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Nello Ajello
Un industriale tra i libri
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
Sabato 21, al Teatro dei Filodrammatici di Milano, si tiene “un convegno sull’esperienza Olivetti che ha concorso a un primato dell’impresa italiana nel mondo con ricerca, innovazione, un management rispettoso dei lavoratori e del contesto sociale”, con interventi di Nerio Nesi, Franco Tatò, Bruno Trentin, Nello Ajello, Renatu Soru, Luciano Gallino, Furio Colombo, Franco Ferrarotti. Da la Repubblica del 19 febbraio 2004, la relazione di Nello Ajello

Adriano Olivetti è stato un appassionato editore. Quella di disegnare riviste e progettare libri era un’attività che si armonizzava con i suoi interessi in campo industriale, politico, estetico, associativo. Il suo bisogno di diffondere idee e programmi si concretava, spesso, nella nascita di un periodico o di una collana editoriale: non è esagerato sostenere che il suo fervore inventivo si manifestasse, di pari passo, in fabbrica e in tipografia.

Già all’inizio del 1937, poco prima di assumere la presidenza della società d’Ivrea, l’ingegnere Adriano licenziava le bozze di stampa del primo numero della rivista Tecnica e organizzazione. Temi importanti del periodico erano l’analisi della struttura organizzativa delle imprese, lo studio dei perfezionamenti tecnico-produttivi, l’assistenza sociale, l’architettura industriale, l’istruzione professionale. Si delineava già quell’insieme di interessi culturali che avrebbe richiamato l’attenzione dell’imprenditore nei decenni successivi.

E’ del marzo 1946, dopo una gestione iniziata nei mesi della Liberazione, la nascita di Comunità, la rivista in cui le questioni che appassionavano l’imprenditore si sarebbero articolate in un ampio ventaglio interdisciplinare. L’elenco delle rubriche di cui si componeva questo quadrimestrale - politica, economia, urbanistica, architettura, filosofia, narrativa, poesia, arti figurative, cinema - può dare il senso della ricchezza del progetto. Esso era tenuto insieme da un’ispirazione di base, che andava precisandosi nelle opere dello stesso Adriano Olivetti: L’ordine politico delle comunità, che è del 1947, e Società, Stato, Comunità, uscito cinque anni più tardi. Ciò che l’industriale di Ivrea aveva in mente era una politica d’un timbro particolare, che non si riconosceva nei partiti tradizionali e tendeva a collegarsi con i movimenti d’opinione e le realtà associative locali. Al fondo delle sue concezioni, e del Movimento da lui creato, c’era la Comunità come cellula primaria dell’organizzazioine statuale. Essa - per dirlo con Geno Pampaloni, che fu per oltre un decennio un intellettuale «organico» dell’olivettismo - era «l’espressione compiuta del radicamento dell’uomo al paesaggio e al tema della sua vita». Questa ideologia, pur presente, non faceva di Comunità in quanto rivista un veicolo di tesi esclusive, ma piuttosto un punto d’incontro di varie istanzi civili: laiche, cattoliche, socialiste.

Ad animare questo concerto di voci contribuivano da un lato il fascino personale del fondatore, dall’altro la qualità dei collaboratori a lui subentrati nella direzione o nella cura del periodico: da Giorgio Soavi a Renzo Zorzi, un veneto taciturno e pacato, colto e tenace, che l’avrebbe diretto per molti anni anche dopo la morte di Olivetti. La redazione era composta da Pier Carlo Santini, Egidio Bonfante - scomparso appena la settimana scorsa - e L. Di Malta; e i collaboratori andavano da Franco Ferrarotti a Paolo Portoghesi, da Norberto Bobbio a J. K. Galbraith, da Jurgen Habermas a Isaak Singer. L’attenzione all’aspetto grafico della rivista s’accordava con quel nitore estetico che distingueva la "comunicazione" olivettiana, sia nel campo progettuale (il design) che in quello pubblicitario.

Di lì a poco, Comunità diventa una casa editrice. Anche qui, la gestazione è stata lunga e graduale. Fin dal 1943, l’imprenditore canavesano ha dato vita alle Nuove Edizione di Ivrea, un marchio di breve durata che riesce però ad assicurarsi i diritti di importanti testi stranieri. Ora, in vista delle edizioni di Comunità, Olivetti fa ricorso a una suggestiva trama d’ingegni: da Bobi Bazlen a Ernesto Bonaiuti, da Alberto Carocci a Leonardo Sinisgalli, a quel Luciano Foà che vent’anni più tardi fonderà la Adelphi.

