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Denis Bocquet
Piani regolatori e ambiente in Italia
11 Marzo 2005
Tesi Ricerche Dissertazioni
Come un ricercatore francese di storia vede l’urbanistica italiana. La comunicazione è stata svolta alla Terza Conferenza delle European Society for Environmental History, Firenze 16-19 marzo 2005.

Piani regolatori e ambiente in Italia: visioni del futuro delle città tra sistemi tecnici, organizzazioni burocratiche e percezioni della natura

Questa sessione sul versante urbano della storia ambientale, organizzata da Gabriella Corona e Simone Neri Sernieri, mi sembra molto importante, in un convegno di storia ambientale dove dominano gli approcci legati ad una visione della storia ambientale a mio avviso troppo naturalistica. Questa sessione, quindi, è importante per due ragioni. La prima è la poca importanza data alle città (e all’industria) nelle considerazioni sulla storia ambientale. La seconda ragione tiene nell’importanza di storicizzare la lettura del rapporto fra città e ambiente. Intendo storicizzare non solo nel senso di prendere in considerazione il passato, ma anche di uso del metodo storico, con l’applicazione di questioni specifiche.

Questa relazione viene concepita in quanto primo approccio a un nuovo tema di ricerca. Dopo dieci anni dedicati allo studio della pianificazione urbana a Roma nell’Ottocento, attorno ad un’attenzione alla relazione tra procedure di costruzione di un apparato tecnico-burocratico di pianificazione e trasformazioni dello spazio, si tratta di esplorare il rapporto tra città e natura nel Novecento attraverso le modalità di pianificazione.

Ma quel che c’insegna l’Ottocento è che non basta applicare questioni relative alla concezione della natura. Serve anche chiederci come si costruisce il rapporto fra città e natura attraverso un sistema amministrativo e sociale. Il piano, anche se non copre l’insieme di questo rapporto, e di questo si deve sempre essere coscienti, non va studiato necessariamente in se, ma in quanto espressione manifesta di un certo tipo di rapporto fra città e spazio, espressione anche di una forma di organizzazione burocratica e politica[1].

Si è studiato molto ultimamente il limite del piano in quanto strumento universale di trasformazione dello spazio urbano, poi di spiegazione storica della trasformazione. Non si tratta minimamente qui di tornare ad una visione pianocentrica. Anzi, il fatto di inserire il piano in un sistema più vasto fa parte del movimento di relativizzazione della valenza del piano. Il piano come sistema di norme va anche discusso in questo senso. I recenti dibattiti sulle norme di urbanità, sia di costruzione che di comportamento, devono essere tenuti in mente.

Si può anche pianificare al di fuori del piano, per ragioni politiche, sociali o amministrative.

Detto questo, il piano regolatore all’italiana rimane un oggetto importante per lo studio della relazione fra una società e lo spazio. Tramite la procedura di pianificazione si esprime non solo una visione del futuro, ma anche una concezione del modo di mettere in relazione l’apparato burocratico con lo spazio urbano. Nel caso della natura in città, questa espressione è molto importante.

Dei piani dell’Ottocento, e del rapporto fra burocrazie e verde urbano in generale all’epoca, importa ritenere diverse modalità, di cui i piani del secolo successivo sono doppiamente portatori: nell’inerzia dello spazio costruito, e nell’inerzia delle procedure, delle interpretazioni e delle pratiche.

Il piano regolatore rappresenta, nella tradizione urbana italiana, il nodo burocratico, amministrativo, sociale e politico della previsione del futuro delle città. E anche un indicatore del rapporto tra città e natura al momento della sua redazione. La relazione delle società urbane all’ambiente ne è profondentemente segnata, nelle dimensioni sia affermativa (e non necessariamente positiva), come impatto del piano, che negativa (ma non necessariamente nel senso morale), come non applicazione del piano o costruzione della città al di fuori di esso. Questa relazione, esaminando l’evoluzione del trattamento dell’elemento “natura” nei piani e nei dibattiti ad essi legati sin dai tempi della legge del 1865, propone un tentativo di lettura della complessa relazione fra sistemi burocratici e spazio delle città.

