«Devo tornare al mare, al solitario mare e al cielo...». Da quand'ero studente, questi versi di John Masefield non hanno mai smesso di emozionarmi. La nostra relazione d'amore con l'acqua salata è una strana faccenda. I greci veneravano l'Egeo «scuro come il vino», ma le popolazioni atlantiche erano più timorose che innamorate del mare, fino a non molto tempo fa. Solo nel XIX secolo il mare è diventato una meta desiderabile. I romantici hanno esaltato tutta la natura selvaggia ma delle icone romantiche solo il mare ha veramente resistito.
D'estate andiamo al mare in massa per nuotare, navigare, pescare. Ce ne stiamo, con l'acqua alle ginocchia, anche solo a guardarlo incantati. È come se l'umanità, i cui lontani antenati sono usciti dagli oceani, inconsciamente desiderasse ritornare a ciò che W.H. Auden chiamava «l'alfa dell'esistenza».
Il richiamo del mare è così forte che sempre più gente decide di andarci a vivere in permanenza. Sorprende sapere che oggi due terzi della popolazione mondiale risiede a meno di 80 chilometri dal mare. Le 16 maggiori città del mondo, con tre sole eccezioni, si trovano sul mare. Negli Usa circa la metà di tutte le nuove case vengono costruite vicino all'uno o all'altro «scintillante oceano»; una ricerca della fine degli anni Novanta diceva che gli americani si trasferivano sulle coste al ritmo di 3600 al giorno. Ma, nonostante il nostro professato amore, trattiamo il mare con sommo disprezzo. Masefield vedeva solo una «grigia foschia sul volto del mare». Oggi la superficie del mare è lordata da una spaventosa quantità di spazzatura. Ci piace andare al mare, ma quando ci arriviamo, inspiegabilmente, lo copriamo di plastica. Da una recente verifica è emerso che sulle 269 spiagge inglesi prese in considerazione si trovava una qualche spazzatura mediamente ogni 50 centimetri; un aumento di più dell'80% rispetto al decennio passato.
I colpevoli sono, in parte, quei tipi insopportabili che non possono andare a contemplare un panorama senza lasciarsi dietro un sacchetto vuoto di patatine e una lattina di birra (i malfattori più incalliti lasciano venti mozziconi di sigaretta e un pannolino sporco). Tuttavia questi sudicioni inveterati, per quanto odiosi, non sono il problema maggiore. Dappertutto si possono vedere orrendi residui di bottiglie di plastica. E la plastica, di sicuro il prodotto più detestabile della nostra età dell'idrocarburo, galleggia. Non è biodegradabile. Fa rumore quando ci si cammina sopra. E luccica nei giorni di sole, come per farsi ancor più notare.
I rifiuti di plastica sono ormai un problema mondiale. Quando il naturalista Tim Benton si è recato, non molto tempo fa, sull'atollo disabitato di Ducie Island, la più lontana delle Isole Pitcairn, a 5 mila miglia a est dell'Australia, ha trovato sulle sue coste 953 oggetti portati dal mare; e tra di essi c'erano 268 pezzi di plastica, 71 bottiglie di plastica, 29 pezzi di tubi di plastica e la testa di due bambole di plastica. E questi relitti sono solo la parte più evidente del torrente di spazzatura che la nostra specie getta in mare ogni giorno. Solo New York scarica 500 tonnellate di liquami di fogna. Il totale giornaliero di olii proveniente da fonti umane è poco meno di un milione di galloni. Il Mare del Nord contiene una quantità di fosfati 8 volte superiore a quella di 20 anni fa. Il mare sarà sempre profondo, ma è ancora blu?
In teoria ci sarebbero modi per far cessare tutto questo, per far rispettare i divieti di gettare rifiuti in mare. Tutte le navi mercantili, per esempio, potrebbero essere munite dei compressori di spazzatura realizzati dalla marina degli Usa. Ma ho il sospetto che anche così i marinai non smetterebbero di gettare in mare le loro bottiglie di Coca Cola. In fondo non vedono mai le spiagge in cui quelle poi finiscono.
Oppure le autorità locali potrebbero sorvegliare le spiagge, dare multe esemplari a coloro che le sporcano e organizzare regolarmente pulizie su vasta scala. Tuttavia non ho abbastanza fiducia nelle autorità locali: se le si tirano in ballo si finirà probabilmente per veder interdire del tutto alla gente l'accesso al mare.
Che cosa fare, allora? Questo pensiero mi ha tormentato per tutte le ore passate quest'estate in Galles a riempire sacchi con i rifiuti altrui. E sono arrivato a una risposta piacevolmente semplice. La soluzione è quel che sto facendo — con i volontari che si sono uniti a me, alla mia famiglia e ai nostri amici della vicina Nature Reserve in uno sforzo collettivo per pulire la nostra costa. In breve, è sempre la stessa storia. Se vuoi che qualcosa sia fatto, in questo mondo, fallo tu. Masefield ha intitolato la sua poesia «Febbre del mare». Ma ora è il mare, non il poeta, ad avere la febbre. Solo noi, che amiamo sinceramente il mare, possiamo curarlo.
(Traduzione di Maria Sepa)