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Eugenio Scalfari
Tremonti folgorato sulla via di Damasco
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
L’editoriale di domenica 7 marzo 2004, su la Repubblica.

DOPO Tremonti anche Gianfranco Fini invoca il dialogo con l’opposizione e con i sindacati. Del resto non è una novità perché già da alcuni mesi il leader di An insieme al Follini dell’Udc cercano di smarcarsi dal blocco oltranzista guidato da Bossi e dallo stesso Berlusconi, anche se alle tante dichiarazioni non sono mai seguiti i fatti. Ma la posizione assunta dal ministro del Tesoro e resa esplicita nell’intervista data l’altro ieri al nostro direttore, quella sì, è una novità perché Tremonti è stato finora l’anello forte del blocco oltranzista che si può anche definire populista, demagogico, nordista, autoritario, plebiscitario o come altro si voglia ma che in realtà merita un solo appropriato aggettivo: incapace. Incapace di governare.

Dopo 32 mesi di esperienza governativa quest’incapacità è sotto gli occhi di tutti: gli avversari lo avevano previsto da tempo, i sostenitori hanno cominciato ad accorgersene fin dagli inizi di quest’anno come dimostrano i sondaggi da gennaio a oggi; ma ora l’hanno capito anche gli alleati di governo e settori consistenti dello stesso partito creato dieci anni or sono dal "patron" di Fininvest.

La maggioranza si sfarina: questo è il fatto nuovo. Si sfarina malgrado disponga di cento voti parlamentari in più dell’opposizione, malgrado abbia il monopolio della televisione e della pubblicità, malgrado le risorse finanziarie private del suo leader che se ne vale in tutti i modi, nessuno escluso ed eccettuato.

La maggioranza si sfarina perché il blocco sociale che finora ha sostenuto il progetto berlusconiano di rivoltare l’Italia come un calzino cominciando dalla diminuzione della pressione fiscale, dalla pace sociale, dall’aumento del reddito e dell’occupazione, dalla maggiore sicurezza, da una nuova efficienza della pubblica amministrazione; quel blocco sociale ha visto cadere uno a uno tutti i petali del fiore vagheggiato da Berlusconi e scritto sulle pagine del suo contratto con gli italiani firmato ? ovviamente ? in televisione dinanzi al compiacente ed entusiasta Bruno Vespa in veste di notaio.

Il colpo di grazia è arrivato appena sei giorni fa quando non Fassino o Bersani o Rutelli o altri visi pallidi di comunisti più o meno infiltrati, ma addirittura lo stesso ministro del Tesoro ha dovuto diffondere i dati sul reddito, sul disavanzo del bilancio, sul debito pubblico e - udite udite - sulla pressione fiscale. Dati di un disastro inutilmente annunciato dall’opposizione e da quel poco che resta di libera stampa in questo Paese di tartufi, ma che ormai gli italiani percepiscono sulla loro pelle di consumatori, di contribuenti e di lavoratori e che comunque ormai non possono più esser nascosti neppure dalla finanza creativa del ministro del Tesoro.

Le cifre sono chiarissime. Dopo circa tre anni di governo del centrodestra la pressione fiscale del 2003 è al livello più alto rispetto a tutti i tre anni precedenti, l’avanzo primario del bilancio è stato dimezzato, il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo, ufficialmente contenuto al 2.4, senza i condoni sarebbe già al 4, cioè ben oltre i parametri di Maastricht. Il tutto in presenza di un’inflazione reale che è almeno il doppio di quella apparente, un crollo delle esportazioni verso gli altri Paesi dell’Unione europea (dunque indipendentemente dal rapporto di cambio tra euro e dollaro), un crollo degli investimenti, una stasi prolungata e perdurante dei consumi, una diminuzione drastica della quota di reddito risparmiato.

Il ceto medio è impoverito e impaurito. Dal fondo del paese sale un crescente brontolio, un disagio, un malcontento che ormai risuona dovunque. Ecco perché il blocco sociale si sfarina e di conseguenza si sfarina la maggioranza parlamentare, i partiti alleati, perfino Forza Italia. Ed ecco perché Tremonti cambia passo e invoca il metodo repubblicano, cioè il senso dello Stato che dovrebbe prevalere in certe occasioni e su certi problemi sopra gli interessi particolari di gruppo, di partito, di persona.

