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Francesco Erbani
Rytwerk: “I grattacieli sono inutili”
29 Marzo 2004
Periferie
Francesco Erbani intervista lo storico dell’architettura Joseph Rytwerk, su Repubblica del 6 settembre 2003.

«E´ vero, certi modi di costruire gli edifici favoriscono la criminalità. Mentre l´architettura che consente alle persone di stare per strada e di incontrarsi, di avere tanti luoghi pubblici a disposizione, quella che mette in condizione chi abita di potersi affacciare e di guardare ciò che accade di fronte, è un naturale ostacolo ai fenomeni criminali». Joseph Rykwert è uno dei massimi storici dell´architettura. Adesso vive a Londra, ma originario della Polonia, ha insegnato all´Università della Pennsylvania. Conosce benissimo l´Italia e non si sottrae a una polemica tutta italiana: le periferie dove svettano anonime torri, dove gli spazi pubblici sono inesistenti oppure manomessi e degradati, quelle periferie, insieme alla marginalità sociale, sono accusate di essere esse stesse causa di teppismo e di violenza.

Dopo i quattro omicidi di Rozzano si è sbattuto sul banco degli imputati il modo di costruire degli anni Settanta. Il suo ideale di razionalità, la sua tendenza al gigantismo, una terapia forse troppo drastica per curare una malattia di quegli anni: tante case, ma non per chi aveva pochi mezzi. Corviale, Le Vele, lo Zen, il Laurentino 38: mostri, qualcuno ha detto, che generano altri mostri. Non si è andati per il sottile. Non si è fatta differenza fra periferie realizzate dalla mano pubblica e periferie costruite da privati con finalità speculative. Un urlo - demoliamoli - ha coperto le voci di chi invitava a distinguere, di chi sottolineava gli sforzi compiuti da molte amministrazioni per risanare quei pezzi di città, o di chi valorizzava le iniziative di comitati e gruppi di abitanti.

Ragionarne al Festivaletteratura produce effetti spiazzanti. Ma non tanto. Il rapporto fra scrittori e lettori che qui si realizza è il risultato di un senso civico, di un culto per l´urbanità che Mantova custodisce nei suoi edifici e nelle sue piazze. E Rykwert, studioso di Giulio Romano, ma ancor più di Leon Battista Alberti, esordisce ricordando che uno dei suoi libri più celebri, L´idea di città (ripubblicato un anno fa da Adelphi), sia nato discutendone con Italo Calvino e che nei progetti doveva essere solo il primo capitolo di una storia delle città italiane concepita insieme al sociologo Carlo Doglio.

Letteratura e idea di città, dunque. «Un paio di anni fa ho comprato una casa a Venezia», racconta Rykwert, «nella zona di San Giobbe, vicino a un ospizio per anziani. Sono sempre attratto dalla quantità di tempo che quegli anziani trascorrono alla finestra. Osservano il passeggio, non fanno altro. Ecco, quella di poter guardare fuori è una condizione ideale perché un quartiere abbia una sua vita, una sua autonomia. Questo tipo di realtà comunitaria è un antidoto alla violenza».

Ma lei li abbatterebbe quei grandi edifici che popolano tante periferie?

«Qualcuno sì, soprattutto quando prevale la forma della torre. Ma, per restare agli esempi usati, Palermo non aveva certo bisogno dello Zen perché crescesse la violenza. Qualsiasi eccellente progetto architettonico, se mal realizzato, è una provocazione».

Nel suo libro più recente, La seduzione del luogo (Einaudi), Rykwert insiste sul fatto che per capire la storia e l´essenza di una città non si può ricorrere solo alle ragioni economiche o politiche.

«Si era sempre sostenuto che dietro la città romana ci fosse il castrum, cioè l´accampamento militare. Io sono convinto del contrario, perché nella fondazione di una città entrano con prepotenza elementi simbolici e metaforici. Che poi si trasferiscono anche nel castrum. Una città deve avere elementi che la rendano riconoscibile. Houston, per esempio, che pure è la città dei petrolieri - e si sa quanto i petrolieri contino ora negli Stati Uniti - non diventerà mai una vera metropoli. Perché è cresciuta solo accumulando parti su parti, e nessun nuovo innesto riuscirà a far sentire vivo quel tessuto urbano. Ed è sintomatico che oggi gli elementi monumentali di una città non siano più i palazzi delle istituzioni, ma i musei. Pensi al Guggenheim di Bilbao».

I musei e non i grattacieli, dunque. Rykwert ha una convinzione incrollabile: i grattacieli sono un disastro, non solo perché monopolizzano lo skyline di una città, ma perché commercialmente sono un equivoco.

«Ora stanno progettando due edifici di oltre 600 metri, i più alti del mondo, uno dei quali a Dubai. L´altro in India, in una piccola città del Madhya Pradesh. Dubai vuol dire petrolio, ma fra quaranta o cinquant´anni il greggio di quel paese potrebbe essere estinto. Cosa ci faranno allora con quell´edificio? Non è bastata la lezione londinese delle Docklands, dove i privati hanno fatto bancarotta, dopo aver costruito un immenso grattacielo?». Chi costruisce, insiste Rykwert, compie un atto pubblico. E perfino un eremo «è un atto pubblico». Ma gli architetti, molti architetti contemporanei, violano questo precetto. Le Torri Gemelle, conclude Rykwert, sono state identificate nei terroristi per la loro forza metaforica, perché «rappresentavano il trionfo del potere monetario». Ma nulla, nei 28 anni in cui sono vissute, «hanno aggiunto di positivo al tessuto urbano in cui erano inserite».

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