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Lodo Meneghetti
Ultime note sulla casa
14 Febbraio 2017
Lodovico (Lodo) Meneghetti
A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni..

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni... (segue)

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni. Le storie crudeli dei raccoglitori di frutta e verdura nel meridione costretti a vivere quasi senza alcun riparo o, al meglio, in accampamenti di lamiera, cartone ed eternit residuale, ci hanno raccontato persino di sangue e di morte. Casi di infima minoranza, ci dicono istituzioni e popolazioni, locali e no. Ancor meno di quelli riguardanti i Rom, episodi che pure non hanno ceduto molto ad altri in materia di rischio vitale per persone e famiglie. Fra le comode dimenticanze («è passato tanto tempo…»): l’incendio accuratamente completo dell’insediamento di Opera (comune confinante con Milano), appiccato da cittadini razzisti scatenati dall’odio e dal rancore verso l’altrui «diversa» esistenza stessa.

B.- Detratto tutto questo ma anche quanto del rimanente non conosciuto nel modo di abitare dei residenti italiani e stranieri (ora circa 5 milioni) sia presumibilmente non conforme a misura e qualità richieste dalla partecipazione di tutti al processo sociale che distingue il nostro paese, dobbiamo per l’ottava volta (dunque il settimo sigillo non ha sancito il compimento!) richiamare l’attenzione di eddyburg al problema della casa[i]. Infatti, nessuno qui si pone dalla parte menzognera di un’idea di mercato iper-liberistico già attuato o prossimo all’esclusività: «lasciato a briglia sciolta il mercato trova esso la piena soddisfazione del problema». Lo proponiamo invece secondo una concezione sorta nell’immediato dopoguerra e cresciuta nella realtà degli anni Sessanta, per diventare concreto obiettivo (illusorio non solo per i liberisti antemarcia): la casa per tutti, parallelamente al lavoro per tutti.

C.- Riprendiamo in mano un opuscolo 15x21 di trenta pagine con una bella copertina gialla edito a Milano da Gőrlich nel 1945, macerie dei bombardamenti ancora fumanti. È quel fiducioso entusiasta di Piero Bottoni l’autore (iscritto al Pci dal 1944, tra parentesi). Il titolo: La casa a chi lavora[ii]. Carta povera, da dopoguerra; bel carattere, bodoniano; stampa chiara, forte; il meglio possibile dati i tempi. La finta fascetta stampata sulla copertina reca l’assunto: «L’abitazione non più oggetto della speculazione individualistica, ma servizio della vita collettiva. L’abitazione, come l’alimentazione, diritto base dell’uomo sociale derivante dal dovere del lavoro. “L’assicurazione sociale per la casa”, la nuova previdenza atta a garantire vita natural durante a tutti i lavoratori l’uso di un’abitazione confortevole e sana».

D.- Per un cittadino d’oggi insaccato nel neoliberismo queste affermazioni di principio parrebbero oscure, incomprensibili o, se capite, pericolose. Ad ogni modo il testo resta un saggio di inquadramento di diversi temi urgenti (fra cui una prospettiva di capovolgimento nel campo urbanistico ed edile) che s’involgono intorno alla questione centrale; e se non approderà alla reale attuazione del progetto più che previdenziale, influirà di qualcosa sulla costituzione dell’Ina-casa, sullo sviluppo degli Istituti autonomi per le case popolari (Iacp) e, nell’immediato, sui criteri di assegnazione degli alloggi «sinora al di fuori dei “diritti del lavoro”»: infatti, «la crisi degli alloggi per il popolo già prima della guerra esisteva per un complesso di cause» fra le quali la negazione di un diritto «derivante… dal dovere del lavoro» accompagnata dall’«assoluta indipendenza di luogo fra gli organismi del lavoro e le abitazioni per i lavoratori… e un assoluto agnosticismo dell’industria nei confronti del problema sociale della casa».

E.- La relazione originaria fra dovere e diritto approderà a un principio basilare della sinistra sindacale e politica, l’identificazione dei due diritti, al lavoro e alla casa; ma solo dopo che il primo, scolpito fra le più chiare rivendicazioni dell’Assemblea costituente e premessa alla definizione del primo articolo della Costituzione, pareva conquistato una volta per tutte al momento del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963), manifesto di un sensibile spostamento di reddito dal capitale/profitto al lavoro/salario. La rivendicazione del diritto alla casa non apparteneva alla tradizione culturale dei sindacati. Quando Bottoni pubblicò il suo progetto, la loro rifondazione non era compiuta, le propaggini disastrate della struttura corporativa fascista non poteva non averla ritardata. Così fu lui, architetto già impegnato nella ricostruzione materiale e morale del paese (anche consultore nazionale della Camera dei deputati nel 1945-46) ad arrivare primo nel porre sul tavolo delle misure urgenti quelle dell’abitazione per tutti, aprendo un orizzonte sconosciuto nel campo dei diritti. Che i «tutti» fossero lavoratori pareva scontato (in realtà famiglie di lavoratori, secondo il modello una famiglia = un alloggio adeguato).