Marcel Roncayolo, con Grammaires d’une ville, proponeva, a partire dal caso di Marsiglia, un’interessante analisi dell’eredità della scuola sociologica di Chicago nel campo dei studi urbani[2]. Per questo ricercatore, che ha a lungo sviluppato studi importanti, ma molto solitari e poco connessi con quelli dei suoi contemporanei, si tratta di uno dei pochi esempi di inserimento delle proprie ricerche in un quadro intellettuale più largo. Invece di ritenere solamente gli aspetti legati alle prime tappe nella costituzione della sociologia urbana e dell’ecologia urbana come discipline accademiche, cercava, nel ricostruire il legame tra personaggi come Burgess, Quinn o Firey e la metodologia delle scienze naturali, o il legame tra scienze sociali ed ecologia botanica, di ricreare il percorso intellettuale di questi ricercatori verso l’interpretazione dell’evoluzione dello spazio urbano. La proposizione, nel senso quasi matematico, “la città e la natura sono in interrazione” costituisce, per l’ecologia urbana un paradigma iniziale e fondatore. Ma per gli ecologi urbani, la natura non era soltanto il quadro d’insieme, ma anche un concetto organico: l’interrazione tra città e natura può essere letta con analogie tratte dalla natura stessa e le scienze naturali forniscono sia i modelli che i concetti per la lettura della relazione tra natura e città. Queste tendenze si verificano nella letteratura contemporanea in tutti e due i campi: studi urbani e storia ambientale. Hanno sicuramente permesso molti passi avanti. La storia urbana stessa si è anche sviluppata a lungo usando anche analogie basate sulla natura e sul corpo umano. Quando le analogie vengono applicate a certi oggetti, possono di sicuro essere molto efficaci. Ma non coprono necessariamente l’insieme del panorama di attitudini nei confronti dell’oggetto, e l’analogia non è l’unico modo d’interpretare la relazione tra città e natura.

La storia ambientale si è poi concentrata sulla relazione tra città e natura dal punto di vista del trattamento dei rifiuti[3]. Fogne, rifiuti, reti tecniche sono stati oggetti di un forte e sostenuto sforzo di ricerca accademica, e degli autori come Dupuy, Tarr, Melosi o, per l’Italia, Sori, hanno promosso un’interpretazione nella quale il legame tra città e natura non si riduce ad una semplice meccanica, ma viene analizzato in quanto relazione sociale costruita ed articolata. Le scienze sociali hanno progressivamente costruito concetti interpretativi propri, prova del fatto che le idee dei fondatori, e in generale l’eredità di quel che si è chiamato l’approccio della scuola di Chicago agli studi urbani e all’ecologia, hanno aiutato la disciplina a crescere. I paradigmi non sono più basati su l’analogia, ma costruiti a partire da un’interpretazione della società stessa. E’ tutto il percorso dell’ecologia, da scienza naturale a scienza sociale, e, nel caso degli studi urbani, dall’analogia con la natura a l’uso di concetti costruiti sulla base delle scienze sociali. Restava poi ad estendere la lettura della relazione tra natura e città ad altri settori degli studi urbani, come l’interpretazione dei processi decisionali, la governance dei sistemi tecnici, il ruolo della natura nelle trasformazione della forma urbana e della società urbana, l’analisi dei sistemi urbani dal punto di vista di un’ecologia urbana rinnovata.

uuforniscono sia i modelli che i concetti per la lettura della relazione tra natura e città.e di questi ricercatori verso l'ione

Il panorama storiografico sulla pianificazione urbana in Italia nel secondo Novecento è ancora dominato dal paradigma delle tre generazioni di piani sperimentati in Italia a partire dalla Liberazione, come teorizzati da Campos Venuti negli anni 1980[4].

La prima generazione copre, per Campos Venuti, i piani del dopoguerra la cui funzione era di ricostruzione senza esplorare nuove vie di pianificazione e di sviluppo della città. Anche se, come si vedrà questa è un’opinione forse eccessiva, la categoria descrive bene la realtà degli anni 1945-1955. La seconda generazione di piani, per Campos Venuti, s’incontra negli anni 1960, quando si tratta di canalizzare, e non di affrontare, gli effetti della speculazione. La terza generazione, invece, si presenta come innovazione sia nel contenuto del piano che nella sua concezione in quanto strumento e processo.

