Sulla figura di David Packard, filantropo americano innamorato dell'Italia e desideroso di contribuire alla salvaguardia del suo patrimonio, in anni recentissimi, dopo un decennio di oblio, si sono accesi riflettori e riconoscimenti.Ma negli anni precedenti, quando ad esempio Pompei era precipitata nel caos dei commissariamenti e dei crolli (2008-2011), da parte dello stesso Ministero dei Beni culturali si preferiva continuare ad ignorare il modello dell'Herculaneum Conservation Project. Il Progetto, finanziato dalla Fondazione Packard a partire dal 2000 per il recupero del sito vesuviano. La novità di quell'esperienza consisteva nel fatto che il finanziatore non si limitava a fornire le risorse economiche, ma affiancava gli organi di tutela italiani nelle loro attività scientifiche e gestionali con figure professionali da lui prescelte che, di concerto con i funzionari della Soprintendenza, elaboravano i progetti e li gestivano.
È un meccanismo che ha funzionato bene per molto tempo come dimostrano i risultati che ha prodotto, apprezzabili da tutti i visitatori dell'area archeologica, in termini di recupero e consolidamento di strutture e infrastrutture, di riapertura di domus e di una migliore conoscenza della città antica.
Da un paio d'anni, quasi improvvisamente, il modello Packard è diventato di gran moda anche ai piani alti del Mibact, quando, cioè, è ripartita la campagna del "privato è meglio", rinvigorita, dopo un lustro di tagli di bilancio selvaggi, dal mantra ossessivamente ripetuto secondo il quale "lo Stato non può fare tutto da solo, quindi, largo agli sponsors".La caccia al mecenate, sponsor, donatore (le emergenze politiche amano la flessibilità lessicale) che ne è derivata - da cui la strombazzatissima legge sull'Art Bonus - aveva bisogno di esempi virtuosi e la Fondazione Packard ha così conosciuto, nel nostro settore, il suo momento di gloria mediatica.
Ciò che non funzionava se non come caso di nicchia all'epoca dei Bertolaso boys e dei commissariamenti dei siti culturali - da Pompei a Roma, a L'Aquila - improvvisamente è diventato un modello esportabile senza eccezioni. E senza riflessioni.
In pochissimi (peraltro gli stessi ad averla apprezzata in tempi non sospetti) abbiamo cercato di sottolineare la particolarità di quell'esperienza, la cui riuscita dipende anche e soprattutto da elementi contingenti, non ripetibili, mentre sul piano del metodo istituzionale presenta, al contrario, qualche criticità.Permettere che a decidere delle sorti di un sito culturale pubblico sia un organismo misto, per metà costituito da persone che vi risiedono per volontà - e forza economica - di un soggetto privato è un azzardo che, come testimonia la grande maggioranza delle Fondazioni culturali in Italia, ha condotto a risultati pessimi. È, comunque, una delega di funzioni pericolosa sul piano scientifico e perdente su quello istituzionale (e costituzionale...). Anche nei casi che partono con le premesse migliori, come è questo di Ercolano.
A parte la scelta - un po' provinciale - dell'archistar di turno per la costruzione del futuro museo, questa vicenda rivela i rischi che si presentano quando il pubblico abbandona funzioni che, per complessità, è il solo a poter governare. Criticabile, in questo caso, è la decisione di costruire ex-novo - proprio ad Ercolano, e quindi in un contesto urbanistico di delirio edilizio - senza prendere in considerazione la possibilità di recupero di strutture già esistenti, fra cui quella creata proprio per ospitare l'antiquarium ercolanense.
Vicenda italica per eccellenza, quella dell'edificio museale costruito e collaudato nei primi anni '70, di buona qualità architettonica e poi abbandonato a se stesso, per decenni (Corriere del Mezzogiorno del 23/07/2010).Per non parlare di altri edifici di grandissima qualità, quali la Reggia di Portici, per i quali già esistono i progetti finalizzati ad un uso museale. Ma certo riadattare e recuperare l'esistente suona meno glamour per l'etichetta di "Museo Packard" rispetto ad un edificio creato ad hoc.
