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Antonio Gnoli
Pier Luigi Cervellati
6 Agosto 2017
Altri padri e fratelli
«Sono cresciuto in una strada malfamata, tra gente che viveva pericolosamente. Era povera ma bella. Oggi invece le città sono sempre più degradate e noi sempre più stressati». la Repubblica Robinson, 6 agosto 2017 (c.m.c)

«Sono cresciuto in una strada malfamata, tra gente che viveva pericolosamente. Era povera ma bella. Oggi invece le città sono sempre più degradate e noi sempre più stressati». la Repubblica Robinson, 6 agosto 2017 (c.m.c)

«Ah, le prostitute e i ladri di una volta! Vogliamo mettere? » . Ecco un modo un po’ stravagante di iniziare una conversazione lunga e proficua con Pier Luigi Cervellati, architetto, urbanista che ha dato la prima grande sterzata in Italia, blindando e recuperando nei primi anni Settanta il centro storico di Bologna. Le prostitute e i ladri si diceva: « Beh più che nella fantasia entrano nei ricordi di un bambino che abitava in via Fondazza, strada frequentata da gente che viveva pericolosamente».

Oggi, a ottant’anni compiuti, Cervellati abita in una casa studio, non distante, nel centro di Bologna. Colpisce la presenza di alcuni manichini: « Li colleziono da anni e ho appena allestito una mostra». Guardo la loro attonita malinconia, che si spegne nella rigidità ortopedica di certe forme. È come se l’assenza di anima sia compensata da una necessità metafisica di stare al mondo. Non è questo in fondo che cercava de Chirico? Cervellati sorride e mi indica una bambola dalle fattezze graziose e naturali: «Vede quella lì, con l’aria distante e seducente? Serviva all’equipaggio della nave quando stava a lungo in mare e non c’erano né porti né donne».

È curioso che la nostra conversazione sia iniziata proprio su ladri, prostitute e bambole di servizio.
«Ma sa, perfino Lucio Dalla, che qui è ormai un mito santificato, parlava “di ladri e di puttane”».

E poi Bologna ha avuto sempre larghe vedute in fatto di erotismo. Come lo spiega?
«Non ho una spiegazione, se non che dopo Roma era la città con più chiese e conventi. L’eros forse richiede una certa dose di pentimento, non trova?».

Non sapevo di questo dispiegamento religioso.
«Bologna è stata una fabbrica di preti. Di ordini religiosi: benedettini, francescani, domenicani. I loro conventi erano la seconda cinta della città. Se ne contavano all’incirca centoventi. Vero baluardo, a nord, dello Stato pontificio».

Che fine hanno fatto quei conventi?

«La gran parte di essi, dopo l’arrivo di Napoleone e dei suoi generali, fu alienata. Nel tempo ci sono state lottizzazioni, o destinazioni amministrative: tribunali, scuole, caserme. È buffo».

Cosa è buffo?
«In piena controriforma, che qui fu particolarmente incisiva, Bologna sviluppò grande interesse per le scienze anatomiche. In quale altro posto il corpo umano era oggetto di una visione al tempo stesso profondamente sacra e profana?».

Lei ha respirato più il sacro o il profano?
«Non sono un uomo dalle spiccate tendenze religiose. Rimasi colpito che il mio maestro Leonardo Benevolo fosse intriso di una certa spiritualità cattolica. Era chiaramente una percezione diversa rispetto alla mia formazione».

Nata come?
«Nata da un padre, operaio delle ferrovie, saldamente ancorato alle traversine dell’esistenza. Non l’ho mai visto dubitare dei binari su cui aveva messo la sua vita. Aveva fatto la prima guerra per finire prigioniero degli austriaci; fuggì poco prima dell’armistizio. A quanto pare fu una fuga rocambolesca, ma non ne volle mai parlare. Nel 1938 si iscrisse al Partito Comunista d’Italia e per tutta la vita ha letto l’Unità e, finché c’era, il Calendario del popolo. Ricordo che negli anni Cinquanta compravo Il Mondo e lui si incazzava, non voleva che in casa circolasse la stampa borghese».

Tosto e ortodosso.
«Tostissimo. La prima Coca-Cola l’ho bevuta a cinquant’anni. Anche lì niet. Sapevo che alcune cose in casa non potevano entrare».

Ed è sempre stato così conflittuale il rapporto?
«Non fu mai una relazione temperata. Però è curioso: somigliando fisicamente a mia madre, una mattina, allo specchio vidi due rughe a parentesi che chiudevano il volto. Con stupore mi accorsi di avere la stessa faccia di mio padre».

Come reagì?
«Avevo passato metà della mia vita a detestarlo silenziosamente. Ma quella somiglianza disinnescava la bomba d’odio. Cominciai non dico ad amarlo, ma a comprenderlo. Perfino quella sua fedeltà assoluta al Partito comunista, che mai vacillò, mi sembrò innocente».