Ma questa tipologia, la cui elaborazione è ovviamente contemporanea della promozione della terza generazione di piani, rinvia ad una lettura centrata più sulla procedura stessa, le sue caratteristiche, che sulle sue interrazioni con lo spazio o la natura.

Se la tipologia rimane largamente pertinente per le questioni sul rapporto al verde e alla natura, conviene esaminare da più vicino la relazione tra procedura e verde urbano tra il 45 e i nostri giorni.

Il fascismo è stato a lungo percepito come antiurbano[5]. Ma si deve andare oltre questo giudizio, ricordando che il rifiuto della pressione delle masse urbane è una costante in Italia sin dai tempi di Quintino Sella. Si deve anche leggere la produzione urbanistica fascista sotto l’aspetto del verde urbano.

Nel piano Piacentini per Roma (1931), va per esempio valutata la svolta nel considerare il verde urbano, in netto contrasto con l’eredità di un verde fatto di soli parchi concepiti come il residuo della lottizzazione delle ville aristocratiche. Con Piacentini, il verde urbano appare più in continuità con il verde articolante della passeggiata archeologica dei decenni precedenti.

Il vero crimine fatto dai fascisti alla passeggiata archeologica di Guido Baccelli non è di averla completata in una maniera contestabile con la via dei fori imperiali, che dopo tutto non era cosi estranea alla cultura urbanistica dell’epoca precedente, ma piuttosto di averla aperta alle macchine automobili.

La legge del 1942, che per molti aspetti fornisce il quadro non solo legislativo, ma anche metodologico agli interventi dei decenni successivi non affronta direttamente il tema del verde urbano[6]. Se gli articoli 5 e 7, in quanto relativi alle zone ed aree a speciali destinazioni e agli spazi per uso pubblico, furono usati a questo scopo, rimane il fatto che la legge non crea un categoria ad hoc. Ma questo non basta ad eliminare dalla ricerca l’orizzonte aperto da questa innovazione legislativa. Va in effetti studiato più accuratamente il rapporto fra nuova legge e organizzazione degli uffici di pianificazione in relazione al verde urbano.

Alla Liberazione, la cultura della lotta partigiana segna duramente la pratica urbanistica. La concezione della relazione al verde urbano viene quindi costruita a partire sia del quadro della legge del 42 che dalle idee di una pianificazione tratte dagli ideali partigiani. La proposta del MSA, Movimento di studi per l’architettura per un piano di Milano che venne poi ricordato come Milano verde, si iscrive in questo contesto. Confrontato con le realtà amministrative e soprattutto politiche del immediato dopo guerra, questo ambiente propositivo è dovuto molto presto integrare altri elementi, come la forza del valore fondiario. Ma in occasione dell’ottava triennale, nel 1947, con la pianificazione del quartiere detto QT8, si è potuto proporre diversi elementi tratti da questa cultura nel dibattito sul piano regolatore di Milano. E anche se, come ha sottolineato Mioni, gli uffici tecnici del comune hanno tradito lo spirito dei professionisti più avanzati, l’idea di una città verde ha segnato la cultura urbanistica del dopoguerra[7]. Il verde urbano era all’epoca già più del risultato della sottrazione alla speculazione. Era parte integrante della pianificazione di un quadro di vita concepito al livello urbano.

Anche a Firenze, le esperienze del dopoguerra hanno segnato una svolta, se non nella forma della città, almeno nella storia intellettuale del rapporto tra pianificazione e verde urbano. Le idee del Comitato provinciale per la ricostruzione, e il progetto di piano in questo ambito redatto, riflettevano in effetti una concezione della ricostruzione della città, e della sua estensione, che dava al verde urbano un ruolo organico[8]. Queste idee sembravano inoltre in misura di guadagnare consensi nel contesto locale quando la caduta del governo Parri a livello nazionale ha segnato la fine delle esplorazioni politiche che le accompagnavano. Il confronto poi tra un’amministrazione comunale di sinistra e il governo De Gasperi ha creato un contesto completamente diverso, come, a partire dell’inizio degli anni 1950 la presenza a Palazzo Vecchio di un primo La Pira la cui priorità era chiaramente la casa. Negli anni 1960, con l’emergenza alluvione, e nel decennio successivo con alcune esplorazioni sulla necessità di una pianificazione sovracomunale Firenze torna brevemente ad esplorare vie alternative di pianificazione, ma il paesaggio locale e la cultura urbanistica locale restano a lungo segnati da queste condizioni iniziali.

