In un intervista a Pietro Barucci (finalmente) una implicita condanna, tardiva ma piuttosto chiara, delle condizioni degli architetti impegnati a collaborare alla costruzione di città per i cittadini, e non solo a proporre begli oggetti per promuovere e ingentilire la rendita fondiaria. La Repubblica, 9 gennaio 2013, postilla (f.b.)
Pietro Barucci, architetto, ha compiuto novant’anni in questi giorni. Da due decenni non lavora più. Avrebbe potuto continuare, ha una figura slanciata, energica, la memoria è fervida, intatta la lucidità, sicuro l’argomentare. Ma su di lui si abbatté una specie di interdetto. Il suo nome è legato ai più grandi interventi di edilizia popolare realizzati in Italia, a Roma: Laurentino 38, Tor Bella Monaca, Quartaccio, Torrevecchia. E il maleficio che avvolge quelle torri grigie innalzate in periferia prende alla gola anche Barucci. È lui, si sente dire, il responsabile di architetture criminogene, spaesanti, ossessive. Quelle che svettano a Roma, ma che sono sorelle delle Vele di Scampìa e dello Zen a Palermo. Si grida, citando Michel Foucault: dàgli alle “istituzioni totali”. Si invoca: abbattiamole, facciamo palazzine.
«Mi sono stufato di ribattere», dice Barucci seduto a un tavolo rotondo sul quale spicca la copertina nera di un suo libro appena uscito, Scritti di architettura 1987-2012 (Clean, 151 pagine, 15 euro), in quello che era uno studio e ora è il salotto di casa. Mobilio anni Sessanta. Di fronte, due finestroni inquadrano Villa Medici e i pini di Villa Borghese. Scontata la battuta: eccoli qui gli architetti che disegnano casermoni e a Roma vivono in via Margutta. Barucci, che nel libro ribatte, eccome, ai suoi critici, non si è mai iscritto a nessuna cordata, accademica o di partito. Assistente all’università di Adalberto Libera, alla morte di questi venne scalzato dal suo successore, Ludovico Quaroni, che gli preferì Manfredo Tafuri. Da allora iniziò una folgorante carriera professionale, non solo in Italia, culminata con i grandi complessi di case popolari. E conclusa di botto, con uno strascico di amarezze che ora sembrano ricomposte in riflessioni altrettanto amare, ma affabilmente diluite.
Quando ha chiuso lo studio?
«Nel 2003. Ma da un decennio non ricevevo nessun incarico».
Chi è stato l’ultimo committente? «Il commissariato per la ricostruzione post terremoto a Napoli. Un impegno durato dodici anni, fino al 1994, in condizioni spaventose».
Perché spaventose? «Inizialmente il clima era eccellente. Vezio De Lucia, responsabile del commissariato, mi chiese di coordinare interventi di nuova costruzione e il recupero di edilizia storica. Il commissariato era un’oasi di pulizia. Quando, a metà degli anni Ottanta, il Comune perse la regìa delle operazioni, iniziarono a spadroneggiare imprese piovute dal Nord, concessionari che prendevano anticipi stratosferici e poi subappaltavano alla camorra. Sotto di me c’era gente che collezionava tangenti per parlamentari e ministri».
Il risultato? «Volevamo costruire il nuovo nel corpo vivo della città, nella periferia slabbrata di Barra. Il nuovo che riqualifica l’esistente. Purtroppo il nuovo fu mangiato dall’esistente».
Una questione che più volte si è riproposta. Lei fu oggetto di dure critiche. Le si addebitavano esagerate pretese razionaliste. «Il postmoderno ha toccato l’apice in quegli anni. Io sono stato additato come l’ultimo dei moderni, che da aggettivo qualificativo era diventato insulto diffamatorio. Ma, al fondo, una questione culturale si tramutò in una discriminazione professionale».
Chi la discriminò? «Gli attacchi più spietati giunsero da Controspazio, la rivista di Paolo Portoghesi. Era un gruppo di pressione, formato da giovani architetti che sventolavano vessilli postmoderni ed erano animati da spirito che oggi diremmo “rottamatorio”. Per me fu uno choc, con implicazioni familiari».
Familiari? «Nella redazione della rivista lavoravano mia figlia Clementina e mio genero, Giorgio Muratore. Per anni i nostri rapporti sono stati tesi. Quando ci incontravamo in luoghi pubblici, cercavamo di svicolare».
