Sui destini di Simona Pari e Simona Torretta Silvio Berlusconi invoca cautela, «è terrorismo mediatico» e bisogna valutare il vero, il falso e il virtuale di messaggi e rivendicazioni. Certo, bisogna valutare e con cautela. Ma nessuno meglio di Silvio Berlusconi sa che tra il reale, il televisivo e il virtuale i confini, oggi come oggi, sono assai labili, perché il televisivo e il virtuale fanno la realtà e non viceversa. Che vuol dire, in tempi come questi, «terrorismo mediatico», e che c'è da fare per contrastarlo? Diagnosi e ricetta per alcuni sono semplici. L'obiettivo primo dei terroristi essendo proprio l'effetto mediatico, la produzione di terrore tramite immagini del terrore, la messa in scena della violenza come quintessenza della violenza, occorre staccare la spina, deflazionare quelle immagini, sottrarsi al ruolo impotente e voyeur dello spettatore. In una parola, spegnere le tv. Ha cominciato l'altro ieri La Stampa, hanno continuato ieri Avvenire e altre testate: ci vuole un codice deontologico internazionale, un accordo fra tutti i network europei; black out su quei coltelli che tagliano la testa agli ostaggi e a tutti noi, prigionieri a nostra volta del video e delle sue inconsce e capziose seduzioni. Se la decapitazione diventa uno spot, almeno evitiamo di mandarlo in onda: salveremo le nostre teste, depotenzieremo il gioco del boia. E pazienza se di rincalzo alle tv c'è Internet che non si può spegnere: il comando politico si eserciti almeno laddove ancora può, e sulla tv ancora può.
Si può fare, è utile farlo? La domanda corre nelle redazioni televisive, e le risposte, salvo lo zelo di Porta a porta che promette «mai più quei video», si appellano alla misura del buon senso e del buon gusto: informare senza indulgere, far vedere senza compiacere. Fermarsi sulla soglia del giusto limite, un attimo prima che il coltello si infili nella carne; un attimo prima che la tragedia si trasformi in spettacolo. Giusto, saggio: è il minimo di sensibilità, umana e professionale, che i tempi richiedono. Ma è troppo poco rispetto alle strategie di contrasto che i tempi richiedono.
Nella civiltà del visuale, il terrorismo, come già la guerra, usa il visuale: chi se ne stupisce era fuori dal mondo fino a un attimo fa. Nel visuale, per giunta, i giochi si moltiplicano e le strategie si complicano molto velocemente. Poco più di un decennio fa, nella prima guerra del Golfo, le telecamere servivano a edulcorare la guerra, a smaterializzarla, a nascondere il massacro dei corpi sotto lo spettacolo dei bombardamenti. Tre anni fa l'atroce volo di cadaveri nudi dalle Torri gemelle in fiamme fu rapidamente cassato dalle immagini - anch'esse ridotte a spot -degli attentati dell'11 settembre. E tutt'ora la legittimazione della guerra di Bush si avvale della stessa tecnica di cancellazione delle bare dei soldati americani, mentre Putin prende a sua volta le sue misure antiterrorismo di oscuramento televisivo. Senonché, nello scenario iracheno, il corpo si è preso la sua amara rivincita: con ogni mezzo, dalle tv alle fotografie di Abu Ghraib ai video sui sequestri che viaggiano in rete, la materialità delle ferite, delle amputazioni, delle sevizie, delle esecuzioni buca la virtualità che pareva deputata a preservarcene, a farci vedere senza toccare, a farci sapere senza traumatizzarci. Il gioco si è fatto più complesso, e al suo interno il terrorismo mediatico fa il suo gioco.
Qual è il nostro? Oscurare, limitare, codificare dall'alto il limite del visibile e dell'invisibile, della scena e dell'osceno, non serve a niente, perché per fortuna non è solo dall'alto che il gioco si decide: né dall'alto dei governi, né dall'alto dei gruppi del terrore organizzato. Vedere non vuol dire solo subire, vuol dire anche prendere atto e reagire. Internet non è l'ennesima diavoleria al servizio del terrorismo, è anche e soprattutto una grande arena su cui i governi possono poco o nulla e in cui le strategie di controinformazione, discussione, ribellione, autoorganizzazione possono invece molto. In ciò che resta delle democrazie, non è mai con un meno ma con un più di informazione, di immagini, di parole che si spezzano i tentativi di distruggere la sfera pubblica. Non è distogliendo lo sguardo dal gioco del boia che impareremo a dire no.