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“Una pista. Stretta, impervia, difficile.” Così, in occasione della recente nascita di una sezione italiana della Sinistra Europea, Bertinotti ha descrittto il cammino che attende il nuovo soggetto politico. “E tuttavia senza alternative,” ha aggiunto. Pista che è necessario percorrere, imposta dalla gravissima crisi - della politica, della civiltà, del capitalismo - che il mondo attraversa.
Impresa comunque formidabile e di fatto tutta da inventare. Se in tanti ormai siamo convinti che un mondo diverso è necessario e forse anche possibile, e più o meno concordemente indichiamo nelle crescenti disuguaglianze e nella devastazione della natura l’inaccettabilità del mondo attuale, la sua intrinseca incurabile insostenibilità, resta il fatto che nessuno finora ha detto in che modo sostituirlo. Anche perché a dissestare gli equilibri ecologici e a reggere un sistema sempre più iniquo, sono gli stessi meccanismi economici che a lungo hanno migliorato la vita dei popoli industrializzati, e ancora oggi, sebbene a costi sociali vergognosi, creano enormi ricchezze. Ciò che fornisce alibi alla peggiore destra, ma anche tra le sinistre crea illusioni sbagliate, rigidità, contraddizioni.
E questo a me pare un nodo cruciale per la giovanissima Sinistra europea. Perché la necessità di dare (provare a dare) contenuti a “un’alternativa di società”, a quel “diverso modo di produrre, distribuire, consumare” proposto nel documento conclusivo del recente congresso di Atene, non può prescindere da un altro cogente impegno, relativo alla definizione del proprio corpo sociale. Che non basta nominare, indicando i movimenti come interlocutori privilegiati, e allargare e diversificare, aprendo a una molteplicità di soggetti - persone, associazioni, gruppi - come la neonata Sezione italiana prevede, ma che solo il collante dei contenuti può in definitiva trasformare in un “corpo” appunto, pensante e operante per un obiettivo condiviso. E’ sicuro che esistano già le premesse di un processo di questo tipo? Che, dopo le necessarie e intelligenti scelte fondative già operate, non occorra una serie di verifiche, di confronti, e magari di scontri, tali da far chiarezza su una serie di problemi decisivi per un’idea di società “altra”?
Non è un segreto che all’interno delle sinistre radicali su certi temi esistano dissensi e anche opinioni nettamente diverse, da cui nascono scissioni, frazionismi, stanchezze, fughe. Il dibattito su crescita e consumi svoltosi l’estate scorsa su queste colonne ne è stato un test significativo. E ha confermato il fatto, anch’esso ben noto, che una certa parte delle sinistre antagoniste resta tuttora fedele a dogmatismi e certezze veterocomuniste, che paradossalmente la portano a condividere - seppure da prospettive opposte - alcuni aspetti dell’impianto teorico sostenuto dalle vituperate socialdemocrazie, in sostanza coincidenti col paradigma economico neoliberista. E’ il caso dello “sviluppo”, fermamente difeso da consistenti fascie di queste sinistre, ivi compresi non pochi giovani dei movimenti, come irrinunciabile viatico al progresso sociale; valore non di rado esteso a un’indifferenziata crescita produttiva. Mentre sembra ignorararsi il fatto che da sempre, e oggi più che mai, sviluppo e crescita sono strumento dei meccanismi di accumulazione, base imprescindibile della macchina capitalistica, e dunque del neoliberismo, forma attualmente attiva del capitale; che non è pertanto pensabile combattere questo accettando o addirittura promuovendo quelli. E mentre (anche a causa della tradizionale grave sottovalutazione della crisi ecologica da parte di tutte le sinistre) manca ogni considerazione del fatto che ormai la totalità della comunità scientifica internazionale pone lo squilibrio ecologico planetario in diretto rapporto con un’ economi di cui regola e fine è la crescita del prodotto appunto. Così che in questi ambiti ogni critica del consumismo spesso trova forti resistenze, che non sono solo sacrosanta difesa di un benessere da poco raggiunto, ma rifiuto a distinguerlo dai vizi indotti dall’iperproduttivismo capitalistico e dal sistema mediatico al suo servizio. Un’approfondita discussione su questi temi credo sarebbe indispensabile prima di tentare un’ipotesi di società che non accetti più merce e mercato come base della propria determinazione.