A Napoli, con gli anni del cosiddetto “laurismo” e i peggiori eccessi di una speculazione segno di collusione tra poteri politici e interessi privati, si è venuto a dimenticare il contesto che aveva fatto si che nell’immediato dopoguerra ci si era già allontanato dall’eredità di un piano del 1939 che prevedeva per esempio un parco panoramico ai Camaldoli. Con una sinistra che aveva come unica priorità nel piano il lavoro, e una destra già molto vicina agli ambienti della speculazione, già nel 1944 si capisce che la Napoli del dopoguerra non sarà il teatro di innovazioni urbanistiche per quanto riguarda il verde urbano. Già il piano del 1946, risultato delle mediazioni politiche dell’anno precedente dà la priorità assoluta all’industria[9]. Quando Lauro decide di uscire dalla procedura, nel 1952, i giochi sono già fatti.

Gli anni 1950 sono poi segnati da necessità diverse, la prima delle quali essendo legata all’enorme bisogno di case. Anche se il concetto di quartiere come viene declinato all’epoca è stato promosso dalla Democrazia cristiana in opposizione a una città giardino consumatrice di spazio fondiario e alle troppe forti concentrazioni, con dietro un’ideale ideologico, rimane il fatto che nel piano Fanfani, e poi nei programmi INA-CASA, il sociale è più importante del spaziale. Per questa epoca, importa oggi però proporre una lettura politica delle vicende del verde urbano che vada oltre i giudizi morali e politici sulla stagione dei blocchi edilizi. La storia urbana c’insegna, insomma, che vanno rivalutati i studi politici in materia di pianificazione.

La Bologna degli anni 1950, con il piano Marconi, è anche segnata da una cultura urbanistica molto convenzionale: il piano traccia le linee dell’espansione e riempie i buchi dell’urbanizzazione.

Nel 1960, il convegno nazionale d’Italia nostra, che si tiene a Modena, città allora già importante nel dibattito sul verde urbano[10], ha come tema la “difesa del verde”. Si diffondono nel pubblico e fra gli addetti ai lavori cifre allarmiste sulla disponibilità di verde urbano per abitante in Italia. Contro i 154m2 di Los Angeles, 30 di Amsterdam, 10 di Londra, 7,5 di Parigi, Roma disporrebbe all’epoca di soli 2m2, e Milano 1,5.

Si comincia allora ad elaborare una tipologia del verde (decoro urbano, giardini, verde di quartiere, grandi parchi urbani), che serve da base a molti piani degli anni successivi. Con la politica detta poi degli standards, si rinnova di fatto la fiducia nel piano come strumento capace di portare a risultati soddisfacenti. La fiducia è anche nelle capacità di acquisizione fondiaria dei comuni.

Ma in questi primi anni 1960, Modena presente l’esempio di una prima svolta nella concezione del piano. Già la variante generale al piano regolatore presentata nel 1958 e adottata nel 1965 riflette la diffusione di una nuova cultura del piano. Questo è strettamente legato alla storia politica di questo comune, ma è anche segno di un cambiamento di attitudine e di mobilizzazione delle competenze professionali. Come sempre, sin dall’Ottocento, il piano è lo strumento d’azione di un potere municipale. Come sempre, la fiducia nel piano s’incontra più volentieri tra quelli che hanno intenzione di applicare allo spazio urbano un programma politico e sociale. Ma se il piano progressista investito di questa fiducia rifletteva anche una certa ingenuità, a partire dalla metà degli anni 1960, in alcune città, la fiducia progressista nel piano si accompagna di una riflessione rinnovata sullo strumento stesso, di cui la concezione del verde è un eco.