Lei è stato comunista?
«Non avrei potuto con quell’esempio in casa. D’altronde a Bologna il comunismo, più che un’ideologia, fu uno stile di vita. E per questo da indipendente l’ho appoggiato. Soprattutto quando ho fatto l’assessore».

Proviene da studi di architettura.
«Ho studiato a Firenze, entrai all’università nel 1956. Allora non tutte le università avevano la facoltà di architettura. Vi insegnava Ludovico Quaroni. Non era particolarmente simpatico, ma indubbiamente conosceva la materia. Ero abbastanza digiuno di cultura. Avevo scelto architettura dopo aver letto Storia dell’architettura moderna, di Bruno Zevi. Il libro era uscito nel 1950 e per me fu una rivelazione. O meglio all’inizio fu un testo importante».

Si è poi ricreduto?
«A suo modo resta un classico, anche se col tempo presi le distanze da quella impostazione. In fondo Zevi fu il fautore di una modernità che non risparmiava la città storica. Ricordo la sua frase ricorrente: quello che oggi è moderno domani sarà storico! Tanta baldanza mi dava fastidio. I suoi papillon, le pipe ostentate, le giacche di tweed divennero la divisa di ordinanza tra gli architetti. Una volta, durante un confronto pubblico, gli diedi del trombone».

E lui?
«Si offese mortalmente. Capitava che ci si incrociasse ai convegni: se c’è quello stronzo di Cervellati io non parlo! Esclamava veemente».

Cosa non andava nella concezione moderna di Zevi?

«Un fatto semplicissimo: per me la città storica va considerata come un unico monumento e come tale difeso. Arrivai a questa conclusione soprattutto grazie all’insegnamento di Benevolo. Il nostro rapporto ebbe inizio nei primissimi anni Sessanta ed è andato avanti fin quasi alla sua morte».

Cosa ha appreso da lui?
«Fondamentalmente l’idea che l’architettura è una costruzione sociale. Credo che l’avesse ereditata dal pensiero di Walter Gropius. E già con questa premessa si poteva misurare tutta la distanza da coloro che, come Zevi, interpretavano il mestiere dell’architetto alla stregua dell’artista o del creativo. Il passo perché questa figura diventasse l’odierna archistar fu brevissimo».

Con quali conseguenze?
«La parte individuale ha soffocato interamente la dimensione collettiva. Non ho motivo di credere che certi progetti siano frutto della malafede o dell’ignoranza, o del mero egocentrismo, ma ho il sospetto che si sia tenuto in poco conto il valore storico e l’evoluzione di una città. E la conseguenza più vistosa è il passaggio dalla città storica a un aggregato urbano senza alcun senso, che si disperde nella campagna».
« Non credo di avere un’idea antiquariale della città. Conservare non vuol dire opporsi alle spinte evolutive del tessuto urbano; significa però avere la consapevolezza che in Italia il bene culturale va tutelato perché parla della nostra identità».

Tutto parla della nostra identità, anche le cose peggiori, i misfatti urbanistici non fanno eccezione.
«So bene che antropologicamente siamo un misto di cose orrende ed eccelse; mi limiterei in questo caso a osservare che l’architettura non può lasciarsi andare all’insensato, alla mera prevaricazione speculativa. Guardi cosa è accaduto con il “centro storico”».

Cosa è accaduto?
«Si è scambiata la città storica con il centro storico. Si è privilegiato quest’ultimo ma a forza di chiamarlo “centro” lo si è esposto a tutte le mode e deturpazioni possibili e impossibili».

Quando dice città storica cosa intende?
«Il primo a dare una definizione accettabile fu Tommaseo: un insieme funzionale e comunitario soggetto alle medesime leggi e sottratto all’anarchia del caso o dell’individuo. La città dell’ancien régime ha le sue leggi, funzioni, identità. Ed era appunto una città non un centro storico».

Cosa pensa dell’architettura fascista?
«Non ho alcun pregiudizio verso quell’esperienza che ha avuto in Giuseppe Terragni l’espressione più geniale. Egli fu uno dei figli del razionalismo europeo e in particolare dell’elaborazione di Le Corbusier».

Fu anche uno dei “figli” del regime.
«Non c’è dubbio che il fascismo seppe fregiarsi di una certa modernità, quando questa gli servì. Ma città come Latina o Sabaudia le demolisci solo perché sei antifascista? Tra le molte cose che ho appreso da Benevolo c’è anche quella di andare oltre il furore ideologico che non è mai un buon criterio estetico».

Lei separa nettamente la politica dall’estetica?
«Mi capita di affermare che Ezra Pound è il più grande poeta del Novecento».