Guarda guarda, senti senti.

* * *

L’onorevole Tremonti ha una percezione molto personale e assai singolare di quello che lui chiama - chissà perché - metodo repubblicano e che tutti noi comuni mortali chiamiamo senso dello Stato. Per quanto mi riguarda io continuerò a chiamarlo così.

Il senso dello Stato, degli interessi permanenti dello Stato, infine del bene comune rappresenta (dovrebbe rappresentare) il contenuto stesso di ogni politica. E’ strano che Tremonti ne ravvisi la necessità soltanto con riguardo alla riforma delle pensioni e alla tutela del risparmio. E tutto il resto? La politica estera la vogliamo escludere dal senso dello Stato? La politica fiscale, quella economica, quella ambientale, la sanità, la parità di accesso ai mezzi di comunicazione, la politica dei redditi, il conflitto degli interessi, l’ordinamento della giustizia, il federalismo: tutte queste materie e altre ancora sono dunque da considerare carne di porco, "terrain vague" dove chiunque abbia in mano le redini del potere può fare i suoi porci comodi, far approvare leggi "ad personam", infischiarsene delle autorità di garanzia, dare spallate alla Costituzione, usare le Commissioni parlamentari d’inchiesta come strumenti di amplificazione per calunniare e infangare gli avversari politici?

Il ministro del Tesoro ha avuto un ruolo di protagonista nel calpestare con sovrana indifferenza il senso dello Stato. Cominciò fin dal suo esordio ministeriale mentendo spudoratamente al Parlamento e al Paese sulle cifre essenziali del bilancio, del reddito e delle prospettive dell’economia. Non solo errori macroscopici, ma menzogne, occultamento di dati reali. In altri paesi mentire al Parlamento è un comportamento analogo al disprezzo della Corte: entrambi vengono durissimamente sanzionati. Qui da noi sono considerati comportamenti innocui o tutt’al più peccati veniali dai quali ci si può riscattare biascicando cinque «Pater Ave e Gloria».

Poi, galleggiando sulle menzogne che rischiavano di diventare manifeste, si imbarcò nella vendita del patrimonio pubblico inventando strumenti che alleggerivano il disavanzo e il debito con anticipi ottenuti dalle banche alle quali i beni pubblici e/o l’incasso di pubbliche entrate venivano dati in garanzia con cospicui sconti sui valori di mercato. Così faceva ai tempi del Re Sole il sovrintendente generale Fouquet, che alla fine il Re fece arrestare dai moschettieri e che passò il resto dei suoi giorni nei tristi carceri di Antibes e di Pinerolo.

Infine il Tremonti ha utilizzato i condoni non già come provvedimenti saltuari ma come pratica costante della sua politica finanziaria, condonando il condonabile: evasione fiscale, evasione contributiva, abusivismo edilizio, imposte su redditi futuri forfettizzati oggi per domani, contravvenzioni sulle patenti di guida a punti, condoni tombali. Insomma tutto perdonato contro un po’ di soldi maledetti e subito, addestrando i contribuenti a infischiarsene del fisco con il magnifico risultato di avere abbassato le entrate tributarie ordinarie e vanificato la lotta all’evasione. Ritrovandosi nonostante ciò (l’ho già detto ma lo ripeto perché il fatto è enorme) con un aumento della pressione fiscale.

A me dispiace dirlo perché quel ministro sta seduto dietro alla scrivania che fu di Quintino Sella, di Marco Minghetti e per venire a tempi a noi più vicini di Luigi Einaudi, di Ezio Vanoni, di Ugo La Malfa, di Bruno Visentini e di Nino Andreatta. Perciò mi spiace dirlo, ma un ministro dell’Economia come questo, che per di più assomma nelle sue mani il Tesoro, il Bilancio e le Finanze non si era mai visto nella storia d’Italia, quella monarchica e quella repubblicana.

Comunque sulla via di Damasco il fulmine della rivelazione lo colpisce e gli rivela il metodo repubblicano. Limitatamente a pensioni e risparmio, s’intende.