L’idea del verde come servizio deriva da queste considerazioni.

Italo Insolera ha partecipato a questa elaborazione concettuale sin dall’inizio. Se si consulta il suo articolo per Urbanistica del 1966, si vede quanto il verde veniva pensato poco a poco in relazione ai cambiamenti sociali in atto[11]. Il verde nel piano diventa anche la trasposizione spaziale della nuova cultura del tempo libero. Ancora negli anni Ottanta, è questo paradigma marxista di evoluzione della società industriale a fornire il quadro alla lettura delle mutazioni della cultura del piano[12]. Il cambiamento nella concezione della pianificazione deriva dal passaggio “da società agro-industriale alla condizione odierna” (non più precisamente specificata).

Ma, all’inizio degli anni 1970, è ancora Modena che segna l’arrivo sulla scena urbanistica di una nuova concezione, quella del verde urbano il cui ruolo è di orientare la crescita urbana. L’idea, in questa città, di un parco della Resistenza, eco nel nome degli ideali pianificatori di quest’epoca, che si concretizza nella variante generale del 1975, costituisce uno dei primi esempi di verde urbano atto ad orientare le linee di espansione, e quindi ad articolare il piano. Da vuoto nel piano, il verde diventa spina dorsale. La nozione di “sistema del verde”, che poi si diffonde, ne deriva sicuramente. Il verde urbano diventa allora spatium ordinans, e non più solamente spatium ordinatum, secondo la seducente proposta teorica di Jan Patocka[13].

Lo studioso dell’Ottocento deve qui precisare però che questa non è una novità assoluta, anche se lo è sicuramente nella costruzione concettuale. Ma già negli ultimi decenni dell’Ottocento a Roma, l’area archeologica centrale, voluta da Guido Baccelli può essere letta in questi termini: un blocco di verde urbano disegnato dallo stato per orientare le linee di pianificazione municipale. Il sistema del verde del Novecento non ne è per meno nuovo, in quanto teorizzazione innovativa del rapporto fra città e verde.

Negli anni Settanta, il dibattito sul verde urbano conosce altre declinazioni. Leggere oggi la descrizione dei piani della terza generazione che davano gli attori all’epoca rimanda ad una retorica marxista nella quale l’industria e il patrimonio industriale erano ancora al centro delle priorità. Il piano della terza generazione non è per niente ancora un piano di città sostenibile o di città verde. Ma l’espansione di alcune città alla punta della riflessione sul piano (generalmente progressiste talmente il valore ideologico dello strumento è forte nel contesto italiano), verso zone finora agricole pone nuovi problemi, e favorisce l’emergere di nuove soluzioni. La trasformazione del verde agricolo in verde ricreativo è la posta in gioco, cioè togliere all’espansione del costruito un parte di questi terreni. Ne viene fondamentalmente modificato il grado di artificialità del paesaggio. Ma questo è il destino delle città. Urbanizzare zone precedentemente agricole è stato il modo prioritario d’espansione per più di un secolo. Quel che è interessante è vedere quanto questo fatto all’epoca, segna la cultura urbanistica, e quanto ha avuto influenza sulla nuova cultura del piano che si diffonde.

Le esperienze bolognesi degli anni Settanta e Ottanta, la cui grande innovazione è forse l’idea del piano come strumento di creazione di uno spazio per il cittadino e luogo stesso, sia simbolicamente che nelle pratiche, della partecipazione cittadina, derivano parzialmente di questo dibattito sul verde agricolo[14]. La riflessione sul che fare di queste zone è parte integrante della maturazione della democrazia partecipativa, o almeno della sua teorizzazione e promozione politica. Il verde, da vuoto dell’urbanizzazione ad asse della regolazione diventa cuore della nuova governance. Anche se non conviene caricatturare il passato quando si descrivono le svolte storiche, si può dire che qualcosa è cambiato all’epoca nella concezione della relazione tra città e verde urbano.