Aggiunga fascista e antisemita.
«Ho presente le sue disavventure politiche per le quali finì in quella specie di Guantanamo che fu la gabbia in cui venne rinchiuso dagli americani non lontano da Pisa. Nondimeno resta un grande della letteratura e continuo a leggere con infinito piacere La terra desolata di Eliot che lui rivide a fondo».

Quindi cultura e fascismo non necessariamente si escludono?
«Non la metterei su questo piano. Marcello Piacentini passò per una specie di genio dell’architettura e dell’urbanistica. Mentre l’ho sempre considerato retorico, trionfalistico, inutilmente monumentale. O, per fare un esempio in campo filosofico, Giovanni Gentile fu indiscutibilmente fascista e lo fu fino in fondo. Ma la condanna politica implica automaticamente la condanna del suo pensiero?».

Se potesse sentirla suo padre.
«Già, chissà cosa direbbe. Però penso che alla fine lui abbia non dico accettato ma capito la mia contrapposizione a tutte le ortodossie. Anche se ero io tra i due a sentirmi più stupido».

Più stupido?
«Non avendo attraversato la temperie delle due guerre, non percepivo in me l’intelligenza che nasce dalla coerenza, ma anche dal rischio e dalla sopravvivenza. In fondo pur non condividendo nulla del suo comportamento, alla fine è cresciuto il mio affetto per lui».

Ci torna mai in via Fondazza?
«È qui a un passo. A parte il luogo della mia infanzia con il comune abbiamo realizzato una serie di case popolari per gli abitanti. Non c’era luce né i gabinetti; c’era, come le dicevo, la prostituzione. Confesso che un po’ mi vergognavo di abitare in via Fondazza, preferivo dire che la mia casa era di fronte allo studio di Giorgio Morandi. Ricordo nei primi anni Sessanta le passeggiate che con Francesco Arcangeli facevamo soprattutto il sabato».

Lo storico dell’arte?
«Sì, l’allievo di Roberto Longhi. Con lui aderii a Italia Nostra e conobbi Antonio Cederna. Antonio era una delle ragioni per cui compravo Il Mondo e fu comprensibile l’emozione che avvertii davanti a quest’uomo integerrimo, i cui articoli in difesa del paesaggio italiano mi riempivano di ammirazione. Lo invitammo con Arcangeli a spendersi per la difesa della chiesa di San Giorgio, che il cardinal Lercaro voleva trasformare in un albergo. Furono due uomini straordinari, che dovettero subire la ferocia dissipativa del loro tempo».

A cosa pensa?
«Beh, Antonio non faceva che ripetere quanto la sua voce fosse rimasta inascoltata. Di Arcangeli ricordo il trauma che gli provocò Morandi quando, leggendo in bozze il libro su di lui, non vi si riconobbe per niente. E Arcangeli non si diede mai pace per quel giudizio così duro. D’altronde, sotto l’apparente bonomia, Morandi aveva il cuore ricamato con il fil di ferro. Per non parlare infine delle delusioni di Benevolo».

Provocate da cosa?
«Penso alla sua vicenda universitaria e al fatto che per tre volte fu respinto al concorso a Roma. Al quarto tentativo riuscì ad andare a Firenze. E poi a Venezia dove venne chiamato da Giuseppe Samonà, rettore allo Iuav. Noi assistenti lo seguimmo. Credo si sentisse fuori luogo, soprattutto dopo l’arrivo di Manfredo Tafuri. Quando, qualche tempo dopo, Benevolo passò all’università di Palermo, Tafuri ci fece trovare tutte le nostre cose sul pianerottolo. Fu un gesto piuttosto brutale, ma credo che alla fine rappresentasse i reali rapporti di forza. Tafuri, con una barba da profeta, interpretava perfettamente lo spirito del tempo. Benevolo per volontà e stile ne era immune».

E il suo tempo?
«Se guardo a ciò che ho fatto e a quello che è rimasto, ho l’impressione di far parte di una foto ormai ingiallita. Sono stato fortunato di essere cresciuto nella bellezza di una strada, anche se malfamata. Ma l’ho capito tardi. A volte mi chiedo se sia stato testimone e artefice di qualcosa di importante. Vedo le cinquanta sfumature di nulla: il turismo sempre più di rapina, le città sempre più degradate, gli uomini sempre più stressati e non ho la certezza che il mio mestiere di urbanista sia servito per chiarire o per difenderci da tutto questo. Però devi continuare a credere in quello che hai fatto. E se la vita ti ha dato troppo o troppo poco fallo dire agli altri. Oggi ammazzo il tempo prima che il tempo ammazzi me. Ho una sola preoccupazione, meglio una speranza: che i neuroni non si ritirino come le basse maree. Prego. Signore, allontana da me questo calice di stupidità».

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