Una vergogna italiana. Nord e Sud, politica e amministrazione, uniti nell'affrontare nel modo peggiore il problema globale della produzione abnorme di rifiuti dello "sviluppo": il volto oscuro del trionfo della società opulenta. La prims puntata di un reportage di Angelo Mastrandrea e un'intervista a Massimo Scalìa. Il manifesto, 2 novembre 2013
«Il sud Italia, da Latina in giù, è la pattumiera d'Europa: a Formia 10 mila bidoni di rifiuti tossici, al largo di Salerno affondata una nave con scorie anche nucleari». Il pentito dei Casalesi Carmine Schiavone parla al manifesto e aggiunge nuovi dettagli alle sue confessioni. Ma nella «Terra dei fuochi» tra Napoli e Caserta le industrie continuano a utilizzare le discariche abusive, che poi vengono incendiate.
Coperta da un telo di plastica, una montagna di eternit. All'aria aperta. «Qui esistono una miriade di aziende che girano casa per casa a offrire prezzi competitivi per lo smaltimento dell'amianto. Poi, con le tute e le mascherine, vanno a buttarlo in campagna». Prima o poi i pannelli di eternit bruceranno, insieme a ciò che rimane dei frigoriferi, ai rifiuti dell'industria del falso e di quella legale, dell'edilizia e dell'agricoltura. Tutti insieme a comporre un mix micidiale di diossina e altre sostanze tossiche. Funziona così, nella Terra dei fuochi: si satura la discarica e poi, per eliminare qualsiasi traccia e liberare spazio per i prossimi rifiuti, si assolda un piromane che appicca il fuoco con maestria. È a buon mercato, la prestazione di un incendiario: 20 euro, non di più.
Qui, in questa pianura sterminata a cavallo tra l'alto napoletano e il basso casertano, dove la Terra di lavoro si trasforma in un groviglio di cavalcavia e paesoni, rotonde e strade poderali, il business dello smaltimento illegale, velenoso, assassino del territorio e di chi lo abita non si è mai fermato e prosegue indisturbato. Oggi come dieci o vent'anni fa. A Orta di Atella, Caivano, Succivo e in tutta l'area a nord di Napoli le discariche abusive si contano a decine. Si riempiono fin quando qualcuno non si premura di dare fuoco al tutto, poi riprendono a crescere, in un ciclo apparentemente infinito. Siamo nel cuore della Terra dei fuochi, così detta per via di quei roghi che quotidianamente la punteggiano e ne appestano l'aria, in un primordiale sistema di smaltimento dei rifiuti. È questo l'epicentro di quella «pattumiera d'Europa» cui un intreccio perverso tra mafie, un sistema industriale corrotto e malapolitica hanno destinato il sud Italia da Latina in giù, per ammissione di Carmine Schiavone, cugino di Francesco «Sandokan», capo indiscusso del clan dei Casalesi.
«Qui c'è un intero sistema industriale che smaltisce i rifiuti in questo modo, e lo Stato è connivente», dice Enzo Tosti, mio accompagnatore in questo tour nei luoghi di stoccaggio della «monnezza illegale», quella che sfugge a ogni censimento o statistica. Quanta gente si è presa la briga, a oggi, di analizzare una discarica abusiva rifiuto per rifiuto? Quali istituzioni si sono occupate di censire, monitorare, sorvegliare, prevenire quello che ogni giorno continua ad accadere nella ormai ex Campania felix?
Se il pentito Schiavone ha parlato dei veleni sotterrati o inabissati, Tosti cataloga ciò che emerge alla luce del sole, quel combustibile che alimenta i roghi della cosiddetta Terra dei fuochi. Non è una gola profonda della camorra e neppure un chimico o un biologo o un medico. È un operatore socio-sanitario, nella vita si premura di assistere giovani e meno giovani con problemi mentali, ma per amore della sua terra ha deciso di condurre una battaglia contro le discariche abusive e un sistema che definisce «sbagliato e marcio». Come altri attivisti dei comitati che si battono per una riqualificazione del territorio, Tosti trascorre le sue giornate con gli occhi aguzzati alla ricerca di una colonna di fumo nero, per segnalarla a vigili del fuoco e forze dell'ordine. Ma non è solo una sentinella del territorio. Piuttosto, mi sentirei di definirlo un entomologo della monnezza, un esperto di quel meccanismo perverso che parte da una fabbrica del nord Italia o da un cantiere edilizio della strada accanto e finisce nelle strisce di bitume, nei pannelli di eternit, in quei sacchi neri pieni di residui di pelli o calzaturieri, nei frigoriferi smontati, nei copertoni di auto e nelle plastiche delle serre messe in fila o ammassate una sull'altra nelle discariche abusive e che mi mostra articolo per articolo, come l'addetto a un museo dello scarto.