F.- Furono invece i sindacati, seppur in ritardo rispetto alle lotte per i contratti, a organizzare il primo e poderoso sciopero generale «per la casa», 19 luglio 1969 (preceduto il 3 dallo sciopero operaio di Torino chiuso dal lungo scontro in corso Traiano fra manifestanti e polizia) e a indicare un obiettivo più radicale, emblematizzato dall’espressione «casa uguale a servizio sociale». Si saldavano in uno i due diritti e si aprivano speranze di nuove costruzioni sociali e politiche. Inoltre la parte più avanzata dei movimenti di opposizione traeva da «casa e lavoro» una nuova rivendicazione di straordinario valore sociale e politico: il diritto alla città. Il libro di Henri Lefebvre, Le droit à la ville era stato pubblicato in Francia nel 1968[iii], prima del maggio. «Questo diritto… non può che formularsi come diritto alla vita urbana trasformata dal superamento delle leggi del mercato, del valore di scambio, del denaro e del profitto».[iv] Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis ricupererà il principio lefebvriano davanti a una Venezia in corso di spopolamento irreversibile e in vendita, anzi venduta a un turismo internazionale incolto, cieco, distruttivo. La stessa civiltà urbana è in pericolo, e potrebbe travolgere l’intera società umana[v].

G.- Al di qua dell’ipotesi rivoluzionaria dello storico e sociologo francese, all’epoca poteva essere ancora viva e crescere la speranza che la città confermasse e arricchisse la capacità di assicurare a uomini e donne il lavoro e l’abitazione. Intanto il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava importanti programmi per l’abitazione pubblica nella città industriale accettava che il capitalismo moderno urbano dovesse sostenere la riproduzione, di cui componente fondamentale era l’abitazione adeguata al bisogno, per assicurarsi un buon andamento della produzione. Quando la globalizzazione ridurrà in briciole le precedenti coerenze economiche e sociali, il capitale potrà dislocare la produzione ovunque, muovere i lavoratori a piacere usufruendone la riproduzione, ma fregandosene di farli abitare degnamente.

H.- Gli Istituti autonomi avevano agito in conformità alla situazione politica. L’Iacpm (milanese) fin dal primo Novecento distingueva il capofamiglia lavoratore come assegnatario dell’abitazione: prevalentemente operaio (67% 1909-10; 58 % 1919-20) fino a che la logica fascista non cominciasse a privilegiare altri ceti (1923-24, operai 49,6%; 1926-27, operai 46,8%)[vi], allineandosi con le disposizioni del Testo unico 1919 che nel campo dell’edilizia popolare stabiliva condizioni molto favorevoli alla classe media (appartamenti anche da dieci stanze!). Nell’immaginario catalogo delle realizzazioni negli anni Trenta a Milano, periferiche ma non tutte ristrette e mediocri per forma (Iacp era già diventato Ifcp, Istituto fascista case popolari), emerge il quartiere Fabio Filzi, in Viale Argonne, noto esempio di un nitido razionalismo milanese sia per impianto urbanistico sia per l’architettura (Albini, Camus e Palanti, 1935-38). Nel secondo dopoguerra e nei successivi decenni l’Istituto sarà presente anche con altri istituti come il Comune e l’Incis nella costruzione di nuovi quartieri. Sarà Il QT8, quartiere sperimentale dell’ottava Triennale (1947) progettato da Bottoni dal 1945 insieme al parco del Monte Stella, capolavoro di architettura naturalistica, a mostrare l’alta qualità urbanistica e architettonica a cui può giungere la quartieristica popolare. Solo alla fine degli anni Cinquanta un'altra realizzazione di Iacp e Incis, il quartiere Feltre prossimo al fiume Lambro (confine orientale del comune), progetto di diversi architetti coordinarti da Gino Pollini, presenterà una bella abitabilità.

I.- La stragrande parte degli insediamenti saranno deludenti per ubicazione anti-urbana, disegno d’insieme e degli edifici, né potranno rispondere almeno quantitativamente alla domanda di casa d’affitto a canone controllato. Non sarà unica responsabile la soppressione degli Iacp (che comincerà dal 1977) e la loro trasformazione in aziende: Ater la sigla, cioè Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, il territorio sarà quello della regione; la prima lettera del nome potrà sostituire la t di territorio (in Lombardia, Aler, che gestirà anche l’edilizia sociale del Comune fino a che sarà da questi affidata a Metropolitana Milanese). Eloquente l’abolizione del termine popolare e la sostituzione di istituto con azienda. Che infatti non nasconde la voglia di privatizzazione, non tanto «giuridica» quanto per il modo di amministrare e per quale scopo. Si comincerà col privatizzare il patrimonio privilegiando la proprietà dell’alloggio contro l’originaria funzione sociale dell’affitto, si venderà non solo agli inquilini presenti ma anche sul mercato generico, si lasceranno peggiorare le condizioni di degrado; talvolta ne approfitteranno gestioni di tipo mafioso speculando su occupazioni abusive di famiglie senza casa. Bisogna ricordare che la Lombardia era ed è governata dalla destra (Lega e alleati). Ugualmente il Comune di Milano, amministrato a lungo da Forza Italia e alleati prima del tardo centrosinistra, non poteva esprimere alcun interesse a contrastare le immobiliari, per condivisione dei principi neoliberisti fautori della massima deregolamentazione dei rapporti economici e sociali in ogni campo, non ultimi lavoro e casa.