Altro aspetto criticabile deriva dall'evidenza che, ad Ercolano come altrove, su di un intervento non irrilevante per il contesto urbanistico come è la costruzione di un edificio museale, ci dovrebbe essere un processo un po' più articolato e allargato rispetto alla sola volontà, pur rispettabile, del magnate di turno. Anche perchè le risorse coinvolte, a partire dal suolo pubblico, per non parlare del contenuto del museo stesso, non derivano dalla munificenza del mecenate, ma sono, appunto, pubbliche.
L'episodio, pur marginale, del museo vesuviano, illustra bene alcuni aspetti della nostra contemporaneità: a partire dalle distorsioni che governano la gestione del nostro patrimonio culturale.
Oltre e forse ancor più che le risorse economiche, ciò che è stato programmaticamente affossato, in questi ultimi decenni, è l'autorevolezza del personale, dei suoi tecnici e funzionari: la vera forza motrice, la colonna vertebrale di un sistema complesso che, seppur bisognoso di aggiornamenti e riforme reali, non meritava una liquidazione frettolosa ed estemporanea quale è quella che sta avvenendo in questi anni. Pensare che il ricorso a privati taumaturghi possa risolvere la crisi in atto è illusorio e pericoloso, anche se purtroppo perfettamente in linea con l'attuale deriva sociale che vede noi cittadini sempre più disponibili a deleghe in bianco all'uomo della provvidenza, sia esso il mecenate, l'archistar o il premier di turno.
Al contrario, come altrove anche nel settore culturale occorre ricostruire una cultura istituzionale (anche solo amministrativa, ci contenteremmo) che sappia elaborare regole precise disegnando i perimetri d'azione dei diversi ruoli e presidiando lo svolgimento di progetti e iniziative con rapidità e competenza. Senza concedere o addirittura teorizzare, come accade sempre più spesso, invasioni di campo da parte del privato, anche animato dalle migliori intenzioni filantropiche: non per ottusa rivendicazione di un ruolo fine a se stesso, ma perchè è solo ad un determinato livello - quello del governo della cosa pubblica - che vi sono (dovrebbero) essere le competenze e le risorse per una visione d'insieme che sappia tenere insieme esigenze diverse e complesse.
Il ruolo del privato è importante e funziona benissimo, così come dimostrano le esperienze di altri paesi, quando affianca il governo pubblico allineandosi ad un percorso preventivamente e compiutamente definito da quest'ultimo, così come è accaduto, ad esempio, nel caso del restauro della Piramide Cestia a Roma o nella recentissima e democratica operazione di crowdfunding lanciata per il restauro del Battistero di Firenze. Là dove assume un carattere "indispensabile", diventa la spia di una falla che va recuperata in fretta, prima che diventi una voragine.
Non ci sono soluzioni alternative, se non velleitarie, alla costruzione di una politica culturale complessiva, all'interno della quale il rapporto fra pubblico e privato possa dispiegarsi con modalità più chiare e soprattutto più efficaci per la gestione del nostro patrimonio culturale di quanto avvenuto finora.In mancanza di un'elaborazione di questo tipo, capace di esprimere, innanzi tutto, cosa si vuole fare dell'insieme del nostro patrimonio culturale, con che mezzi, verso quali obiettivi, nessun Decreto Art Bonus - come sta puntualmente avvenendo - potrà innescare un meccanismo virtuoso di cooperazione fra pubblico e privato.
Nel frattempo, mentre aspettiamo l'emanazione di questa politica culturale, già sarebbe un successo l'allentamento della tendenza ormai prevalente, a concentrare le risorse - pubbliche o private - verso l'evento e l'inaugurazione, e, in generale, verso tutto ciò che si presta ad un rilancio mediatico.
Dalla grande mostra, all'arena dell'anfiteatro, al nuovo museo disegnato dall'archistar.
Per il momento, non resta che augurarci che il futuro museo di Ercolano, almeno, non sia #verybello.