’urbanistica: dalla parte del potere e dalla parte delle comunità.

Il fenomeno dell’advocacy planning, dell’urbanistica radicale schierata alla difesa degli interessi più deboli, ha radici antiche, che affondano nella stessa struttura sociale e politica degli Stati Uniti. Già Alexis De Tocqueville (1835) osservava come gli americani si distinguessero per la spiccata attitudine a formare associazioni della più varia natura, per affrontare problemi comuni. Egli rilevava come la proliferazione delle associazioni fosse anche una risorsa per la nascente e fragile democrazia americana, perché una solida e articolata pluralità di interessi, una solida società civile, avrebbero frenato gli abusi di potere da parte dei partiti o “del principe”. La forte concentrazione di interessi e di potere a cui assistiamo oggi smentisce in parte Tocqueville, ma non vanifica le sue analisi: la società civile ha tentato e tenta tuttora di opporsi alla “tirannide economica e politica”, e da essa nascono i movimenti per i diritti civili e il community planning.

Analizzando più in profondità la società civile emergono due soggetti di riferimento: la comunità e le associazioni. La comunità, oggetto dai contorni mutevoli e dai legami instabili, si pone come riferimento perché incarna l’idea di “bene comune”, di “locale”, di qualcosa che è più vicino ai cittadini di un generico interesse pubblico dato in delega ad altri (Etzioni 2000, Bauman 2001). La comunità tutela gli esclusi e chi non è rappresentato, è il riferimento di un pluralismo più esteso e più rappresentativo. La comunità richiama anche l’idea di coesione sociale, un patrimonio immateriale che è riconosciuto come elemento fondamentale per una società sana, aperta, fiduciosa, solidale, capace di prosperità economica (Fukujama 1996, Bagnasco 1999). Senza coesione sociale il prezzo da pagare è la disgregazione della città, la marginalità di ampie fasce di popolazione, l’indebolimento della fiducia reciproca necessaria per lo sviluppo economico.

Le associazioni, soprattutto quelle di tipo comunitario e del settore non-profit, sono a loro volta riconosciute come un fondamentale collante sociale (Dockerty, Goodland, Paddison). La loro inclusione nei processi decisionali e nelle politiche istituzionali è considerata altrettanto importante per l’attuazione di politiche di governance giuste ed efficaci. Molti studi affermano che le politiche e i piani di rigenerazione urbana che non considerano adeguatamente i soggetti destinatari e che non adottano processi partecipati rischiano di fallire i loro obiettivi (Dockerty, Goodland, Paddison). La seconda parte del lavoro ci suggerisce dunque che l’urbanistica con le comunità, se inserita nel contesto più ampio delle politiche urbane rivolte alla rigenerazione urbana assume un rilievo strategico, superando i confini angusti della gestione e ricomposizione dei conflitti sociali e della protesta.

La riflessione si conclude con qualche avvertenza circa il rapporto tra pianificazione e potere e circa le possibili mistificazioni del principio della partecipazione. Non è sufficiente che le istituzioni garantiscano la riproduzione della struttura sociale nei processi decisionali, poiché ciò significherebbe soltanto riprodurre gli squilibri di potere esistenti, senza garantire una effettiva influenza dei meno rappresentati. Inoltre, i decisori pubblici hanno la possibilità di favorire o di scoraggiare la partecipazione democratica, di informare o disinformare, di essere trasparenti o di manipolare le informazioni, condizionando l’andamento dei processi (Forester 1989). Per queste ragioni la partecipazione richiede la presenza costante e vigile delle associazioni che rappresentano i diversi gruppi sociali: la democrazia è “un meeting senza fine” (Polletta 2002).

La terza parte analizza le forme e i contenuti dei piani comunitari realizzati a New York. La maggior parte dei piani ha dimensione locale, prevalentemente alla scala del community district, il livello amministrativo locale più vicino ai cittadini. Possono essere settoriali o generali, promossi dalle comunità in autonomia o in associazione ad agenzie pubbliche. Si occupano di sviluppo economico, di rigenerazione urbana, di trasporti, di housing, di questioni ambientali, di zonizzazione e di funzioni urbane. Molti di essi hanno carattere informale, non codificato da una norma di legge; i più importanti fanno riferimento all’articolo 197-a dello Statuto comunale, che stabilisce il principio fondamentale per il quale associazioni di cittadini, attraverso i diversi organi amministrativi, possono promuovere piani partecipati.