Lo vogliamo prendere per buono?

* * *

Il collega Massimo Giannini ha scritto ieri a quali condizioni, secondo lui, possiamo prenderlo per buono. Concordo pienamente con la fitta elencazione da lui redatta anche se su alcuni punti mi sembra fin troppo generosa.

Ma sono anch’io del parere di prenderlo per buono, il Tremonti fulminato sulla via di Damasco perché stretto tra l’ostilità di Fini-Follini, il «pressing» di Bruxelles e dell’Ecofin, le cifre della Ragioneria e dell’Istat, l’opposizione parlamentare e quella sindacale. Il tutto mentre la sedia su cui sta seduto poggia su un basamento politico che, come abbiamo visto, si sfarina ogni giorno di più. E lasciamo pure da parte i settori dai quali lui in quanto lui si chiama fuori per ragioni di competenza.

Dove non si può chiamar fuori è però l’insieme della politica economica che non si può circoscrivere alle pensioni e al risparmio, altrimenti non si tratta più di invocare il senso dello Stato o metodo repubblicano che dir si voglia, ma di cercarsi degli ascari nell’opposizione parlamentare (o parte di essa) e nell’opposizione sindacale (o parte di essa). Perché se di questo si trattasse, allora all’ottimo Tremonti non bisognerebbe lasciare alcuno spazio né bisognerebbe cedere a nessun incantamento.

Dunque la politica economica. E’ molto semplice e non c’è bisogno di lunghi discorsi. 1) Basta con provvedimenti «una tantum», condoni e «swap» bancari in particolare. 2) Basta con l’idea di usare la riforma delle pensioni per fare cassa: quei risparmi - ottenuti possibilmente senza tagliare le gambe né ai padri né ai figli - debbono andare contestualmente e interamente al finanziamento del nuovo Welfare che, se non vuol essere una barzelletta, in tempi di lavoro flessibile è molto più costoso del vecchio e logoro Welfare tuttora esistente. 3) La tutela del risparmio avviene anzitutto sul terreno degli amministratori delle società (quotate o non quotate, onorevole ministro del Tesoro, questo lei lo sa benissimo perché le grandi holding di gruppo a cominciare da Fininvest non sono quotate in Borsa), sul terreno dei sindaci, dei revisori dei conti e delle agenzie di rating. Non mi pare che il suo disegno di legge dica granché su questi punti. Perciò si concentri meglio e riscriva, onorevole ministro, riscriva. 4) Divida pure le competenze sul sistema bancario tra Antitrust (tutela del risparmio) e Bankitalia (stabilità) e fissi pure, se il Parlamento è d’accordo opposizione compresa, un termine di durata nella carica di governatore della Banca centrale. Il termine, quale che sia, deve decorrere da oggi e probabilmente non deve coincidere con la fine della legislatura parlamentare. Credo inutile spiegarne il perché.

La politica economica non si esaurisce certo in queste poche cose, ma già questi quattro punti sarebbero sufficienti. Rispettandoli, tanto per dire, le risulterebbe impossibile continuare a parlare di riduzione della pressione fiscale (peraltro auspicabilissima) senza indicare quale taglio di quali spese si dovrebbe effettuare. Altrimenti si resta nel libro dei sogni e dei miracoli, cioè in quel tipo di cose che lei e i suoi compagni di governo debbono ormai togliersi dalla mente perché nessuno ci crede più.

Auguri, signor ministro del Tesoro. Ne ha di cose da fare. Tra l’altro le dovrà pur discutere con Berlusconi. O no?

Post scriptum. Penso anch’io, come il collega Giannini, che Francesco Rutelli farebbe bene a consultarsi con gli altri suoi alleati della lista Prodi prima di formulare proposte da lanciare verso la maggioranza. Se tutti i componenti di quella lista imitassero il presidente della Margherita, invece che lista Prodi converrebbe chiamarla lista Babele e non sarebbe una gran trovata elettorale. Questo è solo il modesto consiglio di un elettore, dopodiché ciascuno è libero di scegliere la corda con la quale impiccarsi.

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