Da qualche tempo le trasformazioni urbane non seguono più i «grandi disegni» dei gruppi dominanti. Le modificazioni che accadono nella città contemporanea sono essenzialmente l'esito «del rapido succedersi - come ha scritto Bernardo Secchi - di una folla oscura di scambi tra soggetti dall'identità cangiante che agiscono entro logiche rapidamente mutevoli». La velocità di questi «scambi» è facilmente verificabile: il costruito intorno a noi si espande e stratifica a dismisura riducendo il territorio a uno spazio indifferenziato nel quale si depositano i volumi edilizi di qualsiasi tipologia purché soddisfino le leggi del consumo. Ha scritto di recente Vittorio Gregotti ( L'architettura del realismo critico, Laterza, 2004) che la periferia o lo sprawl che si diffonde con progressione intorno e dentro la città trova fondamento nella perdita di «regole chiare e culturalmente condivise di disegno urbano» e nella «scarsità culturale dell'imprenditore-architetto». La «civile modestia» di entrambi ci propone modelli insediativi banali e inespressivi perché estranei alla storia e al paesaggio ma organici solo alle logiche del mercato. Il disagio umano che vi si vive attende di essere guarito e in molte città d'Europa ciò sta avvenendo con politiche urbane mirate di riqualificazione ambientale e sociale. Di fatto, il malessere della «Città panico» assume carattere d'urgenza e nell'attesa dell'«implosione pirotecnica» delle periferie, come prefigura Paul Virilio, una quantità di materiali si accumulano per farci comprendere da ogni punto di vista la condizione esistenziale, sociale ed estetica che producono quei luoghi marginalizzati. Intorno ai conflitti prodotti dalle periferie da diversi anni si sono concentrati gli interessi non solo di architetti, urbanisti, filosofi e sociologi, ma anche di artisti che dalle contraddizioni metropolitane hanno tratto riflessioni critiche di indubbio interesse.
A Reggio Emilia la mostra Suburbia (fino al 12 settembre), promossa dal Comune e dai Musei Civici della città emiliana e curata da Marinella Paderni e Marco Senaldi, si occupa di documentare la ricerca di diversi giovani artisti che in tre luoghi della città - Chiostri di San Domenico, Officina delle Arti, ex Fonderia Lombardini, oggi sede dell'importante Fondazione nazionale della danza - espongono le loro opere creando uno «spaccato della dimensione umana della periferia odierna con le sue paure, le sue difese, i suoi progetti, i suoi comportamenti» (Paderni). In questo senso tutti gli artisti selezionati compongono una «polifonia di sguardi» ove le tecniche e linguaggi dell'arte possono da un lato essere strumento di riscatto dell'anonimato dei luoghi metropolitani, dall'altro momento di seria riflessione critica sul presente. Nella mostra ogni retorica sulla periferia è bandita: sia essa pittorica, nelle forme nostalgiche ed estetizzanti dell'iperealismo, sia teorica, nella restituzione saggistica della Generic city, intesa quale diversa e legittima espressione di «bellezza» che ancora dobbiamo comprendere e cinicamente nel futuro accettare.
Al contrario, ciò che fa da filo conduttore dell'intero percorso espositivo, è l'idea di progetto che fonda le varie «microutopie» in mostra sia nel senso della realizzazione materiale dell'opera d'arte sia in quello del contenuto critico che le motiva. I conflitti della città sono qui espressi come elementi trasfigurati dall'immaginazione e non ridotti ad asettiche rappresentazioni, le contraddizioni della realtà urbana sono materiali manipolati dalla creatività riflessiva e non sterili immagini della metropoli.
Nei chiostri di San Domenico sono già tutti evidenti i temi che in diverse forme saranno presenti nelle altre sedi espositive. Il contrasto, per iniziare, tra la velocità e la permanenza delle trasformazioni urbane. Gli scatti fotografici di Paola Di Bello sopra il cavalcavia di via Monte Ceneri a Milano sono raccolti di corsa e restituiti in una stampa formante un emiciclo. In velocità sono anche i cambiamenti ambientali descritti nel lavoro di Natacha Anderes. Il quartiere Tolbiac a Parigi e i cantieri ferroviari dell'alta velocità nei pressi di Reggio Emilia sono riprodotti in plastilina perché l'opera segue le rapide trasformazioni del territorio, modificandosi fisicamente anch'essa nel corso del tempo, secondo precise clausole contrattuali con l'acquirente del quadro. Altrettanto veloci sono le «astrazioni pittoriche» delle highway di Carolyn Chambliss: macchie di colore che simulano a distanza l'immagine digitale di queste «cattedrali della mobilità» (Ingersoll), frammentaria e mobile quanto la percezione dello spazio vissuto dentro l'auto.