Modena compare di nuovo nel dibattito urbano sin dagli anni Ottanta in quanto modello di una certa cultura del piano, che porta nuove modalità di rapporto tra città e natura, ma anche tra tecnica pianificatrice e spazio urbano. Roberto d’Agostini, in un saggio sul verde urbano, ricostruisce il percorso storico che va dai piani della Liberazione a quelli degli anni Ottanta[15]. Dopo un periodo di lottizzazione, caratterizzata dal riempimento delle aree libere della prima periferia urbana, con un fenomeno di “ispessimento” di questa, si è arrivato al paradosso di una città borghese del periodo precedente pervertita nella sua relazione al verde, la lottizzazione avendo fatto scomparire il verde privato che la caratterizzava. Con la fine dei quartieri giardino, si pongono quindi nuovi problemi, ai quali il piano del 1958 non rispondeva. La maturazione di nuovi soluzioni nei decenni 1970-1990 deriva da queste considerazioni iniziali.

I nuovi paradigmi emersi sulla scena urbanistica a partire dagli anni 90 si possono discutere secondo questioni parallele a quelle applicate ai periodi precedenti[16].

La pianificazione sostenibile delle periferie, per esempio[17], ma anche le diverse teorizzazioni sul rapporto tra città e natura vanno lette in un contesto più ampio.

Se la storia ambientale non sempre affronta i temi urbani[18], bisogna sottolineare che le teorie anglo-sassoni sullo sviluppo sostenibile sono state accolte molte precocemente in Italia, come lo sono state le voci critiche sul contenuto della nozione. Un dibattito si è aperto, illustrato da numerose prese di posizioni[19]. Ma la particolarità italiana è soprattutto di aver illustrato il tema della sostenibilità nel campo della ricerca urbana.

I dibattiti sulla città sostenibile sono stati molto presenti nell’Italia degli ultimi anni, e, logicamente, sono stati illustrati da esempi che riprendono le esperienze precedenti e si inseriscono nel quadro della riflessione sulla pianificazione urbana.

Questo ci consente di mandare avanti nostra riflessione sul posto del verde urbano in queste considerazioni.

Venezia sostenibile, Napoli sostenibile[20], Modena sostenibile, ogni volta la sostenibilità, ricercata attraverso lo strumento piano regolatore è come sempre anche quella delle giunte progressiste. Nella letteratura specializzata, quando si parla di Milano, per esempio, è per illustrare la non-sostenibilità[21].

Oltre a queste considerazioni, mirate solamente a sottolineare ancora una volta quanto lo strumento piano sia connotato nella pratica italiana, e come lo sia ancora nei dibattiti attuali, si possono evocare alcune questioni suggerite dalla storia urbana:

La valenza del piano: l’importanza del piano non ci deve far dimenticare che si può pianificare al di fuori del piano. Per decenni la storia urbana è stata cieca su questo aspetto, con il risultato di una narrazione storica che andava dal disegno di un piano (da parte di una giunta progressista generalmente) al fallimento del piano (sotto delle giunte conservative generalmente). Solo di recente ci si è reso conto di come la città andava studiata come si faceva e non come si pensava che si doveva fare. Si è quindi insistito sui modi alternativi di pianificare (deroghe alla regola, pratiche al di fuori della regola ma che comunque fanno la città, convenzioni…). Non si deve fare lo stesso errore con i dibattiti odierni. Il ricercatore deve studiare la città cosi com’è nel suo rapporto all’ambiente, e non solo cosi come compare nei progetti di città sostenibile, per quanto questi siano importanti e interessanti. Il tema della città sostenibile viene oggi investito di un valore politico proprio al sistema italiano, e di questo va tenuto conto, anche da chi si riconosce negli obiettivi complessivi dell’applicazione del concetto alle realtà urbane. Il fatto che l’urbanistica in Italia sia stata storicamente materia accademica investita dalle competenze di persone che avevano anche un progetto politico deve essere preso in considerazione anche nello studio dei temi odierni, relativi alla sostenibilità. Nel leggere la letteratura sull’argomento ci si rende conto che i presupposti ideologici sono paragonabili a quelli relativi all’argomento piano regolatore nelle sue declinazioni precedenti. Per queste ragioni sembra auspicabile sia di affrontare direttamente il tema politico, per non lasciare sovrintesi, che di esplorare altre questioni.