Accennavo sopra alle vituperate (dalle sinistre radicali) socialdemocrazie. L’area cioè nel cui grembo dopo il disfacimento dell’Urss sono confluite in gran massa le sinistre - quelle rimaste attive in quanto tali - ivi compresa buona parte dei partiti ex-comunisti. Area accettata oggi come unica opposizione possibile da quanti recisamente rifiutano adesione alle destre ma trovano difficile anche riconoscersi nelle sinistre radicali, e tuttavia vedono l’ambiguità e la pochezza di un’opposizione per lo più limitata a rivendicazioni minori, che in nessun modo mettono in causa l’ordine dato ed esse stesse nascono con ben poca possibilità di successo; un’opposizione insomma del tutto priva di idee proprie, come dimostra, spesso nel modo peggiore, quando le accade di governare. Forse non sarebbe fuori luogo dedicare attenzione a questo vasto elettorato, fatto di gente che in passato votava - o addirittura militava - comunista o socialista, fuggita dai partiti dopo la caduta del muro, disgustata della politica attuale, che però riempie le piazze contro la guerra e in difesa dei diritti civili, che quando vota una qualsiasi formazione soacialdemocratica lo fa soltanto per non dare spazio alle destre, ma spesso non vota affatto per la mancanza di una convincente ipotesi “altra”. Il possibile recupero di una parte almeno di questa sinistra solo in apparenza assente, non è estraneo al convergere tra “contenuti” e “corpo sociale” cui accennavo sopra come a un problema di cruciale rilevanza nel progetto della Se; e potrebbe diventare decisivo quando a questo progetto si guardi non come all’ultima utopia di pochi temerari, ma come a una concreta proposta politica, sostenuta da un nutrito “popolo di sinistra”.
E anche di questo credo meriterebbe discutere collettivamente. Dicendosi con tutta chiarezza che, se cambiare il mondo è da sempre l’obiettivo delle sinistre, è altrettanto vero che le strade indicate in passato a questo fine oggi non servono più, non solo perché il mondo da allora è radicalmente mutato, ma perché quelle strade si sono rivelate (talora catastroficamente) fallimentari. Insomma i vecchi sogni di assalto al Palazzo d’Inverno che qualcuno ancora coltiva, oggi non sono solo impossibili ma nemmeno più desiderabili; e proprio la fedeltà di alcuni a quei sogni rischia di allontanare non pochi che potrebbero essere attratti dal programma Se. Oggi non è più tempo di rivoluzioni traumatiche e cruente: oggi occorre sì una rivoluzione ma di tutt’altra natura, capace di disintossicare passo passo la società da un inquinamento culturale e mentale che, in nome del mercato e delle sue “leggi”, l’ha penetrata capillarmente, alla dimensione della merce omologando ogni scelta e ogni rapporto, per creare consenso a un sistema che vive sul crescente sfruttamento del lavoro, sulla spoliazione della natura e sulla guerra.
Sono solo accenni a una serie di questioni che credo la Se debba affrontare prima di avventurarsi su quella “pista” che si annuncia irta di enormi difficoltà. A cominciare dai rapporti con la stessa Unione Europea, che per prime le sinistre antagoniste con ragione criticano severamente: corpaccione sovradimensionato, iperburocratizzato, indebolito da risorgenti nazionalismi, interamente appiattito sul modello neoliberistico, di fatto privo di identità, malgrado le periodiche rivendicazioni di vano sciovinismo, i saltuari sobbalzi di autocelebrazione, i rari e subito rientrati tentativi di autonomia in politica estera. Possibile che questa nuovissima sinistra plurinazionale, certo una delle più felici iniziative politiche oggi in corso, dotata di una vitalità rara di questi tempi, ma inevitabilmente ancora gracile, riesca a “smuovere il pachiderma”?
C’è però un altro modo di vedere le cose. L’Europa, con tutte le sue tremende colpe (colonialismo, shoà, due spaventose guerre mondiali, ecc.) è madre di uno dei massimi patrimoni culturali del pianeta; è sì culla del capitalismo, ma anche del socialismo e dello Stato sociale; è patria dell’illuminismo, del diritto alla libertà di pensiero, del valore della cittadinanza. Sono conquiste fondamentali della vicenda umana. E chi si interroghi su un possibile soggetto capace di caricarsi dei tremendi problemi che squotono il mondo oggi, non può non pensare Europa. Una grande potenza per vastità, popolazione, capacità economica, la sola che sarebbe in grado non certo di sfidare l’impero Usa sul piano militare e strategico (cosa insensata quanto indesiderabile), ma sì di provare a pensare, programmare, vivere se stessa secondo valori e fini diversi da quelli dominanti, tentando di distinguersi dalmodelloimposto dagli Usa al mondo; cui inevitabilmente seguirebbe una diversa razionalità nel dividere e organizzare il lavoro, nel creare e distribuire ricchezza, nel produrre e consumare. Come è stato detto, potrebbe significare per l’Europa “iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa”.