Lei era indicato come l’artefice di edifici e di quartieri che iniziavano a deperire il giorno stesso della loro inaugurazione. «Si riferisce al Laurentino 38, immagino. Detto in estrema sintesi, penso che fosse una proposta culturale, politica e professionale di una qualità e di un’importanza non adatta a Roma. E dunque una proposta destinata a fallire».
Da dove trasse ispirazione? «Francia, Inghilterra, Olanda, paesi scandinavi. Il modello erano le new town inglesi, il quartiere autosufficiente, come quello di Bakema e Van den Broek ad Amsterdam».
Nulla di comunista? «Sciocchezze. Immaginammo quattordici insulae, ognuna con sette edifici, di cui cinque in linea, una torre e un ponte che li teneva insieme e dove pensavamo di sistemare negozi, uffici pubblici, uffici privati, un centro sociale. Era lo spazio di incontro e di convivenza. Sotto correvano le macchine, tenute lontane dal percorso sovrastante, solo pedonale. Raccoglievamo l’eredità del movimento moderno, il nostro era un manifesto di idee».
Troppa ideologia e poca concretezza? «Le dimensioni non le abbiamo scelte noi. Il Comune ci chiedeva di sistemare 32 mila abitanti. E, a proposito di concretezza, bisogna ricordare che in quei primi anni Settanta l’emergenza abitativa era esplosiva».
È esplosiva anche ora. Come si risponde? «Non si risponde. Non esiste più edilizia pubblica. Almeno noi cercavamo di darlo un tetto a chi non ce l’aveva».
I problemi al Laurentino iniziarono fin da subito. «Il Comune doveva curare la gestione, ma gli allacci elettrici, le fogne, le strade furono realizzate due anni dopo la fine delle case. Al Laurentino sono state trasferite centinaia di famiglie che occupavano un hotel ricettacolo di delinquenza e di spacciatori. Se si creano le condizioni perché un quartiere degradi, non c’è buona architettura che possa salvarlo. A Roma come altrove».
Si è detto che progettaste un insediamento per un proletariato che non esisteva più, sognando forme comunitarie ormai in disuso. Cominciavano gli anni Ottanta... «È vero. In ognuno dei ponti era previsto un centro sociale, ma proprio in quegli anni fu soppresso il corpo degli assistenti sociali, che accompagnavano gli assegnatari negli alloggi. Oggi dimentichiamo che gli abitanti venivano da case abusive e da baracche. Avremmo dovuto leggere meglio le trasformazioni. Ma m’illudevo che potessimo allinearci all’Europa del Nord. Nelle new town c’era tecnologia, visione comunitaria, sociologia. Quello che io cercavo di realizzare qui».
Lei poi ha progettato parte di un altro quartiere considerato emblema della disperazione metropolitana, Tor Bella Monaca. Quelli sono anche gli anni di Corviale...
«Corviale è uno stupendo progetto di architettura non adatto a una città come Roma. Ma mi lasci ricordare che ho lavorato al Tiburtino sud, un altro quartiere popolare. Era il 1971. Alcune famiglie che ebbero assegnato l’alloggio e che poi si erano trasferite altrove, a distanza di decenni sono tornate nel quartiere, ma stavolta da acquirenti».
Nel 2006 tre ponti del Laurentino vennero abbattuti. Il degrado era insopportabile, disse l’amministrazione comunale. Che cosa ha provato? «Un senso di orrore. I ponti erano occupati, in mano a malavitosi. Ma scartare l’ipotesi del recupero e demolirli, sostituendoli con palazzetti costruiti sulla strada, è un atto di bestialità. Capisco l’impeto d’un residente, dopo decenni di abbandono. Ma un’autorità pubblica che vuole compiacere la protesta e farsi un po’ di propaganda compie una scelta incolta ».
Ora si vorrebbe abbattere parte di Tor Bella Monaca. «Una cretinata che non ha nessun senso. Non se ne farà nulla ».
È mai più tornato al Laurentino 38? «Una volta, alcuni anni fa. Da allora mai più. Fa parte del mio rifiuto nei confronti di un mondo che non capisco. Nel ’98 visitai il Museo Guggenheim a Bilbao realizzato da Frank Gehry. Mi son detto che non ero più in grado di fare l’architetto».