La riflessione sull’evoluzione delle concezioni della natura nelle procedure di pianificazione si deve accompagnare di uno studio rinnovato dell’evoluzione degli apparati burocratici di pianificazione. Questa vena di investigazione ha portato molto alla conoscenza dell’Ottocento. Ma sappiamo molto poco dell’evoluzione di questi apparati negli ultimi decenni: statuto degli addetti ai lavori, relazione all’amministrazione municipale, formazione, percorso professionale, organizzazione del lavoro, sociabilità professionale… Come le nuove maniere di considerare il rapporto tra città e natura sono state condizionate da queste evoluzioni? O anche dall’inerzia di pratiche e dati legati ai periodi antecedenti.

Il progressivo passaggio di varie competenze alle regioni, il cambiamento di scala, ma anche nei percorsi della decisione invita ad analizzare anche questo aspetto nell’evoluzione del verde urbano [22]. Qual è stato l’effetto del cambiamento di scala dovuto a mutazioni nel sistema politico amministrativo? O invece, qual è stato l’effetto delle lotti di potere legate a questo movimento?

Le nuove pratiche professionali hanno fatto ricorso a nuovi strumenti tecnici di mediazione tra disegno e spazio. Questo è molto importante nello sguardo dato al verde urbano.

E anche interessante l’evoluzione delle rappresentazioni grafiche del verde urbano, tra “coloriage”, “collage” e rappresentazioni degne di quadri astratti. Manca ancora un panorama complessivo dell’evoluzione dei modi di disegnare il verde.

Nella stessa logica, l’evoluzione delle denominazioni è interessante [23]. Come i pianificatori chiamano il verde urbano, come creano delle gerarchie nello spazio… A questo riguardo, la produzione linguistica romana negli ultimi dieci anni è forse la più interessante [24].

La riflessione si deve anche confrontare ad una storia sociale e spaziale dei condoni edilizi. Questi fanno parte del sistema burocratico e amministrativo di pianificazione e vanno trattati positivamente nelle ricerche sul verde urbano. Positivamente non nel senso che se ne deve approvare l’uso, ma che si deve uscire dai giudizi morali per valutarne l’effetto.

Verde urbano e democrazia partecipativa. Integrare nella riflessione sulla governance quella sul verde.

Considerare sulla lunga durata il verde urbano.

Comparatismo internazionale [25].

Ci si può anche confrontare alle più recenti tendenze della teorizzazione anglosassone sul tema, in modo di fare avanti l’esempio italiano non solo come fonte di esperienze originali, ma anche di un pensiero urbano avanzato [26].

[1] Sui piani : Mazza (Luigi), Piano, progetti, strategie, Milano, Franco Angeli, 147p. Dallo stesso autore: Trasformazioni del piano. Si veda anche: Bobbio (Luigi), La democrazia non abita a Gordio, Milano, Franco Angeli.

[2] Roncayolo (Marcel), Les Grammaires d’une ville, Parigi, Ehess.

[3] Si veda, per esempio: Sori E. (2001), La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, Il Mulino, Bologna. Anche: Melosi M.V. (2000), The Sanitary City. Urban infrastructure in America from colonial times to the present, John Hopkins, Baltimore.

Melosi M.V. and Scarpino F. (Eds.) (2004), Public history and the environment, Krieger, Malabar.

[4] Campos Venuti (Giuseppe), “I piani della terza generazione: il caso di Bologna”, in Bonfiglioli (Sandra)( a cura di), Il tempo nello spazio, Milano, Franco Angeli, 1987, 188p., p. 65-82.

[5]Si veda, per esempio: Treves (Anna), “La politica antiurbana del fascismo e un secolo di resistenza all’urbanizzazione in Italia”, in Mioni (Alberto (a cura di), Urbanistica fascista, Milano, Franco Angeli, 1986, 344p., p. 312-344.

[6]Su questa legge e sull’insieme del periodo: Salzano (Edoardo), Fondamenti di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 1998, 326p.

