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Roberta De Monticelli
Dell’obbedienza e della servitù: sull’attualità di don Milani
4 Luglio 2017
Altri padri e fratelli
I grandi temi dell'obbedienza e disobbedienza attraverso alcuni capisaldi della nostra cultura,

libertàegiustizia, 4 luglio 2017 (c.m.c.)

«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?». Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più che padre e madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte – “fuorilegge, devota” a una legge non scritta, “misteriosamente eterna”, che a quella positiva si oppone.

Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano le figure dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto – entrambe – modi della libertà. Perché c’è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente – e non a un uomo che si pone al di sopra di essa – è esercizio di libertà come auto-nomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai “sovrani di domani”. Come ai cittadini che saranno, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare, accettando socraticamente le conseguenze penali, a quelle ingiuste. Invece l’obbedienza che “non è più una virtù”, se mai lo è stata, non è un modo della libertà, ma del suo contrario – dell’asservimento, prigionia della mente e servitù del cuore. Può essere l’obbedienza a un uomo e non a una norma legittima, o può essere l’obbedienza cieca, o indifferente. Servitù – è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Questo è il cuore del pensiero di don Lorenzo Milani, cittadino e cristiano, quale si esprime in questi testi pubblicati nel 1965 in difesa dei primi obiettori di coscienza alla coscrizione militare, e in risposta all’accusa di apologia di reato, per la quale don Milani subì un processo.

L’orrore della servitù volontaria: è il punto di fusione – al calor bianco – fra il demone di Socrate, che libera con la critica dalla prigionia della mente, e la divinità nell’uomo di Cristo, figlio e non servo, che libera dalla sudditanza del cuore. Don Milani lo sa: lo dice nella Lettera ai giudici – la sua fiammante, socratica Apologia, che ogni ragazzo dovrebbe leggere appena si sveglia al dubbio e all’esistenza. Il Critone e l’Apologia di Socrate, insieme con i quattro Vangeli: ecco le prime due fonti di quella “tecnica di amore costruttivo per la legge” di cui il maestro di Barbiana si fa apprendista, insieme con i suoi ragazzi.

Si dovrebbe notare la delicatezza e insieme la densità di questa espressione, “tecnica di amore costruttivo”. Tecnica – perché l’amore per la cosa pubblica si esplica nella virtù del cittadino, che è innanzitutto rispetto per il valore della legalità, e quindi per i suoi delicati meccanismi, fra cui le leggi e le sanzioni. Non si esercita la virtù civile solo con lo slancio del cuore. Si esercita, ad esempio, nel “violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede”. I giovani che accettano la prigione conoscono quanto Socrate il valore della legalità. Amore costruttivo – perché “chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri”.

La legge: la legge civile, la legge della Città terrena, sia ben chiaro. E non conosco fra gli eredi di Agostino (se non forse per certe pagine di Rosmini) altro esempio altrettanto limpido e intenso di riconoscimento del valore autonomo, tutto umano, della legalità in quanto tecnica di autolimitazione del potere. Don Milani è evidentemente estraneo al pensiero (di radice agostiniana) che identifica la Città terrena con la civitas diaboli, e consente ai rappresentanti umani della Città celeste, dispersa e confusa nel peccato del mondo, ogni compromesso o addirittura compromissione con quel volto diabolico della politica che pure nell’intimo disprezza. Non conosco in epoca recente altra così grande eccezione al sottinteso disprezzo cattolico per la cosa pubblica e le virtù della cittadinanza, che ha forgiato nei secoli la nostra minorità civile e la nostra indifferenza all’etica pubblica.

E’ importante capirlo: non è la “legge divina” che suggerisce a don Milani il suo “costruttivo amore” per la legalità repubblicana, o se lo è, lo è solo in quanto questa legge divina non decreta affatto il primato, sulla legge dello Stato, di un’altra Sovranità, di una Chiesa, di un Libro o di una Dottrina, ma solo il primato della coscienza individuale – e con questa limpida affermazione, come nella difesa di quei testimoni solitari che erano gli obiettori, sfugge anche alla banalizzazione di chi lo classifica come catto-comunista. “La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato” è certamente, scrive con candore don Milani, “dottrina di tutta la Chiesa”. Era il 1965. E quello fu anche l’anno della Dignitatis Humanae, che in coda al Concilio Vaticano Secondo dichiarava: « Gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente… Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza ». Ecco: quell’anno fu pensata fino in fondo, e dimostrata possibile, la radicale laicità di un cattolicesimo che veramente avesse voluto rinnovarsi al fuoco dello spirito – o meglio, del Vangelo. Se questo pensiero avesse vinto, la storia del nostro Paese sarebbe stata diversa, e – per l’influenza della Chiesa – anche la storia del mondo. Per questo è importante capire fino in fondo questo pensiero, che fu invece sconfitto, e poi calunniato, e poi sepolto.