Le cose d’altronde non avvengono per caso. La nascita della Se si colloca in un momento in cui, se tanti e duri sono gli ostacoli pronti a sbarrarne il cammino, non pochi sono però i segnali che sembrano poterlo favorire o addirittura sollecitare. Provo a citarne alcuni. La recente vittoria di Morales in Colombia è l’ultima di una serie elettorale che con il Brasile di Lula, il Venezuela di Chavez , l’Argentina di Kirchner, ha cambiato la faccia politica dell’America latina, confermandone la tendenza a sottrarsi all’antico controllo Usa, da anni emersa con il moltiplicarsi di movimenti indigeni in Messico, Bolivia, Ecuador, Guatemala, Perù, che hanno accolto con pubbliche proteste la recente visita ufficiale di Bush. E’ un fatto enorme, non solo per la sua vastità che in pratica coinvolge mezzo continente, ma per la sua qualità che va oltre le questioni strettamente economiche, riguarda diritti umani, problemi ambientali, indipendenza culturale, e - sostiene Chomsky - abbozza modelli socioeconomici alternativi. Inoltre in Sudamerica è ormai pratica diffusa intrattenere rapporti commerciali preferibilmente con paesi del sud del mondo, come India e Sudafrica. Insomma, per una Cina furiosamente impegnata a riprodurre su scala gigante e spingere a ritmi mai visti la gran macchina del capitalismo occidentale, non sono pochi i popoli emergenti che sembrano invece defilarsi dal dettato americano e sfuggire all’attrazione fatale del suo modo di vivere.
Altri eventi, sebbene di natura tutt’affatto diversa, sembrano muoversi in direzione analoga. Penso al fatto che con crescente frequenza la brutale scelta della Casa Bianca a favore della prosperità economica contro ogni salvaguardia ambientale, viene bocciata anche da paesi alleati (vedi il divieto canadese a trivellazioni di compagnie Usa in cerca di petrolio in Alaska) o addirittura da Stati dell’unione (non pochi di essi, California in testa, hanno optato per l’applicazione autonoma delle direttive di Kyoto, respinte dal governo centrale). Ma penso soprattutto alle tante iniziative “dal basso”, dalle manifestazioni di agricoltori contro il recente G8 di Montreal sul mutamento climatico alle nostre Scanzano, Acerra, Mugello, ecc. Battaglie di popolo, che non solo contestano l’irresponsabile indifferenza dei governi verso l’emergenza ambientale, ma sempre più tendono a supplirla. Esemplare in questo senso la vicenda TAV, che ha trasformato il dibattito su un problema locale in decisa e argomentata critica non solo di operazioni devastanti quanto non necessarie, ma dei concetti che ne sovraintendono la scelta, e quindi dei presupposti che guidano l’intero impianto economico. In realtà una nuova consapevolezza su questa materia, inesistente nel mondo politico, sembra stia nascendo tra la gente. Un recente sondaggio apparso su Repubblica ci dice che il 63,2 per cento degli italiani teme la catastrofe ambientale molto più (con un distacco di oltre 10 punti) che terrorismo, criminalità, perdita del lavoro, e quant’altro di solito maggiormente preoccupa.
E in questo complesso panorama del dissenso può collocarsi anche un’altra, diversissima, categoria di eventi, come lo sciopero prenatalizio dei mezzi pubblici di New York, e quello di recente realizzato su scala planetaria dai dipendenti della gigantesca catena di distribuzione Wall – Mart: eventi da più parti letti come ripresa del conflitto, ma con modalità che non hanno precedenti, come è logico che accada in un mondo radicalmente mutato. Una Sinistra europea che colga e porti a sintesi politica questa serie di segnali “anti-sistema” (peraltro assai più ampia di quanto sia qui possibile dire) forse potrebbe farsi battistrada per l’intera Unione nel tentativo di affrontare i tanti problemi che - dalla crisi ecologica planetaria, alle migrazioni, all’aumento della povertà, alla trasformazione del lavoro e dei rapporti economici - solo a livello sovranazionale oggi possono sperare soluzione. In un impegno che apporterebbe chiarezza anche ai problemi interni dei singoli paesi, essi pure in massima parte ormai inscindibili dalle vicende del mondo.
Tentare di mettere a punto fin d’ora il modello “alternativo” per cui lavorare sarebbe presuntuoso quanto vano. Progetti di questa portata non possono trovare definizione se non nel loro farsi, pur tenendo fermi alcuni obiettivi strategici. E l’indicazione della non-violenza, che va assai oltre il rifiuto e la condanna della guerra, di per sé in qualche misura prevede scelte decisamente “altre” rispetto a quelle oggi imperanti: la perdurante asimmetria del rapporto tra i sessi, l’abuso del lavoro, la spoliazione della natura, la privatizzazione dei beni comuni, la competitività come regola che dal mercato dilaga e invade la vita, che altro sono se non violenza?
[ Questo scritto è stato pubblicato anche da Liberazone , il 7 gennaio 2006]
Nota: per i temi fondativi della Sinistra Europea discussi ad Atene, su Eddyburg anche questo articolo dal Guardian (f.b.)