A New York la lunga esperienza sviluppata dalle comunità con il sostegno di tecnici e università ha portato ad una naturale maturazione degli strumenti. I limiti alla loro efficacia e perciò alla loro diffusione sono da ricercare soprattutto nel debole sostegno da parte delle amministrazioni locali, nell’eccesso di burocrazia, nella difficoltà di legare i piani alla programmazione economica e al bilancio comunale. Ciò nonostante i piani comunitari hanno fornito l’opportunità di estendere la partecipazione civica nel governo locale e avvicinato i cittadini ai problemi del loro territorio.

Molto rimane da fare. Per la dimensione dei problemi di New York l’impegno di risorse economiche e umane dovrebbe crescere sensibilmente. Un aspetto strettamente correlato all’attuazione dei piani riguarda la programmazione economica e la gestione della spesa pubblica. I piani 197-a incontrano difficoltà sia nel reperire fondi per la loro formazione sia per il loro sviluppo operativo. Anche nel caso che siano utilizzati dalle amministrazioni locali per il loro scopo, come linee guida per l’attuazione di politiche e programmi di varia natura, spesso mancano fondi per l’attuazione dei programmi, fondi che provengono in buona parte dal bilancio comunale. Nei periodi di crisi finanziaria della città come quello attuale i tagli si abbattono soprattutto sul welfare, mentre la pressione fiscale privilegia le imprese rispetto ai cittadini. Gli osservatori più critici sostengono invece che il sistema fiscale e di spesa pubblica dovrebbe essere rivisto, alleggerendo la pressione sui ceti medi e accrescendo la spesa per il miglioramento dei servizi. In tal modo sarebbero poste le premesse per uno sviluppo più equilibrato e duraturo.

I tre casi esaminati nella quarta parte rappresentano altrettante diverse declinazioni dell’urbanistica con le comunità. Diversi per scale di intervento, per situazioni ambientali, per la natura degli strumenti utilizzati, questi piani hanno in comune l’approccio metodologico e le finalità generali. Si tratta naturalmente di piani che affrontano il tema della rigenerazione urbana con un approccio “dal basso”, vicino alle esigenze degli abitanti. Il principio guida è il coinvolgimento di tutti i gruppi sociali e portatori di interessi nel processo di pianificazione e di formazione delle decisioni. Il caso di Melrose Commons, nel Bronx, è quasi esemplare nel testimoniare come una progettazione che coinvolge attivamente i cittadini, gli operatori economici locali, i livelli istituzionali in un processo aperto e ben coordinato da una agenzia di sviluppo locale, può produrre risultati sensibilmente migliori sul piano della qualità progettuale e della adeguatezza delle soluzioni al contesto specifico. In questo caso poi, l’iniziativa è riuscita a trovare finanziamenti anche per sperimentazioni d’avanguardia nel campo della tecnica costruttiva e della sostenibilità ambientale. A proposito della sostenibilità sociale l’esito del confronto con le esperienze di rinnovo urbano precedenti è ancora più netto: se la storia parla di vere “diaspore” in seguito alla demolizione e ricostruzione di interi quartieri, qui al contrario, il processo di rinnovo è stato studiato accuratamente per evitare la dispersione, sulla base delle necessità degli abitanti.

Il piano 197-a di Greenpoint è interessante per i contenuti, per certi aspetti assimilabili a piani di indirizzo strategico o alle agende XXI, nel porsi come documento di riferimento per le politiche di sviluppo del distretto. Dato che i piani 197-a hanno carattere programmatico e non prescrittivo, il piano di Greenpoint è affiancato da proposte attuative coerenti che fanno riferimento ad altri strumenti tecnici e finanziari: dalle modifiche alla zonizzazione di piano ai programmi per la riconversione di aree industriali, ai programmi di housing pubblico.

Il piano per Hell’s Kitchen, difficile da valutare perché l’iter decisionale è ancora in corso, pone in evidenza due aspetti particolarmente interessanti: la proposta di piano partecipato del community board, prodotta con un processo durato anni, si contrappone ad un piano del Dipartimento di Planning cittadino. Dal confronto dei due scenari e delle loro argomentazioni il primo appare più sensibile alla difesa del tessuto sociale ed economico esistente e allo sviluppo di una città più articolata, con una maggiore attenzione alla vivibilità degli spazi pubblici. L’altro aspetto da rilevare è che qui si confrontano due modelli di sviluppo piuttosto diversi: le macrostrutture finanziarie e della grande distribuzione da un lato e il quartiere “a misura d’uomo” dall’altra. La sostituzione radicale del tessuto edilizio e sociale esistente si contrappone alla conservazione delle strutture e delle relazioni consolidate nel tempo e considerate patrimonio da difendere. Qui si confrontano, più che altrove, le due opposte espressioni della “città duale”.