Che la legge divina consista qui nel liberare da ogni nome di Dio la legge terrena, quella che istituisce e protegge il pubblico confronto delle volontà e delle ragioni; che la legge divina stessa induca il sacerdote a ritirarsi, in primo luogo, per lasciar posto al maestro, che deve risvegliare la libertà e la coscienza critica dei futuri cittadini: perché questo è tanto importante? Perché porta alla luce il cuore dell’intuizione cristiana della vita, quel cuore che – se davvero ancora pulsasse – riscatterebbe la religione dalla sua vergogna, la vergogna di avere nei secoli legato la libertà e reso infante la coscienza. La riscatterebbe, mostrando che Cristo libera l’anima da questa religio. Le chiede di svegliarsi alla verifica personale dei valori e delle loro relazioni delicate, di superiorità e inferiorità. Thalita kumi: “svegliati, ragazza”. Dietrich Bonhoeffer l’aveva capito, ma quanto più arduo sarà stato capirlo per un sacerdote cattolico, quale don Milani voleva essere?

Questo pensiero nutre quella radicalità anti-idolatrica, o anti-ideologica, per la quale la coscienza parla, certamente, di fronte all’assoluto – ma non in nome dell’assoluto. Questo è il modo in cui lo esprime una delle più limpidi pensatrici del secolo scorso, e lo chiarisce così: “rimuovere dall’essere in sé le prese temerarie della mente; allontanarlo da ogni illusione possessiva, perché lo si tocchi meno e lo si veda meglio. Conoscere Dio come ignoto. Noli me tangere.”[1] E’ il pensiero che fu anche di Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937): « tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo….creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro…tutto il resto era orientato verso questo vuoto »[2]. Così scrive quella stessa Weil che annoverava l’obbedienza fra i “bisogni dell’anima umana”, specificando immediatamente che l’obbedienza è di due specie: “a delle regole stabilite” e “a degli esseri umani considerati come delle guide”, e che anche in quest’ultimo caso “presuppone un consenso, non a ciascuno degli ordini ricevuti, ma un consenso accordato una volta per tutte, con la sola riserva, all’occasione, delle esigenze della coscienza”[3].

Non in nome di Dio dunque don Milani difende la disobbedienza alla legge umana, benché indubbiamente lo faccia al cospetto del suo Dio. Ecco perché a differenza di quanto abbiamo fatto noi, per introdurre le due grandi figure della coscienza in relazione alle quali comprendiamo l’obbedire e il disobbedire come modi della libertà, don Milani non parla di Antigone. Che pure sarebbe la figura che rappresenta la legge divina. No, tutto socratico resta il suo ragionare, anche quando cita Gandhi o altri. Certo, il passaggio potrebbe essere anche più immediato: non può servire un uomo chi serve un dio, e la legge di questo dio, non scritta, vale più di quella scritta da un re. Ma non è il passaggio che fa don Milani. Perché non è in nome di un particolare ethos, fosse pure quello della propria fede, che si può volere una legge dello Stato.

Una legge dello Stato, che vincola tutti, è giusta soltanto se la coscienza di chiunque – o almeno di chiunque riconosca la pari dignità di ciascun essere umano – può consentirvi indipendentemente dalla fede che ha, e che obbliga solo chi ce l’ha. Ecco perché l’ulteriore ragionamento di Don Milani è tutto fatto di ragione umana: parla della Costituzione, del suo articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli»; delle guerre di aggressione fatte e subite in passato, dei gerarchi nazisti che si giustificarono con “la virtù dell’obbedienza”. Parla di doveri e diritti, che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. L’opposizione è la stessa che corre fra “I care” e “me ne frego”, scrive il sacerdote.

E in questo senso don Milani è più avanti di Howard Zinn, cantore americano della disobbedienza civile, che non perdonava a Socrate il suo atto di obbedienza alla legge ingiusta. Don Milani ci consente di distinguere fra obbedienza e servitù. Anche se è dai tempi dell’Umanesimo e del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Etienne La Boétie che lo sappiamo: un tiranno non ha altra forza che quella che gli conferiscono i suoi sudditi, perché non c’è altra fonte di sovranità che il libero volere degli individui. E’ questa coscienza, infine, che ha permesso di intendere non solo la disobbedienza, ma anche l’obbedienza come un modo della libertà: l’obbedienza, s’intende, alla legge e non al capo. L’ auto-obbligazione responsabile dei cittadini, che ha dunque come ultima fonte di legittimità nient’altro che il rispetto della pari dignità di ognuno. In questa autolimitazione del potere che ci fa, governanti e governati, uguali di fronte alla legge, è il valore della legalità e il senso delle istituzioni democratiche, come la divisione e la relativa autonomia dei poteri.

