Bei tempi cinquant’anni fa, quando i buoni erano proprio buoni, e i cattivi si vendevano già dotati di serie dell'odioso ghigno beffardo tiraschiaffi! I tempi in cui la pimpante casalinga acculturata Jane Jacobs, nel tempo libero che le lasciavano la famiglia e la scrittura del futuro best-seller La Vita e la Morte delle Grandi Città, guidava l’assalto dei comitati di cittadini contro l’autostrada urbana dell’autocrate razionalista Robert Moses, un tipo poco abituato a discutere alcunché. Alte elaborazioni teoriche a parte, quando i buoni e i cattivi indossavano l’apposito contrassegno di riconoscimento c’era lo scontro fra yin e yang, bianco e nero, macchine e pedoni, quartiere contro cementificatori, eccetera, eccetera. E adesso? Adesso si fa tutto più intricato e difficile da capire.
Come si fa a sostenere che una università è il cattivo? Gli atenei sono la quintessenza della città postindustriale, portano posti di lavoro altamente qualificati, sono per tradizione e necessità strettamente legati alle economie locali ai vari livelli, dalla ricerca per le grandi imprese ai piccoli affari del bar d’angolo o delle camere affittate. Gli atenei per loro natura non sono spazi chiusi, astronavi che escludono il tessuto del quartiere, come magari rischiano di fare complessi per uffici, spazi della produzione, ospedali. Una università è anche un posto per passeggiare, attraversabile, non fa rumore, non ha emissioni nocive salvo un po’ di studenti tabagisti che fumano sul ballatoio …. Ma è proprio così?
No che non è così, e lo sa benissimo ad esempio qualunque abitante delle classiche città universitarie europee, magari quelle dove gli atenei sono cresciuti da secoli insieme a tutto il resto, rivelandosi inquilini legittimi e pure protagonisti, ma con una forte tendenza ad essere piuttosto invadenti. Immensi isolati urbani occupati in esclusiva, e gestiti come se fossero una caserma, tempi e ritmi propri, decisioni che possono cambiare il destino di enormi aree, spesso prese senza alcun rapporto con quanto accade o potrebbe accadere attorno. Ora la New York University presenta – data ufficiale di consegna della documentazione 3 gennaio 2012 - il suo progetto NYU Core, e con un colpo d’occhio alla sola planimetria generale viene davvero un pochino di tremarella.
In nude cifre, si tratta di oltre duecentomila metri quadrati di superficie di pavimento complessiva dedicati a funzioni sia didattiche e di ricerca che accessorie e di servizio. Poi c’è una parolina inquietante per chi ha qualche memoria proprio dei tempi dello zar delle grandi opere Robert Moses: superblocco. Il concetto era un tempo molto caro agli architetti razionalisti; c’è una foto storica che ritrae le Corbusier mentre guarda quasi adorante lo stesso Moses, artefice della trasformazione concreta di un suo schizzo nel famosissimo superblocco della sede Onu sull’East River. Peccato che dietro la bella parolona si nasconda la cancellazione brutale del sistema stradale urbano, della permeabilità dei quartieri, e potenzialmente la privatizzazione di ogni spazio, come ci hanno spiegato infinite volte prima William Whyte e poi Anna Minton.
Il tutto senza però mettere sul piatto della bilancia il corrispettivo economico-occupazionale di 18.000 posti di lavoro per le trasformazioni edilizie, o i 2.600 a lungo termine, nel quadro dell’espansione di una istituzione universitaria che dà lavoro a 16.000 newyorkesi per 55.000 studenti. C’è poi l’affermazione ufficiale secondo cui si intende “reinserire nel tessuto cittadino” gli spazi ad esso sottratti nelle operazioni di urban renewal (anche quelle gestite da Moses) negli anni ’50, in particolare nei due quartieri di case economiche a sud di Washington Square, area già ampiamente colonizzata dall’ateneo, secondo un sistema di spazi edificati e aperti con campi da gioco e verde. (qui il comunicato ufficiale della NYU)
Però tocca sempre ricordare anche come già negli anni precedenti delle grandi sostituzioni urbane, fossero le autostrade litoranee, o i complessi popolari razionalisti da migliaia di abitanti per volta, o la vera e propria deportazione di certi quartieri per nulla degradati per far posto a qualcos’altro (vedi Stuyvesant Town o la famigerata Bronx Expressway che innescò la leggenda della metropoli infernale), si prospettavano puntualmente futuri luminosi. Non è un caso se la più netta opposizione arriva da chi di storia se ne dovrebbe intendere, ovvero l’associazione per la tutela del Greenwich Village. Che seguendo il famoso metodo della sua madrina Jane Jacobs ha fatto una cosa: guardare il progetto. E ci ha visto un sovraccarico di metri cubi più o meno monofunzionali, “torri costruite sopra altre torri”, che poco avrebbero a che vedere con le teorie densificazioniste new urbanism, e molto invece con un classico approccio monopolista spaziale, non diverso da quello di qualunque progetto di insediamento di un campus di impresa, magari con le telecamere e le guardia armate su tutto il perimetro.
Sono i soliti nimby? Sono dei borghesi fortunati, che abitano una zona piuttosto esclusiva a bassa densità in centro e non vogliono vedersela rovinare dall’espansione universitaria? Oppure esprimono davvero una preoccupazione che dovrebbe essere di tutta la città, per quel genere di progetti sbandierati come perfettamente postmoderni, “sostenibili” per antonomasia, e invece dietro la retorica delle belle parole nascondono una logica particolare, se non addirittura speculativa? Beh, chi vuole farsi un’idea si può scaricare da qui la scheda di massima del progetto, magari dopo aver scorso le puntuali critiche pubblicate un paio di giorni fa da The Villager. Dati e informazioni più complete e disaggregate sul progetto scaricabili anche dal sito Valutazione di Impatto, dell'Ufficio Urbanistica cittadino.
p.s. per un parziale confronto di metodo coi temi di casa nostra, si vedano gli sviluppi della polemica milanese in corso fra Gianni Biondillo, il sindaco Pisapia, e altri (f.b.)