22.03.2004
Urbani non ne dice una giusta
di Vittorio Emiliani
Il ministro dei Beni Culturali, Giuliano Urbani, è stato ospite sabato sera della bella, utile e spiritosa trasmissione di Fabio Fazio Chetempochefa. Doveva spiegare novità e pregi della legislazione promossa dal suo governo per il patrimonio storico e artistico e e per il paesaggio della Nazione, tutelati dalla Repubblica, secondo l’articolo 9 della Costituzione.
Per prima cosa ha detto che in basi alle leggi precedenti i beni culturali demaniali, pubblici, ecc. potevano essere venduti, infatti gli elenchi ora predisposti dall Agenzia del Demanio sono stati redatti in base ad un Regolamento del 2000.
Non è vero.
È vero invece che in base alle leggi Bottai del 1939 recepite nel Testo Unico del 1999 i beni immobili pubblici (perché di questi soprattutto si tratta) erano inalienabili in quanto tali. Infatti molti di essi, anche importanti, non vennero neppure sottoposti a vincolo perché non ve ne era bisogno essendo incedibili (fatte salve rare eccezioni). Poi, nelle votazioni alla Camera per la Finanziaria 2000, la Lega Nord infilò un emendamento che ribaltava questo principio: tutti i beni diventavano dunque alienabili, salvo eccezioni. L’ intero Polo (si presume anche Forza Italia e magari pure l’ on. Urbani) votarono quello sciagurato emendamento e, ahinoi, pure una parte dell’Ulivo. L’emendamento passò. Ma la Finanziaria doveva essere ancora vagliata dal Senato e le associazioni di tutela, il gruppo dei Verdi e altri sollecitarono l’allora ministro Melandri a rimediare a quella enorme falla. Il Senato votò un ordine del giorno che impegnava il governo a varare un Regolamento che ripristinasse il principio fondamentale (tutti i beni culturali pubblici sono inalienabili salvo eccezioni autorizzate dalla Soprintendenze) e normasse le eccezioni. Una commissione lavorò mesi. Produsse un testo approvato da tutti, compresi i Comuni e le Province divenuto il Regolamento n.283 emanato con decreto presidenziale Ciampi il 7 settembre 2000.
Cardine di esso: la predisposizione di elenchi da parte degli Enti pubblici proprietari di quei beni e il loro invio alle Soprintendenze Regionali le quali avrebbero operato entro 24 mesi le opportune integrazioni inserendoli nell’elenco previsto. Le richieste di affitto, di cessione in uso a privati, dovevano essere accompagnate da un piano di utilizzo dettagliato. Se il piano non fosse poi stato realizzato in modo adeguato, la Soprintendenza poteva revocare la cessione in uso.
Sabato sera Giuliano Urbani, dopo aver definito sciocchezze i due principi ricordatigli da Fabio Fazio (inalienabilità generale con eccezioni; alienabilità generale con eccezioni) ha vantato la superiorità del suo Codice sulle leggi precedenti. Senonché gli è scappato detto: «Prima si pensava di vendere. Oggi si vuole vendere». E ha calcato su quel si vuole. È Tremonti che vuole, per fare cassa. Altrimenti perché avrebbe creato la Patrimonio SpA, perché non tenersi stretto il Regolamento Melandri? Appunto perché si vuole vendere.
Allora, quali beni sono classificati inalienabili dal Codice e quali lo erano per le tanto spregiate leggi precedenti? Vediamo un po’. Secondo il Regolamento n.283, inalienabili erano: 1) i beni riconosciuti con legge monumenti nazionali; 2) i beni di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere; 3) i beni di interesse archeologico; 4) i beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche , cioè sedi o ex sedi di Municipalità, di Vescovadi, di Accademie, ecc.
Cosa resta nel tanto decantato (dal ministro) Codice Urbani? Restano i beni archeologici e gli immobili riconosciuti come monumenti nazionali. Sparisce però completamente il punto 2 e diventa molto vago il punto 4. Quindi c’è un palese indebolimento.
Ma Urbani ha aggiunto: stavolta gli elenchi li facciamo noi. Una mezza verità poiché li sta facendo l’Agenzia del Demanio e li invia al Ministero. Non ci sono più di mezzo gli Enti pubblici. C’è l’Agenzia del Demanio che vuole vendere e che dà un prezzo pure all’isola di Giannutri o alla Villa di Tiberio.
Vi è di più e di peggio: il ministro Urbani ha consentito che nel suo Codice venisse introdotto il congegno tremontiano del silenzio/assenso. Se le Soprintendenze non rispondono alla richiesta dell’Agenzia del Demanio nel termine di 120 giorni (che poi si riducono in realtà a 30), dando motivato parere, il loro silenzio equivale ad un si venda. Secondo il ministro, è un lavoretto da poco per le Soprintendenze. Secondo il soprintendente regionale delle Marche, Francesco Scoppola, uno dei più preparati, il nostro lavoro, soltanto per i beni demaniali, si moltiplicherà per sette. Poi c’è il condono edilizio voluto da Tremonti (al quale Urbani si è blandamente opposto). Un condono, ha ammesso, non è una bella cosa, ma col solito scatto d’orgoglio ha sottolineato: per la prima volta abbiamo escluso le aree protette. Altra mezza verità. E stata l’opposizione a costringerveli. Silenzio tombale di Urbani invece su di un altro punto-chiave del condono: per la prima volta vengono sanati anche abusi commessi in parte su suoli demaniali. Mai accaduto. Un altro varco aperto nella tutela. A quando condoni totali sul demanio marittimo, fluviale, ecc.?
E i Musei, diverranno privati? Urbani ha svicolato così: la proprietà dei Musei rimarrà pubblica. La proprietà, certo. Ma l’intera gestione diventerà privata. A cominciare dal Museo Egizio di Torino. Infine, una delle materie più roventi: i piani paesistici, la legge Galasso, i poteri di bocciatura delle Soprintendenze per i progetti deturpanti. Tutte le Regioni che lo vorranno, ha spiegato testualmente Urbani, potranno assumere piani paesistici che faranno aggio sui piani urbanistici. Prima, succedeva di più e di meglio: con la legge Galasso dell’85, le Regioni erano obbligate ad adottare piani paesistici cogenti e se non lo facevano, il Ministero con le sue Soprintendenze si sostituiva a loro. Come è infatti avvenuto in Campania e Calabria, come stava avvenendo, finché ci fu la Melandri al Collegio Romano, in Puglia e nella stessa Lombardia.
Dal 1° maggio, col Codice, il potere di bocciare un mostro paesaggistico non ci sarà più. Le Soprintendenze saranno chiamate a dare un semplice parere, preventivo e consultivo, sull’autorizzazione comunale. Poi saranno disarmate. Giustificazione di Urbani: tanto, quelle bocciature le cancellava sistematicamente il Tar.
Non è vero: su 3.000 bocciature di media all’anno, quelle importanti rimanevano tali. Irrevocabilmente. In certe regioni rimanevano tutte valide.
I costruttori più disinvolti e rapaci staranno brindando. Difatti il progetto di legge urbanistica di cui è relatore l’on. Lupi (FI) promette di peggiorare il Codice Urbani e pare che stia incontrando consensi pure fra deputati dell’opposizione. Si gradiscono smentite.