[7] Mioni, L’urbanistica milanese nella ricostruzione.

Si veda anche: Un secolo di urbanistica a Milano, Milano, CLUP, 1986, 223p.

[8] Su questo periodo, si veda, per esempio: Zoppi (Mariella), Firenze e l’urbanistica: la ricerca del piano, Roma, Autonomie, 1982, 249p.

[9] Si veda, per esempio: Dial Piaz (Alessandro), Napoli, 1945-1985: quarant’anni di urbanistica, Milano, Franco Angeli, 1985, 166p.

[10] Si veda per esempio : D’Agostino (Roberto), Il verde pubblico a Modena dal dopoguerra a oggi », in Natura e cultura urbana a Modena, Modena, Panini, 1983, 413p., p. 357-375.

[11] Insolera (Italo), « L’evoluzione del concetto del verde nella cultura urbanistica », Urbanistica, 46-47, 1966.

[12] Si veda, per esempio: Fabbri (Marcello), L’urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi, Bari, De Donato, 1983, 443p.

[13] Patocka (Jan), Il mondo naturale e la fenomenologia, Mimesis.

Su questi aspetti: Dewitte (Jacques), “L’unité dans la multiplicité”, Recherches, 14, 1999, p. 78-94.

[14] Si veda, per esempio : Bologna, una città per gli anni ’90 : il progetto del nuovo piano regolatore generale, Venezia, Marsilio, 1985, 207p. Si veda anche: Cervellati (Roberto) De Angelis (Carlo), La nuova cultura della città, Milano, Mondadori, 1977, 299p.

Su questo periodo: Campos Venuti (Giuseppe), L’urbanistica riformista, Etaslibri, 1991, 414p.

[15] Loc. cit.

[16]Si veda, per esempio: Perulli (Paolo), Piani strategici, Milano, Franco Angeli, 2004, 120p.

[17]Si veda, per esempio: Camagni (Roberto) (a cura di), La pianificazione sostenibile delle aree periurbane, Bologna, Il Mulino, 1999, 331p.

[18] Bevilacqua (Piero), Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, Donzelli, 1996, 224p.

[19] Per esempio : Tiezzi (Enzo) Marchettini (Nadia), Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Le basi scientifiche della sostenibilità e i guasti del pensiero unico, Roma, Donzelli, 1999, 194p.

[20] Si veda, per esempio, il numero speciale della rivista Meridiana, n.41, 2001.

[21] Camagni (Roberto) Gibelli (Maria Cristina) Développement urbain durable, La Tour d’Aigues, L’Aube, 1997, 174p. Cap III : « Milan :une métropole en retard ».

[22]Sui cambiamenti del quadro legislativo: Novarina (Gilles), Plan et projet: l’urbanisme en France et en Italie, Paris, Anthropos, 2003, 233p. Si veda anche:Archibugi (Franco), Eco-sistemi urbani in Italia, Roma, Gangemi, 1999, 319p.

Sulla pianificazione territoriale: Campos Venuti (Giuseppe), Amministrare l’urbanistica, Torino, Einaudi, 300p.

[23] Per un panorama generale della questione : Colombo (Guido), Dizionario di urbanistica: voci e locuzioni d’uso corrente in urbanistica applicata, Milano, Pirola, 1981, 202p.

Venturi (Marco), Town planning glossary, Monaco, Saur, 1990, 277p.

[24] Si veda, per esempio: Marcelloni (Maurizio), Pensare la città contemporanea: il nuovo Piano Regolatore di Roma, Roma-Bari, Laterza, 2003, 236p.

[25] Si veda per esempio: Salvo (A. Enrique), naturaleza urbanizada: estudio sobre el verde en la ciudad, Malaga, 1993, 167p. Rueda Palenzuela (Salvador), Ecologia urbana: Barcelona i la seva regiò metropolitana, Barcellona, Beta, 1995, 266p.

[26] Per esempio : Brand (Peter), Urban environmentalism : global change and the mediation of local conflicts, NY, Routledge, 2005. Frey (Hildebrand), Designing the city: towards a more sustainable urban form, Londra, Spon, 1999, 148p.

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