In un Paese dove l’emergenza istituzionale sta diventando la regola, il problema del patrimonio culturale rischia di apparire un tema "minore", buono al più per qualche scaramuccia di confine fra opposti schieramenti, e non, come invece è, una questione essenziale per la "tenuta" del Paese. Perciò preoccupa l’assalto all’articolo 9, «il più originale della nostra Costituzione» come ha detto Ciampi: il nesso fra i suoi due commi lega fortemente tutela, ricerca e fruizione, e verrebbe snaturato dall’aggiunta (che si può ben fare altrove) della protezione degli animali, propugnata tuttavia da parlamentari di destra e di sinistra.
Continua intanto l’intensa attività legislativa promossa dal ministro Urbani. Non mancano "mosse" positive, come il disegno di legge sulla qualità architettonica (peraltro già calpestato da un selvaggio condono edilizio) o il decreto legislativo che adatta la legge Merloni agli immobili di valore culturale. Più importanti (e più controversi) i due interventi di sistema, il nuovo Codice dei beni culturali e il riassetto del Ministero. I punti più deboli del Codice, frutti di soluzioni compromissorie, sono la sovrapposizione di competenze fra Stato e regioni (peraltro sancita dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione) e l’interpolazione del silenzio-assenso nell’art. 12 del Codice, scritto all’inizio con opposte intenzioni.
Nella sezione sul paesaggio, che modifica la legge Galasso del 1985, ottima è la definizione del paesaggio come prodotto di interrelazioni fra natura e cultura, secondo la formulazione della Convenzione europea; ma sarebbe stato meglio seguirla anche nella prescrizione di una "forte lungimiranza" per la pianificazione paesaggistica. Positivo l’obbligo di piani paesaggistici regionali con riqualificazioni e recuperi, buona la definizione del piano paesaggistico, cogente per i comuni, che aumenta aree e immobili da tutelare. Molto positivo il divieto di autorizzazioni in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, degli interventi: si dovrebbero così bloccare scellerati tentativi di depenalizzare gli abusi, come quello tentato pochi mesi fa, e poi ritirato.
L’innovazione più rilevante è che le Soprintendenze perdono il potere di annullare "a valle" le autorizzazioni edilizie delle amministrazioni locali, e acquistano la possibilità di partecipare, "a monte", alla redazione dei piani paesaggistici. Buona idea, se non fosse che la collaborazione delle Soprintendenze (preposte, secondo la Costituzione, alla tutela del paesaggio) viene lasciata alla buona volontà delle Regioni, che col Ministero «possono» (e non «devono») stipulare «accordi per l’elaborazione dei piani paesaggistici». Anche il parere di merito delle Soprintendenze sui singoli progetti, a richiesta di regioni o enti locali, per quanto reso «entro il termine perentorio di 60 giorni», non sembra avere valore vincolante, e non è nemmeno richiesto per modificare il colore delle facciate, con conseguenze temibili.
Quanto alla gestione dei beni culturali pubblici, il Codice eredita le ambiguità della normativa precedente. La gestione "indiretta" (di privati o fondazioni) è considerata equivalente a quella "diretta" delle amministrazioni pubbliche. Musei e monumenti possono essere "conferiti in uso" alla fondazione che li gestisce, purché la partecipazione dell’amministrazione pubblica sia prevalente. Peccato che questo principio sia stato già violato nello statuto della fondazione del Museo Egizio di Torino, secondo cui lo Stato, proprietario del Museo, lo "conferisce in uso" alla Fondazione, ma si auto-mette in minoranza nel Consiglio di amministrazione, composto di nove membri, dei quali uno solo (il soprintendente regionale del Piemonte) appartiene al Ministero, cinque sono di nomina politica (due dal ministro, uno ciascuno da Regione, Provincia e Comune) e tre sono designati dalle due fondazioni bancarie interessate. Il Consiglio nomina il direttore, a cui non è richiesta alcuna competenza egittologica; anche nel comitato scientifico, peraltro senza alcun potere, solo un membro su sette dev’essere egittologo.
È una piena abdicazione dello Stato al proprio ruolo, peraltro già scritta a tutte lettere nella legge Veltroni di riforma del ministero, secondo cui il Ministero «può partecipare al patrimonio delle fondazioni con il conferimento in uso di beni culturali». La riduzione dei musei a merce di scambio con gli agognati finanziamenti privati, a quel che pare, non è né di destra né di sinistra. Questo modello di Fondazione, che inglobando il Museo è di fatto sovraordinata all’amministrazione pubblica, non può funzionare e non funzionerà. Peccato, perché le Fondazioni museali potrebbero essere efficaci se organizzate in parallelo alle soprintendenze, senza subordinare gli esperti a chi competenza non ha (a Torino, gli egittologi a chi non ha mai visto un geroglifico). Miopi preoccupazioni localistiche hanno inquinato l’intera partita: a sei anni dalla legge Veltroni, non una Fondazione è operante, e dai privati arrivano molte promesse ma nemmeno un centesimo.
Ma i danni di questa concezione mercificata dei musei non si fermano qui: legata alla prospettiva delle fondazioni è infatti l’istituzione dei poli museali, decisa dal governo di centro-sinistra e attuata da Urbani. I poli istituiti a Roma, Firenze, Napoli e Venezia, per la prima volta nella storia e in contraddizione coi principi di tutela, hanno "scorporato" i musei dal territorio, considerandoli come entità a parte. Questo vuol dire per esempio che le grandi raccolte fidecommissarie di Roma, tutte di identica origine e storia, sono ora di competenza di soprintendenze diverse: ricadono nel "polo museale" se sono passate in proprietà pubblica (Borghese), sotto altra soprintendenza se sono ancora private (Colonna, Doria Pamphilj).
Si spezza così il nesso vitale fra la città, coi suoi palazzi e chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze e collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ferita al modello italiano di tutela ha una sola spiegazione: staccare i musei dalle soprintendenze territoriali per privatizzarli affidandoli a fondazioni come quella in gestazione per l’Egizio.
Urbani, sembra, sta ripensando l’intera materia nel contesto della riforma del ministero. L’unica soluzione decente sarebbe di reintegrare i quattro "poli" nel loro humus, creando altrettante soprintendenze urbane (città e musei). Pessima idea sarebbe invece trasferire i poli museali ai soprintendenti regionali, che spesso mancano delle competenze necessarie per gestirli. Più grave ancora sarebbe la ventilata abolizione delle due più importanti soprintendenze archeologiche del nostro Paese, anzi del mondo, quella di Roma e quella di Pompei. Di esse va invece garantita la massima autonomia gestionale, nonché l’alta professionalità e competenza specifica del Soprintendente-archeologo che le dirige.
Disastroso, infine, sarebbe intendere le Soprintendenze territoriali come uffici tecnici, emanazione periferica di quelle regionali, e ancor peggio affidare queste ultime a funzionari o manager di nomina politica e con scarse o nulle competenze specifiche. Su questo e su altri punti, la riforma del Ministero, che fa sistema con il Codice, ne svelerà presto spirito e intenzioni. Con un processo graduale, che potrebbe partire dalle Soprintendenze urbane di Roma, Venezia, Napoli e Firenze e dalle archeologiche di Roma e Pompei, tutte le Soprintendenze dovrebbero essere concepite come enti di ricerca e di tutela, dotati di ampia autonomia scientifica, amministrativa e contabile e gestiti in prima persona dal Soprintendente. Se lo Stato non vuole dichiarare la propria disfatta, c’è una sola strada possibile, ed è questa.