Che senso ha, dunque, parlare di urbanistica con la comunità oggi a New York? Ha senso anzitutto come testimonianza di una precisa idea di governo e di democrazia: pluralista, trasparente, inclusiva di tutti i gruppi sociali. Un approccio nel quale al centro è la comunità, l’immagine di un più complesso orizzonte a cui guardare: la difesa della coesione sociale, la valorizzazione delle differenze, l’attivazione di politiche a sostegno dei gruppi sociali e delle aree più deboli, il riconoscimento del valore degli spazi pubblici come elementi essenziali per la vita della città. In sintesi, un approccio all’urbanistica che cerca il dialogo con la società urbana per difenderne i suoi stessi caratteri costitutivi e la sua straordinaria complessità.

La trasformazione economica e sociale di New York, come delle principali aree urbane dei paesi economicamente avanzati, segnala una tendenza opposta anche nelle pratiche prevalenti in campo urbanistico, come è illustrato nel secondo capitolo. La tendenza alla disgregazione del tessuto sociale nella forma in cui lo conosciamo e l’aumento delle differenze economiche pongono seri interrogativi ai quali non può certamente rispondere l’urbanistica né tantomeno una sua parte come il community planning, che conta su risorse modeste e si misura con una società sempre meno propensa a farsi carico delle questioni di interesse comune. Tuttavia le istituzioni non possono assistere passivamente: le scienze sociali individuano uno stretto percorso sul quale possono incontrarsi lo Stato, la società civile e le associazioni, anche nell’interesse del mercato.

La zona viva, all’interno della quale ricercare soluzioni che compensino sia la debolezza del welfare statale e dell’urbanistica pubblica che gli eccessi del mercato è forse la zona nella quale si identificano la comunità, il quartiere, il locale. Il luogo dal quale partire per cercare di ricucire nuove reti sociali e riprodurre il capitale sociale.

Il tratto emergente dell’urbanistica con le comunità consiste nell’aver raccolto e organizzato le reazioni dei cittadini nei confronti di trasformazioni urbane considerate inique o sbagliate, nell’aver dato voce ai bisogni di una parte della popolazione, generalmente la più povera e meno rappresentata.

L’osservazione delle interazioni tra istituzioni e comunità può essere molto utile per comprendere i fenomeni sui quali si interviene con le politiche e con i piani. Può anche essere utile agli estensori delle politiche pubbliche e dei piani urbanistici per valutare gli effetti sociali delle loro scelte, così come gli effetti economici indotti, non limitati all’intervento previsto. Può essere utile ai decisori – strumentalmente – per manipolare il consenso senza condividere realmente le decisioni e il potere, contrabbandando la partecipazione formale per una pratica di democrazia. Guardando gli effetti diretti delle esperienze di community planning è sufficiente analizzare l’ormai ricca letteratura prodotta dagli attori sociali (planners, comitati, associazioni, ecc.) o dagli studiosi per registrare i benefici – o almeno le aspettative – che questo tipo di pianificazione genera nel tessuto sociale della città. Con le avvertenze di considerarne anche i limiti: la debolezza intrinseca di questi processi, il rischio di cadere nell’ideologia e nel radicalismo, nell’illusione e nella disillusione, nella dispersione inutile di tempo, denaro e risorse umane.

In conclusione, sembra possibile descrivere almeno due distinte modalità di approccio al rapporto tra urbanistica e comunità: l’urbanistica con le comunità, ma anche l’urbanistica per le comunità. Intervistando Eva Hanhardt, già vice direttore dell’Urban Center della Municipal Art Society, le sottoposi un titolo possibile per la mia ricerca: Planning for communities, intendendo comprendere in quel titolo tutte le attività pianificatorie che considerano centrale la valutazione degli effetti sociali, e non si limitano agli aspetti strettamente tecnici o economici. Lei mi chiese se in italiano per avesse lo stesso significato del termine inglese for, e poi mi corresse: with communities, not for. La differenza era per lei sostanziale: per le comunità è l’urbanistica top-down; con le comunità è l’urbanistica bottom-up. La prima è quella dei cosiddetti poteri forti, inclusi gli enti pubblici, che pianificano in nome dell’interesse pubblico e dei cittadini ma non sempre tengono conto realmente delle loro esigenze e delle loro opinioni. La seconda, che spesso si contrappone alla prima ma che dovrebbe essere almeno complementare, è l’urbanistica che nasce nelle comunità, tra i cittadini che vogliono partecipare alle decisioni che riguardano il proprio quartiere e la propria città.

[1] È di uso comune definire con una sigla questo potere: FIRE, Finance, Insurance and Real Estate industry, (l’industria della finanza, delle assicurazioni e del settore immobiliare), forze trainanti dell’economia post industriale di New York.

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