Ai testi di urbanistica, di sociologia politica, di filosofia aziendale cominciarono ad affiancarsi, nel catalogo, le opere di spiriti religiosi come Soren Kierkegaard, Simone Weil, Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, Martin Buber, Nicolaj Berdiaev. Un apostolo terzomondista come Albert Schweitzer s’inseriva in questo quadro accanto a un pioniere industriale del rango di Frederik Winslow Taylor, a un urbanista come Lewis Mumford, a uno scienziato della politica come Giuseppe Maranini.

Direttore, nel ‘37, del piano regolatore della Val d’Aosta, Adriano Olivetti entrò nel consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica fino a diventarne, nel ‘50, presidente. Ma già da un anno aveva assunto la direzione della rivista dell’Istituto, intitolata appunto Urbanistica. Questa parola e questa disciplina erano intese - citiamo sue parole - a «colmare il "distacco" tra la cultura e lo Stato, tra Paese e Governo». «Cultura e Paese - egli sosteneva - reclamano la fine del disordine, la protezione della salute e dell’incolumità personale, l’eliminazione degli sprechi e dei rumori, il pieno impiego, l’unità armonica della vita».

Intorno alla capofila -perché tale restava Comunità - si andò presto formando una costellazione di periodici delle più varie specializzazioni, dalla Rivista di filosofia, diretta da Norberto Bobbio e poi passata editorialmente alla Einaudi, a Metron Architettura, da Architettura-cronache e storia fino a Selearte, l’agile rivista di informazione artistica diretta a Firenze da Carlo Ludovico Ragghianti. Nel 1955, finanziato da Olivetti, esordiva L’Espresso, frutto di una lunga riflessione: inizialmente, l’ingegnere Adriano, d’accordo con Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari, pensava a un quotidiano, sorretto dall’alleanza di varie "firme" industriali, ma poi si scelse la periodicità settimanale, economicamente meno impegnativa. Nei tardi anni Cinquanta, Olivetti chiese a Carlo Caracciolo - che dell’Espresso possedeva una piccola quota - di subentrargli nel controllo del settimanale (oltre che della maggiore fra le testate di architettura nate intorno al movimento di Comunità). L’industriale di Ivrea fu dunque il creatore di un gruppo editoriale che si sarebbe, col tempo, ramificato e consolidato.

In un campo assai diverso anche il mensile meridionalista Nord e Sud, diretto da Francesco Compagna, s’era giovato, nascendo a Napoli nel 1954, dell’appoggio finanziario erogato, in varie forme, dalla Olivetti e dal suo capo. A me, proveniente da quella esperienza napoletana, toccò di partecipare, fra il ‘57 e il ‘58, a una delle ultime iniziative editoriali olivettiane: un settimanale, con redazione a Torino, intitolato La via del Piemonte: regione, quest’ultima, nella quale l’ingegnere di Ivrea si presentava candidato al Parlamento (venne eletto, e più tardi gli subentrò, nel seggio, Franco Ferrarotti). Ma, in corrispondenza con lo spirito insieme ideale e pragmatico del suo fondatore e patron, la prospettiva elettorale non esauriva gli interessi del settimanale diretto da Geno Pampaloni. Ricordo, in redazione, Giovanni Giudici, Stefano Petrovich, Giulio Crosti, Carla Perotti, e fra i collaboratori Carlo Fruttero, Luigi Carluccio, Massimo Fichera, Antonio Spinosa, Valerio Castronovo: una piccola rappresentanza di coloro che Adriano Olivetti associò, lungo i decenni, alla sua multiforme avventura, all’interno della quale l’editoria assunse uno spazio privilegiato.

Una lista delle persone che egli chiamava intorno a sé, coinvolgendoli nei suoi progetti, rischia di diventare interminabile o lacunosa, fra letterati, urbanisti, architetti, grafici, designer, esperti di edilizia popolare, giornalisti, analisti della politica, studiosi di problemi meridionali (e qui torna alla memoria Riccardo Musatti, autore di un saggio pieno di intuizioni e speranze, La via del Sud, e poi direttore dell’ufficio pubblicità e stampa della Olivetti). Sull’affluenza degli intellettuali in azienda, sotto Adriano, si è fatta molta letteratura. Non apparirà comunque retorica l’etichetta di «ex olivettiani», di «adrianèi» della quale tanti si sono fregiati o a volte ancora si fregiano, riconoscendosi fra loro. In nome di una remota, contagiosa utopia.

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