In senso opposto, altri artisti si confrontano con il tema della permanenza e della durata. Rientrano in quest'ambito le installazioni di Flavio Fanelli: pochi elementi di arredo di case da lui abitate che decontestualizza per comunicarci la transitorietà dei luoghi oppure l'opera di Andrea Contin che con la sua compagnia di facchini ammucchia masserizie e vecchi mobili anch'essi simboli della precarietà degli spazi che viviamo e degli oggetti che ci stanno attorno. In entrambi si tratta di poetiche abusate - le più deboli dell'intera mostra - che si giustificano solo all'interno del progetto espositivo. Diversa è la riflessione che svolgono una serie di fotografi: ad esempio quella «notturna» di Paola Di Pietri o «in luce» di Paola Dellavalle e Fulvio Guerrieri. Il soggetto è sempre il villino della piccola borghesia: micromostri edilizi che coniugano il pastiche stilistico delle facciate con la solitudine culturale di chi li progetta e di chi li possiede. Un fenomeno, quello dell'architettura informe o spazzatura ( junk architecture) che è ormai presente in ogni parte del pianeta. Francesco Jodice l'ha filmata in Marocco, in riprese notturne che rendono evidente quanto sia diffusa l'arbitrarietà dei segni - vero «deposito significativo del disordine» (Gregotti) - e specchio dell'ideologia globale del mercato. Rispetto al caos metropolitano e «glocale» (globale + locale) l'equilibrio che Luca Pancrazi propone con le sue parti di città miniaturizzate sembra prefigurarci un destino diverso attraverso l'integrazione sociale di arte e infrastrutture. Al tempo stesso, però, con le sue piccole telecamere che nascoste all'interno del plastico riproducono su video il comportamento del visitatore-Gulliver, ci fa riflettere sul controllo sociale che nella metropoli può esercitare chiunque detenga il potere dei media.
Intorno al tema della comunicazione e dell'integrazione sociale si orientano le azioni del laboratorio di arte urbana del gruppo Stalker. Non a caso la visione del loro video Corviale Network è nell'Officina delle Arti: un edificio alla periferia di Reggio Emilia, recuperato dall'amministrazione comunale e assegnato a giovani architetti, artisti, designers, con il compito di aprire le loro ricerche e attività professionali ai cittadini in un confronto diretto e partecipe con la città. Gli Stalker hanno sempre prediletto nel corso dei circa dieci anni della loro attività un particolare interesse per le aree più marginali ed escluse della città. Nel caso di Corviale - un chilometro di edificio multipiano costruito nella campagna a sud di Roma - il loro interesse è di recuperarlo dando dignità a chi l'abita. Un'impresa che passa, nonostante il loro impegno, attraverso investimenti pubblici significativi per recuperare non solo il complesso edilizio ma anche le aree esterne che vi stanno intorno e che consiste nel disegnare nuovi spazi per i servizi, progettare la flessibilità delle unità abitative, ripensare l'uso delle aree comuni; il tutto nell'ambito di regole democratiche di assegnazione, di serio controllo della spesa e di autentico impegno per l'assistenza ai nuclei familiari più deboli. L'augurio è che la presenza del gruppo Stalker con il loro network contribuisca all'affermazione di questo risultato quanto la recente nascita di TeleCitofano, la prima telestreet del capoluogo emiliano, riesca a togliere dall'isolamento individui, gruppi, associazioni, «dando voce a chi non ce l'ha»: quelle figure, moltissime straniere, che Fabio Boni mette in posa nei giardini pubblici di Reggio Emilia e che fotografa cercando anche lui di rompere così la loro diffidenza e paura.
Ha scritto Mike Davis in catalogo: «Buona parte del mondo urbano sta tornando rapidamente all'epoca di Dickens». A differenza, però, dei tempi dello scrittore inglese non è l'industrializzazione ad attrarre moltitudini di persone nelle metropoli. Le cause, soprattutto per i paesi del Terzo Mondo, ricadono nel fatto che il capitalismo tecnologico ha sganciato la crescita della produzione da quella dell'occupazione. Nelle metropoli crescono a dismisura gli slums e la povertà urbana. Possiamo anche seguire i consigli di Massimo Canevacci (intervistato da Marco Senaldi) per avere una «buona etnografia» e predisporci al «nuovo sentire ibrido metropolitano» ma è urgente un progetto senza ideologismi, riflessivo e critico sulla città che contrasti l'«urbanizzazione della povertà». «Suburbia» non può essere soltanto «descritta» ma occorre pensarne il cambiamento.