Tosti ha ragione. Bisogna guardarla da vicino, l'immondizia, per capire di cosa si parla. Solo così, osservando cosa si smaltisce, si può arrivare a comprendere quanto un intero sistema di produzione sia «marcio e malato», quali e quanti interessi si nascondano dietro al mantenimento di uno status quo insostenibile da tempo eppure ancora perfettamente funzionante. È possibile perfino arrivare a dare un volto agli inquinatori di professione, ricostruire una catena che dall'ultimo anello, il piromane su cui ogni campagna securitaria vuol ricadere ogni responsabilità e aggravare la pena, risale fino all'azienda dal volto pulito alla quale il più delle volte nemmeno si riesce a contestare il reato ambientale. Un esempio è davanti ai miei occhi, in una discarica a cielo aperto nelle campagne di Orta di Atella: ci sono residui della lavorazione di scarpe ovunque, taniche di collanti, ritagli delle tomaie. Tosti li racconta così: «Quest'area è da sempre un polo calzaturiero importante. Ora le grandi griffe parcellizzano il lavoro, affidando l'assemblaggio dei prodotti a centinaia di persone che lo fanno a casa loro. Una volta si premuravano loro di smaltire gli scarti, ora invece lo fanno fare a questi ultimi, perché non si possa risalire a loro in nessun caso».
La discarica abusiva sorge attorno a una collinetta sotto la quale c'è di tutto. In questa pianura a perdita d'occhio interrotta solo, sullo sfondo, dal Vesuvio, ogni collinetta nasconde un mostro che è meglio non risvegliare. Non è l'unica che visiterò: a Succivo il Comune ha mandato le ruspe ad accantonare i rifiuti al bordo delle strade, qui invece c'era già un sito di stoccaggio temporaneo dei tempi dell'emergenza rifiuti in Campania e tutto rimane dove viene abbandonato. L'intera Terra dei fuochi ne è disseminata e, come di solito accade in Italia, non c'è nulla di più stabile del temporaneo. Si capisce perciò la profonda diffidenza dei cittadini ogni volta che viene loro proposta una nuova discarica, un sito provvisorio o, ancor più, un inceneritore. I rifiuti, nella gran parte dei casi, non sono loro e neppure si tratta di immondizia urbana ma di altro e ben peggiore. Alle volte la terra fuma, quando piove il famigerato percolato si infiltra nel terreno e può arrivare a contaminare falde acquifere anche dopo anni. «Abbiamo fatto analizzare l'acqua di un pozzo, proprio qui vicino, ed è venuto fuori di tutto», dice ancora Tosti.
A duecento metri dalla discarica c'è un mercato abusivo: decine di ambulanti - molti africani - espongono la mercanzia a terra, lungo uno stradone e su uno spiazzo asfaltato e senza ombra. A fianco c'è invece un terreno coltivato.
È piuttosto comune, da queste parti, vedere campi arati o distese di alberi da frutta convivere con il disastro ambientale, i roghi e le cataste di rifiuti del tessile e del calzaturiero, dell'edilizia e dell'agricoltura. A Caivano un terreno coltivato fiancheggia un'altra discarica. Fino a quest'estate c'era un pescheto, ora gli alberi non ci sono più e il terreno è arato di fresco: le piante sono seccate. Perché? Non è raro incrociare intere piantagioni di alberi da frutta morti o filari di pioppi malati, ed è inevitabile per quale motivo accada, cosa ci sia lì sotto. I contadini si lamentano perché «nessuno vuole più i nostri prodotti» e ce l'hanno con i giornalisti: «Questa non è la Terra dei fuochi, è Terra di lavoro». Hanno ragione e allo stesso tempo torto: non si può fare di tutta l'erba un fascio, non tutto è inquinato e non tutti coltivano a ridosso di discariche. Ma in troppi hanno taciuto quando il territorio veniva violentato, pensando a curare il proprio orticello. Non è stato così, e loro sono rimasti in mezzo a due fuochi concentrici: i roghi e le agromafie, che impongono prezzi da fame per prodotti agricoli. Al mercato ortofrutticolo i pomodori vengono pagati otto centesimi al chilogrammo, le stesse mafie gestiscono il riciclaggio nelle discariche abusive degli scarti dell'agricoltura e poi fanno appiccare i roghi che avvelenano tutto, e nessuno vuole i prodotti di una terra malata anche se venduti sotto costo. E il cerchio di un sistema «malato e marcio» si chiude.
(1- continua)