Oggi, se rivolgiamo di nuovo lo sguardo al presente italiano, un dubbio ci prende che le categorie filosofiche dell’obbedienza e della disobbedienza, sulle quali si fonda in definitiva quanto di meglio abbiamo saputo dire sui fondamenti del potere politico nella coscienza delle persone, possano servirci ancora. In questa Italia, “terra di nefandezze, abiure, genuflessioni e pulcinellate”. In questo nostro Paese che “attraverso Machiavelli, ha mostrato al mondo il volto demoniaco del potere; che ha inventato il fascismo”; dove “la politica si è definitivamente trasformata in crimine, ricatto, delazione, scandalo, imbroglio”. Parole vigorose, come si vede. Sono di Ermanno Rea, nel suo recente libro, La fabbrica dell’obbedienza[4]. Questa fabbrica, è l’Italia.

Anche Ermanno Rea attraversa la questione morale, passando per i i nostri classici, l’Unità tradita, il fascismo, il dopoguerra democristiano, la svolta degli anni Ottanta, fino al presente di “un regime così corrotto e maleodorante che non si sa più con quale aggettivo bollarlo”. Ma questo libro ha una domanda, semplice e per così dire spettacolare, la stessa dei saggi su Rinascimento Riforma e Controriforma di Bertrando Spaventa, e dagli studi del filosofo napoletano trae ispirazione e respiro. Noi siamo stati i primi. Abbiamo inventato il cittadino responsabile – “molti secoli fa, tra il Trecento e il Cinquecento, con l’Umanesimo e il Rinascimento”. Come è successo che a questi centocinquant’anni di splendore sia seguita la nostra lunga servitù civile e morale, con il suo corredo di arti della sudditanza, della menzogna, dell’opportunismo e del cinismo che ritroviamo tanto ben descritte nella pagine dei nostri classici, da Guicciardini a Leopardi? Come ha potuto succedere che questa storia si sia inesorabilmente ripetuta dopo grandi, in qualche modo miracolose accensioni di speranza? Il Risorgimento finì di morire nel fascismo, la Costituzione nata dalla Resistenza si vede oggi che fine rischi di fare.

La risposta è nota. Colpa della Controriforma. O meglio di ciò che ne seguì, secondo l’analisi spietata, riproposta da Rea, di come si fabbrica la servitù del cuore e la prigionia della mente, che sono l’esatto contrario di tutte le figure di una coscienza della legge, antiche e moderne. Delle figure, cioè, dell’obbedienza e della disobbedienza. Del dovere e del diritto. Che stanno alla libertà dei cittadini come la sudditanza al potere illimitato sta alla libertà dei servi. A differenza della legge, il potere è “alla ricerca di un’obbedienza sempre contingente e perciò da rinnovare continuamente, senza mai esigere… una responsabilità totale, prolungata nel tempo”.

Che sia ottenuta attraverso la dipendenza spirituale, la tecnica della confessione e del perdono, o la dipendenza materiale e le tecniche del condono, del favore e del ricatto, la distruzione dello “spirito delle leggi” è una cosa sola con la polverizzazione dell’impegno personale: la riduzione della necessità del dovere alla contingenza della soggezione, del valore della promessa al prezzo dello scambio – in una parola, la demolizione della responsabilità personale, che obbedienza e disobbedienza autentiche presuppongono. Ricordiamoci che quel monaco agostiniano divenne Lutero in seguito al mercato romano delle indulgenze. Il cielo, erano arrivati a vendersi.

Ecco: don Milani, e la Dichiarazione sopra citata sulla libertà di coscienza della Dignitatis Humanae, hanno segnato l’ultima grande occasione di confutare, se non la risposta di Bertrando Spaventa e di Ermanno Rea, almeno la disperata convinzione dell’immutabilità della condizione di questa nostra “nazione cattolica”. Vale la pena, allora, di ripensarla sempre di nuovo, quell’ultima possibilità – che ancora potrebbe esserci offerta, se il vento del rinnovamento morale e spirituale ricominciasse a soffiare.

Oggi, quando a svuotare di sostanza la nostra democrazia non è certamente l’eccesso di obbedienza, ma il disprezzo della legalità, delle istituzioni, dello Stato da parte di coloro che dovrebbero esserne i “servitori”. E a sostenerli al potere è l’onda maleodorante della nostra foia, fatta di milioni e milioni di abusi condoni favori tangenti impunità indulgenze soprusi e perdoni. È la palude stigia che abbiamo fatto della nostra anima, con un sì dopo l’altro alla ventennale svendita della legalità in cambio di consenso. E’ l’ultimo capitolo della storia di minorità morale e cinismo che ancora affligge l’Italia – non fabbrica dell’obbedienza, ma della libertà dei servi. Con il beneplacito di quella Chiesa oggi politicamente impegnata sul fronte della disciplina di fine vita, e impegnata a fare in modo che una legge dello Stato italiano costringa anche chi disobbedire non può più a subire un trattamento fisico che ripugnava alla sua coscienza, quando era desta. Una legge capace di violare in un colpo solo il senso divino e quello umano del “noli me tangere”: il sottrarsi di Dio all’uso e abuso che ne fanno gli uomini, e l’habeas corpus.

E’ davvero tempo di rileggere don Milani.

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