Le nuove nebulose urbane nel saggio «Sprawltown» di Richard Ingersoll (Meltemi)
Sprawltown è una parola di difficile traduzione in italiano. È un neologismo americano che applicato all'urbanistica intende una crescita urbana senza regole e senza forma. Nel corso degli ultimi decenni sta a significare non solo genericamente la periferia bensì quella «nebulosa urbana» che gravita intorno alle città ma che è anche al suo interno ed è composta di incongrue emergenze edilizie come di aree abbandonate (terrain vague). Sprawltown è il titolo scelto da Richard Ingersoll per il suo saggio (Meltemi, pp. 236, € 19,25) che descrive questo particolare fenomeno di morfologia urbana che però ingloba anche aspetti esistenziali. Infatti, «la diffusione dello sprawl - scrive Ingersoll - non dipende soltanto da come si occupa lo spazio, ma soprattutto da come lo si vive». Nell'ambiente periurbano centri commerciali e multisale, aree industriali e della logistica, lottizzazioni residenziali e infrastrutture, creano un amalgama di estesa conurbazione dove le categorie «classiche» di centro e periferia, urbano e rurale, comunità e individuo, sono del tutto superate assumendo nuovi significati, più complessi e articolati. Nel contesto posturbano il lavoro e l'educazione, lo svago e i consumi degli individui seguono altre regole e valori dati dalla dimensione spaziale, frammentaria e policentrica, di un tessuto urbano «generico» e «senza storia» come il «rizoma antigerarchico», già descritto da Deleuze-Guattari - «ove un qualsiasi punto e in relazione a qualsiasi altro» - in una rete di così ampia estensione che solo l'informatica può fornirgli un ordine (cyborg). La descrizione della città contemporanea di Ingersoll alterna teorie urbanistiche a racconti di luoghi dove si esprimono nuovi comportamenti sociali e nuovi soggetti come, ad esempio, il «cittadino-turista»: «abitante ibrido» dei centri commerciali e del museo metropolitano, entrambi spazi dove si perpetua il rito del consumo delle merci e tutto si simula per sembrare vero. E' il «cittadino-turista» a consumare la «città-cartolina», simbolo dell'imperialismo economico destinata ad essere «strangolata» dalla «città generica», quella «cinicamente utilitaristica e senza etica» prefigurata dall'architetto olandese Rem Koolhaas. Se il turismo iberna le città storiche stravolgendole nella loro vita civica e riducendole a simulacri di se stesse, altra questione è ciò che vi accade intorno: nelle aree metropolitane composte dai centri urbani satelliti della città. Lì dove un denso reticolo stradale ha creato uno spazio urbano la cui percezione privilegiata è quella che si ha nell'abitacolo dell'auto. Noi percepiamo questi spazi come un «montaggio rapido» (jumpcut) di immagini in movimento. E' questo il cosiddetto Jumpcut urbanism: una condizione del paesaggio che, come nel cinema, accelera e frammenta lo sguardo in piani sequenza ma che a differenza di qualsiasi racconto cinematografico non conosce regia. Tutto, infatti, si succede «a casaccio», senza l'ordine di una teoria che regoli i conflitti e sappia governare le «mostruose incongruenze di frammenti architettonici e i vuoti sproporzionati».
Ingersoll sente la necessità, a differenza di tanti moderni esegeti dei «non-luoghi», di ricercare soluzioni urgenti al degrado umano e ambientale che le città subiscono. Oltre le analisi dei fenomeni urbani planetari occorre ricercare almeno dei correttivi per fare avanzare un «nuovo civismo». Si può, innanzitutto, «ridistribuire lo sguardo» trasferendo, ad esempio, i musei e le altre «attrazioni» della città in periferia oppure in contesti emarginati integrandole con le realtà locali. Inoltre, si può incidere contro l'economia parassitaria provocata dal «cittadino-turista» incentivando e salvaguardando le attività produttive nei luoghi da lui frequentati oppure evitando scelte monofunzionali inserendo programmi d'uso differenziati. Infine, poiché nella città si concentrano i più gravi sprechi di risorse, un ruolo importante lo dovrà svolgere l'ecologia. Intendere Sprawltown come una «seconda natura» significa per Ingersoll prendere atto che l'«apocalisse ecologica» è già in atto e che il processo entropico è inarrestabile, quindi: «Piuttosto di redimere il mondo, cercheremo di introdurre terapie che ne permettano una fine dignitosa». Il «Bioregionalismo» - l'idea che l'urbanistica debba seguire la logica dei fattori naturali - preconizzato dal biologo Patrick Geddes, può servire da modello di riferimento urbanistico, così come l'«agri-civismo» - la possibilità di preservare le aree verdi delle città facendole «appartenere» all'abitato, quindi responsabilizzandone la salvaguardia - può generare un nuovo impegno civico. La scala e le dimensioni degli interventi determineranno i risultati. È nella ricerca di forme di integrazione tra lo sprawl e la città che la politica