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Ralf Dahrendorf
Quando le "quote" provocano ingiustizia
11 Dicembre 2005
Scritti 2004
Come far sì che le politiche di protezione di determinati gruppi sociali non diventino penalizzanti per altri? Dahrendorf illustra la soluzione USA dell’"affermative action", in Europa bisognerebbe ragionare sullo Stato sociale, complemento essenziale dello Stato dei diritti. Da la Repubblica del 21 febbraio 2004.

FONDAMENTALE per un ordinamento liberale, la parità dei diritti per tutti i cittadini offre l’opportunità di prendere parte alla vita politica, formare associazioni, esprimere le proprie opinioni. E apre inoltre le porte alla partecipazione ad attività economiche e istituzioni sociali, tra cui in particolare la scuola. Le garanzie costituzionali in ordine a questi diritti sono il risultato eminente di una lunga lotta per i diritti civili, che ha segnato gli ultimi due secoli.

Spesso però la legge non basta a garantire questi diritti. Lo stesso diritto di voto ha scarso significato per chiunque dipenda totalmente da altre persone o istituzioni. E anche l’uguaglianza davanti alla legge rimane una promessa priva di contenuti per chi non disponga dei mezzi, o semplicemente del necessario grado di informazione per ottenerla. Il diritto a un’istruzione commisurata al proprio talento comporta varie forme di incoraggiamento. Di fatto, una delle maggiori aspirazioni nel campo del progresso sociale del Ventesimo secolo fu quella di rivestire di sostanza sociale il concetto astratto di parità dei diritti: un obiettivo che implica la necessità di incoraggiamenti attivi, ad esempio attraverso l’informazione e l’educazione politica. Per dare concreta attuazione al diritto all’istruzione è stato necessario impegnare risorse per dare aiuti economici agli studenti, attraverso prestiti o borse di studio. Ma nonostante tutti questi interventi, la parità dei diritti continuava a trovare ostacoli particolarmente tenaci. Alcuni settori importanti della popolazione continuavano ad essere scarsamente rappresentati negli ambienti di maggior prestigio e successo: in particolare le donne, ma anche alcune minoranze culturali, e segnatamente quelle definite da una caratteristica estranea a qualsiasi scelta personale, quale il colore della pelle.

Tra i grandi manager, ministri o titolari di cariche governative, ma anche tra i docenti, medici o avvocati era raro trovare esponenti di questi gruppi, tanto da far sospettare l’esistenza di una barriera invisibile. A giocare a sfavore delle donne e dei neri era forse l’arroccamento su una certa cultura istituzionale. Per garantire reali diritti di cittadinanza a tutti non bastavano dunque le garanzie legali e l’informazione, e neppure il sostegno finanziario.

La decisione coraggiosa di porre rimedio a queste inveterate ingiustizie ricorrendo a una politica di nuovo tipo, almeno per un periodo di tempo limitato, è stata presa per la prima volta negli Stati Uniti. Si è proceduto al varo di una serie di norme, che complessivamente hanno preso il nome di "affermative action", in base alle quali l’accesso a tutta una serie di uffici o mansioni - ad esempio nella polizia o nell’esercito, così come a percorsi di studio, di insegnamento o altro - doveva essere riservato, per una data percentuale, ai membri dei settori o gruppi che in precedenza avevano subito discriminazioni. La vigilanza sull’affermative action era affidata alla Corte suprema degli Usa.

In tutti i casi in cui è stata applicata seriamente, l’affermative action si è dimostrata innegabilmente positiva; ciò vale in particolare per i paesi a popolazione un tempo omogenea, che si trovano oggi a confronto con gruppi di colore, di religione musulmana, o comunque appartenenti a una minoranza identificabile e negletta. Ora però, proprio mentre si guarda all’America per trovarvi un modello di politica da adottare, l’affermative action incomincia a suscitare una serie di dubbi, tre dei quali appaiono di particolare importanza.

Primo: non si corre il rischio di provocare nuove ingiustizie nel senso opposto, o in altri termini, di discriminare chi un tempo era privilegiato? Negli Stati Uniti questo problema è stato affrontato per la prima volta dalla Suprema Corte nel caso di uno studente bianco che si era visto negare l’iscrizione alla facoltà di medicina, benché i suoi titoli accademici fossero superiori a quelli di altri candidati. In Gran Bretagna gli alunni delle scuole private rischiano ora di trovarsi in posizione di svantaggio a causa della pressione delle università, che tendono a favorire l’iscrizione di un maggior numero di studenti provenienti dalle scuole statali. Tutto ciò ci riporta alla ben nota vexata quaestio: può la parità coesistere con l’eccellenza?

Secondo: la parità di rappresentanza a tutti i livelli corrisponde davvero al desiderio e all’esigenza di tutti i gruppi e settori della popolazione? In molti Paesi, la «femminizzazione» della professione di insegnante non ha danneggiato nessuno; e molti altri hanno tratto benefici dallo spirito imprenditoriale di minoranze cinesi ed ebraiche. Non corriamo il rischio di inseguire un’idea troppo meccanica, confondendo il superamento di privilegi e svantaggi con la cancellazione delle diversità?

Terzo: con l’affermative action non si rischia di generare in alcuni casi un nuovo tipo di rigidità settoriale, con effetti distruttivi su quella stessa società civile che si voleva costruire? E si è davvero certi, ad esempio, che le donne siano sempre le migliori sostenitrici degli interessi del loro genere?

La stessa domanda si potrebbe applicare ai membri di gruppi religiosi e di minoranze etniche, e persino di alcune classi sociali. C’è da rabbrividire al pensiero di un Parlamento i cui membri siano prescelti in prima istanza in base al criterio di appartenenza a un gruppo bisognoso di affermative action. E di fatto, in taluni paesi la democrazia non riesce a dar vita a un governo efficiente e immaginativo proprio perché mira soprattutto a dare spazio ai gruppi più consistenti.

Per tornare al punto di partenza: l’affermative action è stata ed è tuttora una coraggiosa mossa finale nella lotta per i diritti civili universali, non solo sulla carta ma nella realtà; ma non deve diventare un principio permanente nell’ambito di un ordinamento liberale.

Se c’è una normativa che necessita di una «sunset clause», ovvero di una clausola di temporaneità, che ne imponga la revisione entro un termine prestabilito, questa è l’affermative action. In questo senso la flessibilità della Corte suprema degli Stati Uniti è ammirevole. Altrove, la soluzione migliore sarebbe probabilmente quella di includere nelle legislazioni dei singoli Stati e negli statuti delle organizzazioni una clausola che preveda il decadimento della norma per l’affermative action dopo un periodo di cinque, o al massimo di dieci anni. Certo, si dovrebbe prevedere la possibilità di un rinnovo del provvedimento. Ma nulla è più efficace di una scadenza prefissata per imporre lo sforzo mentale di una revisione approfondita.

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