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Fabrizio Bottini
Politiche non è (solo) il plurale di politica
16 Dicembre 2011
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Le recentissime esplosioni di violenza urbana a sfondo razzista in Italia affondano di sicuro le loro radici nel cambiamento. Ma è inutile, forse anche rischioso, evocare solo alti principi

Vorrei partire citando una odiosa, odiata, quindi a modo suo azzeccata battuta: con la cultura non si mangia. Azzeccata perché dice qualcosa di vero, pur nella sua odiosa prospettiva, ovvero che stanti certi attuali orientamenti non è certo col sostegno al teatro off e al restauro di un bastione, che sarà possibile far profitti. Il che suscita tutta l’ovvia indignazione possibile, ma è innegabilmente vero, nel suo angusto enunciato. Così come è innegabilmente vero, che le riflessioni sugli ultimissimi eventi di violenza urbana in Italia si sono rapidamente quanto classicamente involate, da quasi subito, verso una miriade di massimi sistemi: tutti ragionamenti degnissimi, ovvio, e preziosi, a volte, ma che dal punto di vista della conoscenza specifica ci lasciano al punto di prima.

A Torino il movente razzista popolare, mescolato alla sottocultura familista e sessista, al disagio delle periferie abbandonate, ai tagli al sistema del welfare, e con un balzo ulteriore (che pare di approfondimento ma ahimè si allontana dal punto) dovremmo “chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza”, per usare le parole di Paolo Berdini. A Firenze la pianificata violenza nazifascista da terzo millennio, mescolata al generico razzismo contemporaneo, che di nuovo evoca sia lo smarrimento per l’inconoscibile della mente umana alla radice di tutte le violenze assurde del genere, sia le risposte di tipo politico-costituzionale sull’illegalità oggettiva di certi gruppi troppo a lungo tollerati nel ventennio berlusconiano del fascismo scongelato a scopo elettorale. Ottimi principi, con cui però ahimè si continua a “non mangiare”.

Ovvero a non battere chiodo nel caso, eventuale, in cui si volesse davvero risolvere qualche problema anziché invocare nuovi e diversi paradigmi generali di ordine sociale, politico, di convivenza ecc. E in cui si volesse anche evitare, operazione sempre utile, che altri, portatori sani di nuovi paradigmi alternativi, finiscano per imporli implicitamente, magari mescolati dentro alle solite politiche confuse e improvvisate: dagli interventi sul tema della verginità minorile, al tifo calcistico organizzato, all’economicamente insostenibile eliminazione dei campi rom. O d’altra parte al trattamento psichiatrico obbligatorio dei ragionieri nazisti, o alla telesorveglianza dei mercati rionali, alla stretta sul porto d’armi … Perché sono tutti temi evocati, prima o poi. Il che fa venire in mente un simile dibattito, egualmente confuso e contraddittorio, molto ma molto recente, anche se del tutto o quasi dimenticato: quello sulle rivolte britanniche di quest’estate.

Allora, le reazioni istintive non mancarono certo dei classici toni da critica ai massimi sistemi: la rivolta frutto di scelte urbanistiche sbagliate della sinistra, oppure da queste contenuta nei suoi effetti più potenzialmente devastanti; la rivolta determinata dal disinvestimento nei servizi sociali e di sostegno alle famiglie, oppure dal lassismo dei medesimi servizi, della scuola che non sa più insegnare disciplina e cittadinanza, della televisione che impone modelli scemi e consumisti. Ce n’era, insomma, per tutti i gusti, e anche di più. Ogni specialismo e specifico punto di vista poteva ampiamente trarre spunto per portare un po’ d’acqua al proprio mulino (credo di ricordarmi di averlo fatto anch’io, lo confesso, e forse più di una volta). Ma c’è almeno un aspetto che conferma la cultura un po’ più positivamente empirica del mondo anglosassone, dal quale noi sempre appesi lassù alle grandi categorie avremmo molto da imparare. Mi riferisco all’indagine sociologica urbana lanciata quasi immediatamente dalla London School of Economics in collaborazione col Guardian.

Ricerca per capire, con i classici strumenti dello studio sul campo, in che contesto sociale, motivazionale, ambientale urbano, familiare, di gruppi e bande, da quali ragioni individuali e collettive si è innescata l’inopinata esplosione delle riots. Il metodo parte dalle interviste dirette a chi è stato protagonista degli eventi, ed è a sua volta ispirato a quello utilizzato a Detroit negli anni ’60, anche nella collaborazione fra in istituto universitario e un quotidiano. Una seconda fase prevede indagini simili sull’altro versante della barricata, ovvero le forze del’ordine e la magistratura. Il fatto davvero interessante e innovativo, dal punto di vista dei non esperti, ovvero anche di chi eventualmente poi dovrà discutere e adottare materialmente politiche urbane coerenti, è che la ricerca Reading The Riots si può leggere in diretta, in progress, e alle elaborazioni dati, alle osservazioni specialistiche, affianca costantemente stimoli della cronaca, dei commenti, degli approfondimenti.

Poi, se si hanno orientamenti conservatori si può comunque continuare a leggere tutto come problema di mancata responsabilizzazione degli individui, se si è di sinistra trovare l’anello debole nella crisi del welfare nelle sue varie manifestazioni. Però di sicuro anche i più impavidi decolli verso l’iper-uranio di grandi principi e nuovi paradigmi avvengono sempre con l’ancoraggio di controllo del dato empirico in forma massimamente accessibile. Detto in altre parole: se esiste un riferimento di conoscenze certo e aperto, dotato di una propria struttura, legittimazione, elasticità, l’eventuale malafede o pura ingenuità del nostro cosiddetto “benaltrismo” (piaga nazionale peggio della malaria) è costretta suo malgrado a levare le tende. Un risultato non da poco.

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