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Bruno Trentin
«Tra i giovani operai cova la rivolta»
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
Da l'Unità del 20 maggio 2004, per capire qualcosa che succede nel mondo del lavoro. Ha raccolto l'intervista Bruno Ugolini

ROMA Bruno Trentin, ex segretario generale della Fiom e della Cgil, parla con l’Unità del dopo Melfi. Attenti, avverte, tra i giovani cova la rivolta. C’è una nuova generazione di lavoratori che non sopporta condizioni discriminanti. E' uno stato di malessere che serpeggia nell'intero mondo del lavoro. E sulla sinistra ha pesato, negli ultimi anni, l'egemonia delle culture liberali.

La fabbrica Fiat di Melfi era nata sotto l’insegna del cambiamento. Che cosa è successo poi?

«Era un tentativo di creare sul “prato verde” un esperimento nuovo, contrassegnato dal just in time, il rifornimento “sul momento” dei pezzi di ricambio dell’auto, con la creazione di un nuovo rapporto tra l’azienda subfornitrice e l’azienda fornitrice. C’era poi l’ambizione di favorire il lavoro di gruppo. Creavano delle aree di lavorazione affidandone la responsabilità a dei capi. Una piccola minoranza è stata così associata alla linea di direzione della Fiat, mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori, ed erano tutti diplomati, rimaneva dopo sei settimane di formazione generica, assolutamente tagliata fuori. E su di loro è piombato un sistema disciplinare intollerabile, una politica salariale che discriminava i nuovi assunti rispetto ai lavoratori delle altre fabbriche Fiat del Nord, un’organizzazione del lavoro in larga misura di tipo tayloristico, con ritmi massacranti».

Come mai gli operai hanno tollerato questa situazione per tanti anni?

«Erano di fronte ad una nuova occasione di lavoro, in un territorio davvero dissestato dal punto di vista dell’occupazione. E poi devo dire che sono prevalse, dentro il mondo della sinistra, culture neoliberiste. Melfi è solo un esempio. Credo che giustamente Massimo D’Alema, in un recente intervento, abbia riconosciuto che c’è stata un’egemonia delle culture neoliberali anche nella sinistra italiana».

Un’egemonia a proposito di che cosa?

«Credo che si riferisse al fatto che per un certo periodo è stata fatta quasi un’apologia della flessibilità del lavoro, anche quando tale flessibilità corrispondeva ad una precarietà delle condizioni di lavoro e delle condizioni d’occupazione. C’erano animate discussioni sul valore del sottosalario per i giovani, come condizione per la creazione di posti di lavoro. I giovani - si diceva con una battuta - sarebbero andati a manifestare contro i sindacati, stracciando i contratti di lavoro, per trovare un’occupazione. Una menzogna. Mai la riduzione del salario per un nuovo assunto ha consentito la realizzazione di un posto di lavoro. Ci vuole ben altro. Rappresenta solo una convenienza dell’azienda che risparmia e rende più facile l’espulsione di lavoratori anziani che costano di più. Era la negazione di un principio costituzionale: a parità di lavoro parità di salario, per età e per sesso».

Melfi rievoca una tale egemonia conservatrice?

«Melfi è la riprova di questi errori. Quel momento di rivolta, avvenuto inizialmente anche senza il sindacato, affermava un grande problema, al di là della parificazione con i trattamenti degli altri lavoratori Fiat, al di là dei turni massacranti. Era un problema di dignità, la volontà di cambiare quello che sembrava essere un dogma persino di natura economica. Hanno buttato a mare i dogmi, hanno dimostrato che coloro che lavorano, tanto più quando sono diplomati, acculturati, intendono essere riconosciuti come delle persone che hanno un contributo insostituibile da recare alle attività produttive e alla vita democratica del Paese».

E’ la spia di un malessere che accomuna gli autoferrotranvieri di Milano con i lavoratori dell’Alitalia, passando per Terni?

«Alcune vicende si devono a situazioni di crisi, come all’Alitalia dove occorre cercare di evitare la catastrofe. A Terni è stata una rivolta popolare contro lo smantellamento di un reparto d’acciai speciali, ad alto contenuto tecnologico. A Milano, invece, la rivolta era proprio contro il sottosalario ai nuovi assunti. Io ricordo le battaglie fatte, quando ero segretario della Cgil, molte volte non capite da anziani lavoratori. Esistono salari dei giovani neo assunti con il 30, il 35 per cento in meno rispetto a mansioni eguali».

Sono situazioni presenti in altre parti del Paese?

«In molte: in nome dell’aiuto ai giovani si toglieva il salario ai giovani, per accelerare la partenza dei vecchi. Sono queste ideologie che ora sono rimesse in questione. E ritorna un grande tema rimosso dalla riflessione della sinistra e del sindacato: il controllo dell’organizzazione del lavoro, il controllo sul tempo di lavoro e sul tempo di vita. E’ una tematica che è stata fondamentale negli anni Sessanta e Settanta».

C’è stato un ritardo anche nel comprendere le novità del mondo del lavoro?

«Non abbiamo capito che la specificità del lavoro richiedeva un nuovo approccio al mercato del lavoro. Chiedeva una battaglia per la formazione continua che impedisse che milioni di giovani fossero rapidamente emarginati non solo dal lavoro, ma dalla conoscenza e si sentissero sempre più handicappati nell’acquisire un altro lavoro».

Torna anche il tema della democrazia, del rapporto tra sindacati e lavoratori...

«Quando prevale nel sindacato la battaglia difensiva allora molto spesso ci si divide tra chi ritiene d’essere più realista e chi ritiene d’essere più intransigente. E poi si perdono i rapporti diretti con i lavoratori interessati. Nuove forme di democrazia vanno ricercate e costruite coinvolgendo i lavoratori. Il referendum può essere una forma utile, così com’è stata usata a Melfi. Nei momenti più alti della lotta sindacale noi siamo ricorsi, però, a consultazioni molto più complesse, ad assemblee che discutevano per due-tre giorni e non si limitavano ad esprimere un sì o un no. Ricordo quando per il contratto nazionale eleggevamo unitariamente i delegati in tutti i luoghi di lavoro e creavamo una consulta dei delegati che giorno per giorno seguiva la trattativa».

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