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Ida Dominijanni
Sulle tracce dell'altro. Elogio del regalo
17 Agosto 2005
Articoli del 2004
Una volta tanto un articolo lieve, come una carezza. Da il manifesto del 22 dicembre 2004

A me piace fare regali. A Natale e sempre nel corso dell'anno e degli anni, alle stesse persone e alle nuove, again and again; e non capisco quell'ansia che prende tante e tanti, per quel dovere che scatta intorno al 15 dicembre, con gran pompa di pubblicità e luccichii, liste di nomi e di oggetti, corse in centro e frustrazione da prezzi impossibili. E se invece fosse un piacere? Se fosse non un tempo perso ma un tempo guadagnato; un tempo dedicato non all'acquisto delle cose ma alla seduzione delle persone? Non mi capita mai di non sapere che cosa regalare e di solito non sbaglio. C'è sempre una frase, un'occhiata, un ricordo dell'altro o dell'altra che mi mette sulla pista dei suoi desideri; basta non sovrapporre all'incertezza di quella pista la certezza senza rischio di un'etichetta, di un logo, di una hit parade. Fare un regalo non è altro che mettersi sulle tracce dell'altro, scoprirne una voglia e soddisfarne un piacere, riportare a presenza quella frase, quell'occhiata o quel ricordo che ce l'hanno segnalato.

Piacere di ritorno, direte, perché c'è del narcisismo in questa gioia del dare che viene ricambiato dalla gioia del ricevere; una gratificazione di sé pari alla gratificazione dell'altro. Sostiene chi ne sa, del resto, che nella radice do del dono c'è un'ambivalenza semantica che intreccia il dare con il prendere, e rinvia a un circolo virtuoso fra il donare, il ricevere, il restituire, che può diventare circolo vizioso se si dona per ricevere o per avere restituzione. Circolo vizioso o addirittura velenoso, se è vero che la stessa parola, gift, sta per dono ma anche per veleno: come un'esca d'amore, che nell'offrirsi obbliga l'altro a ridare a sua volta, imprigionandolo nella rete dell'indebitamento. Jacques Derrida (in Perdonare, appena uscito da Cortina) da questo metteva in guardia, quando invitava a chiedere perdono anche del dono, se questo diventa «una richiesta di riconoscimento, un veleno, un'arma, un'affermazione di sovranità, un desiderio di dominio». E Bataille infatti diceva che c'è dono solo quando c'è dépense, dispendio, senza recupero: senza niente in cambio. Dono a perdere: perché implica la rinuncia alla restituzione dall'altro, e anche la rinuncia all'affermazione di sé nascosta nell'atto generoso del dare.

Ma basterebbe meno. Si può volentieri condonare e perdonare, per restare al lessico di Derrida, quella piccola affermazione narcisistica di sé che nel gesto del donare è contenuta, se essa sa mettersi come dicevo sulle tracce dell'altro e accendere la scintilla del contatto e della condivisione. Il regalo allora non è un oggetto ma un medium, non riempie un bisogno ma allude al desiderio di altro e dell'altro; non è una merce ma un legame, il tramite di una relazione, la testimonianza di uno scambio, non nel registro dell'avere ma in quello dell'essere. Per questo mi sono sempre sembrati tristi quei propositi anticonsumisti di non farsi regali sotto l'albero: una resa al carattere alienato dello scambio di merci a mezzo merci, come se non fosse possibile né oggi né mai rivoltarne il segno e scambiare di tutto, e prima di tutti noi stessi, nel regime del lusso che il desiderio consente e domanda.

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