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Paolo Conti
Un Milione di Italiani a Rischio sulle Montagne Abbandonate
5 Febbraio 2014
Post 2012
«Investire sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi per la sicurezza del territorio».

«Investire sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi per la sicurezza del territorio». Corriere della Sera, 5 febbraio 2014

«L’abbandono delle aree collinari e montane è un fenomeno drammatico sia per la società che per l’equilibrio geologico del nostro Paese. Fino a vent’anni fa gli abitanti provvedevano alla manutenzione ordinaria del territorio, in alta collina e in montagna. C’erano le colture dei contadini i quali poi provvedevano a molte opere di manutenzione semplicemente perché amavano farlo, rientrava nella loro cultura. Aggiungiamoci il lavori dei consorzi di bonifica, e nel Mezzogiorno d’Italia la politica democristiana che portò a una forte forestazione. Tutto questo è finito, le aree collinari e montane si sono spopolate. Le aree non vengono più curate. Questa è la ragione di ciò che stiamo vedendo: l’aumento esponenziale dei disastri, appunto, in collina e montagna».

Giuseppe De Luca, segretario generale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, studi alla London School of Economics, professore associato di Urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, sostiene che sia impossibile occuparsi di ciò che sta a valle (le città e i grandi insediamenti industriali), soprattutto quando si analizzano le ragioni tecniche delle alluvioni e delle inondazioni, «se non si governa ciò che sta alle spalle, ovvero le alture». Le cifre parlano chiaro. Secondo uno studio del Dps, Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, molte zone considerate periferiche e ultra-periferiche (superiori ai 600 metri di altezza) dal 1971 si sono letteralmente spopolate.

Qualche dato tra i più evidenti. In Emilia-Romagna -52% della popolazione, nel Molise -46.9%, nel Veneto -33.3%, in Liguria -34,3%. E basta un pensiero ai terrazzamenti abbandonati in Liguria, caratteristica di quella regione, per capire il perché di frane e smottamenti. Il saldo finale della media italiana è -8.1% di popolazione nelle aree periferiche e -5.3% nelle aree ultra-periferiche. Un mutamento epocale non solo della società italiana, della sua economia diffusa, ma anche di un secolare approccio verso il territorio, soprattutto in un Paese in cui il territorio nazionale è per il 75% montano-collinare. Le conseguenze, in queste ore di nevicate e di intemperie, sono tangibili. Nelle aree collinari e montane tutto sembra diventato più difficile, anche garantire soccorsi. E soprattutto proseguire un’attività industriale, vista la quantità di continui smottamenti e frane.

Secondo i dati dell’Ispra, l’istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, la popolazione esposta a fenomeni franosi ammonta a 987.560 abitanti, tutti appunto nelle aree montano-collinari. Quasi un milione di italiani vive, insomma, nell’incubo quotidiano di un cedimento del territorio in cui ha organizzato la propria esistenza. Spiega il geologo Alessandro Trigila, responsabile del progetto Iffi (Inventario fenomeni franosi in Italia) dell’Ispra: «I fattori antropici hanno un ruolo sempre più determinante nell’aumento delle frane collinari e montane. E non c’è solo l’urbanizzazione, con le strade o gli scavi o la quantità di edifici. C’è da mettere nel conto la mancata manutenzione del territorio e delle opere di difesa del suolo. Un ottimo rimedio per le frane più superficiali è nelle opere di ingegneria naturalistica a basso impatto ambientale. Interventi realizzati con un sistema misto di piante, legno e pietra che consolidano il territorio in modo ben più vasto e diffuso delle opere in cemento».

Che fare nel futuro? Come restituire alle zone collinari e montane una loro vivibilità sottraendole al pericolo ambientale? La parola d’ordine è, come diceva Trigila dell’Ispra, tornare agli strumenti più naturali che si rivelano poi i più economici, oltre che i più rispettosi dell’ambiente. Afferma Marco Flavio Cirillo, sottosegretario al ministero dell’Ambiente: «Investire per esempio sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi tra le 5 e le 20 volte, a seconda delle diverse situazioni, rispetto a quelli che si dovrebbero sostenere per realizzare opere con funzione protettiva. Sulle Alpi svizzere le foreste svolgono una funzione in termini di tutela della sicurezza del territorio comparabile a quella di infrastrutture il cui costo e manutenzione è stimato in 85 miliardi di euro». E dove trovare i soldi? Una proposta viene dall’Uncem, Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, presieduta da Enzo Borghi che afferma: «L’unico sistema percorribile è quello sperimentato già in Piemonte. Prevedere che una quota della tariffa pagata dai cittadini per il servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura, depurazione) venga destinata a interventi per la prevenzione del dissesto idrogeologico affidati agli enti locali, che ben conoscono i territori, in accordo con le Regioni. E non da inutili nuove agenzie nazionali...». Sempre dall’Uncem, vero «sindacato della montagna», arriva un altro dato. In vent’anni in Italia i boschi sono aumentati del 25-30%. Ma si tratta di boschi spontanei e invasivi, frutto dell’abbandono delle aree, che compromettono zone coltivabili. Dice un documento Ucem: «Mancano piani forestali per una gestione dei boschi con tagli regolari ogni 25-30 anni, eliminando quelli invasivi e valorizzando la filiera bosco-legna-energia». Risultato operativo: l’Italia importa il 70% del legno che usa mentre i boschi montani aumentano, creano danni all’agricoltura e non tutelano il territorio. Inutile aggiungere altro.

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