Uno sguardo statistico con sorpresa

K.- Bisognerebbe sempre dubitare dell’Istat quando pubblica per la prima volta i risultati di un censimento. Lo stesso istituto li definisce «primi risultati» o «risultati provvisori». Anni dopo arrivano i «risultati definitivi». E le interpretazioni possono cambiare, anche radicalmente. Capita con la revisione del censimento 2011 verso la fine del 2014. L’aumento modesto delle abitazioni in totale sembrava dovuto alla diminuzione degli alloggi non occupati (emblema dello spreco, Italia primatista europea) da 5,640 milioni a 4,865. Ah! finalmente un segnale positivo... I tabulati definitivi mostrano un capovolgimento: abitazioni 31,208 milioni invece che 28,864 (errore incredibile), occupate 24,135, non occupate ben 7,072 milioni, il 22,6%, nuovo primato. Per l’Istituto gli alloggi non occupati possono essere «vuoti» o «occupati da non residenti». Sappiamo che i Comuni accoppiano strettamente la residenza all’obbligo di «stare» in una casa con indirizzo civico preciso, la condizione che non lo soddisfa è rara; ad ogni modo, utilizzando numeri non revisionati risulterebbero meno di mezzo milione le famiglie in abitazioni senza avere la residenza. Oltre alla coabitazione, che permane intorno agli 800.000 casi, esiste la sistemazione scandalosa in baracche, tende e simili che riguarderebbe circa 71.000 persone. Numero di sicuro molto inferiore alla realtà, ma che l’Istat cerchi di individuare gli homeless significa riconoscimento di un fenomeno drammatico in aumento (più che triplicato – sempre secondo l’Istat), distintivo dell’allineamento italiano alla coerenza capitalistica odierna.

L.- La proporzione degli alloggi vuoti, seconde, terze… abitazioni, o libere per affittarle o venderle o tenute artatamente fuori mercato per favorirne l’aumento del prezzo o rallentarne la caduta in tempi di crisi (nell’insieme circa il 5-6%), è risultata ancora del 21%, altro che 17 % calcolato al momento della prima diffusione dei dati censuari. Allora la gran quantità di abitazioni non occupate definite dall’Istat «per vacanze o fine settimana» continuano a rappresentare una parte dell’irrisolta questione dell’eccesso di produzione. Da oltre quattro decenni ripetiamo che in Italia abbiamo prodotto troppe case, soprattutto le case che non servono, tra l’altro componenti non secondarie del consumo irragionevole di suolo; mentre resta viva e senza risposta adeguata la domanda di case popolari specialmente nelle grandi città.

Concludiamo riportando il valore Istat circa il cosiddetto titolo di godimento dell’abitazione relativo alla proprietà. Che ristagna attorno a un dato del 72%; sarebbe probabilmente più alto se lo ricavassimo dai consuntivi dell’Agenzia delle entrate. L’ipotesi di Berlusconi governante, proprietà della casa all’80%, sembra un obiettivo (ammesso che lo sia) difficilmente raggiungibile.

[i] Vedi gli articoli:
1.- Esiste ancora una «questione delle abitazioni»?, in eddyburg, 10 novembre 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, 2006, p. 103.
2.- Avere non avere casa a Milano, idem, 17 marzo 2006, poi in idem, p. 147.
3.- La casa della città pubblica. Bigino di storia per la scuola di eddyburg, in eddyburg, 18 giugno 2006, poi in idem c.s. , p. 165.
4.- Allora esiste ancora il problema della casa?, in eddyburg, 5 marzo 2008, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, p. 143.
5.- Come dare l’ultima mazzata alla città pubblica, in eddyburg, 8 gennaio 2010, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010, p. 129.
6.- Un po’ di conti sulla casa, in eddyburg, 25 novembre 2010.
7.- Equivoci, ambiguità ed errori del censimento, in eddyburg, 8 maggio 2012.
[ii] Il testo è l’ampliamento e l’approfondimento di un articolo apparso in «Domus», agosto 1941.
[iii] Edizione italiana: H. Lefebvre, Il diritto alla città, introduzione di Cesare Bairati, Marsilio, Padova 1970.
[iv] C. Bairati, Ivi, p. 14.
Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis richiamerà i principi lefebriani in un libro su una Venezia in via di continuo spopolamento e di svendita a un rovinoso turismo internazionale. È in pericolo la stessa civiltà urbana. Solo comprendendo come e da chi i diritti sovrani sono calpestati si potrà organizzare una riscossa.
[v] Cfr. S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014, p. 96.
[vi] Dati percentuali in D. Franchi, R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1972, tabella di p. 143

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