loader
menu
© 2024 Eddyburg
Piero Bevilacqua
Persone perdute
23 Aprile 2005
Esperienze straniere
Per mia negligenza - ma ovviamente anche...

Per mia negligenza - ma ovviamente anche a causa della onnipotente casualità che governa gran parte della nostra vita - non mi ero mai imbattuto, sino a pochi mesi fa, in queste Immagini di persone in Calabria. Conoscevo il nome di Enzo Crea (non ancora l’amabile persona) ma mi era del tutto ignota l’esistenza di questo volume. E in tale mancata esperienza, non c’è dubbio, vi è qualche elemento di negligenza, essendomi io occupato di storia della Calabria per oltre un decennio. Ed esattamente nella fase in cui il testo di Crea vedeva la luce. Ma oggi simile circostanza si rivela con tutti i caratteri di un vantaggio di posizione: mi trovo infatti nella circostanza di osservare questa galleria di foto come se fossero state pubblicate appena ieri, con la freschezza di una scoperta, con la sensibilità di un osservatore che guarda a quei frammenti del nostro non lontano passato dall’alto ( o dall’abisso? ) del terzo millennio. Come se mi sporgessi a guardare quel mondo fissato in immagini da un’altra epoca.

Leggendo la bella introduzione che Rosario Villari ebbe a scrivere al volume nel 1982 ho subito percepito quanto radicalmente nuova fosse la mia prospettiva di lettura, come fosse mutata la mia posizione di osservatore rispetto a chi aveva potuto ammirare queste Immagini venti anni fa. Villari poteva guardare quei volti e quei gesti fissati con discrezione e amore da Enzo Crea, dalla sommità della “grande storia” che è venuta dopo e che li ha cancellati e sommersi. Da storico autorevole e testimone partecipe del suo tempo egli ha potuto osservare quelle ultime vestigia del mondo contadino, fatto di fatica e di miseria, dagli approdi ormai sicuri di una società profondamente modernizzata, liberata dalle antiche pene, approdata agli agi modesti ma rilevanti che lo sviluppo della seconda metà del Novecento ha portato nel nostro Sud. Dunque senza alcuna nostalgia - come ancora oggi continua a essere giusto - ma anche all’interno di una rassicurante visione storicizzante, di un quadro di serena razionalità. Il mondo contadino è scomparso, ma ad esso è successo una nuova fase storica che quel mondo ha assorbito in un equilibrio sociale più stabile, più libero, più aperto al cambiamento, all’informazione. Come non far proprio, in quei primi anni Ottanta, un così equilibrato e saggio punto di vista progressista?

Oggi questa prospettiva, lo dichiaro con nettezza, mi è radicalmente impedita. Le cose sono mutate troppo profondamente e in una direzione che molti di noi non avevano previsto. Io sono costretto a osservare le immagini dei contadini calabresi dei lontani anni cinquanta dal fondo di uno smarrimento profondo di razionalità sociale. Oggi siamo a un approdo diverso da quello immaginato. Quel movimento progressivo che era stato lo sviluppo economico del dopoguerra ha perso ogni telos, è diventata una corsa inquietante e sregolata verso la distruzione di ogni cosa: risorse, territori, ethos civile, rapporti umani. Lo svuotamento di senso dell’agire sociale, il prosciugamento di ambiti sempre più estesi della vita spirituale, non ci consentono oggi di guardare alla storia che ha sommerso la realtà contadina con la sicurezza fiduciosa di un tempo. Certo, nessuna nostalgia per una società di privazioni e di stenti. Nessun desiderio di « tornare indietro ». Ma l’idea di un procedere delle cose verso il meglio, di approdi sempre più avanzati conquistati dall’«andare avanti», non appartiene più alle menti che sanno osservare il nostro tempo.

Tale nuova prospettiva mi induce a osservare le foto allineate da Enzo Crea al di là del loro immediato contesto storico. Le immagini che esse riflettono non sono fissate agli anni della loro rilevazione, al momento congiunturale del loro “scatto”, ma sembrano sprofondare entro una temporalità molto più vasta. Se si fa eccezione per qualche dettaglio di vestiario e forse per una solo foto - quella che rappresenta un treno mentre sbuffa per la campagna - le persone ritratte in questi severi quadri in bianco e nero potrebbero appartenere all’Ottocento o al secolo precedente. Senza nessuna forzatura. Allo stesso tempo anche la regione geografica che ne costituisce lo sfondo è potenzialmente assai più vasta della Calabria: non solo le fugure e i luoghi ritratti potrebbero essere in Puglia o in Sicilia, ma anche in Albania, in Grecia, in Provenza, in Andalusia. E’ il vasto mondo mediterraneo con la sua solarità e anche con i suoi ritmi lenti, che vengono scanditi da figure sfuggite alla potenza erosiva del tempo.

C’è, in questa mia lettura di “ritardatario”, un merito di Enzo Crea. Com’è stato già osservato da Nino Borsellino - in una brillante presentazione delle Immagini di Persone tenuta in Campidoglio, nel 1983 - la fotografia del nostro fotografo è priva di intenzionalità sociologiche. Non mira a denunciare marginalità, miserie, arretratezze. Nessuna delle persone ritratte in queste foto è colta in condizioni di degradazione, di avvilimento. Nessuna recriminazione progressista viene a datare e a rinchiudere irrimediabilmente queste Immagini nella congiuntura politica di quegli anni, nel loro tempo transitorio. E in esse non vi è neppure traccia, neanche una lontana eco dell’epica contadina delle lotte per la terra: fenomeno che pure ha segnato, nell’immediato dopoguerra, uno dei grandi momenti di protagonismo civile e politico di quelle popolazioni. Forse l’unico accenno all’epica sociale di quella fase è in quel treno, a cui abbiamo già fatto cenno, colto mentre corre per la campagna. L’autore accompagna l’immagine con la didascalia Il fumo dell’espatrio. E’ l’unico, discreto richiamo a quel vasto e travolgente fenomeno che fu la ripresa dell’emigrazione negli anni Cinquanta. Nulla più che un sommesso accenno allo svuotamento dei paesi, all’abbandono delle campagne, al dissolvimento del mondo contadino.

In realtà, le persone fotografate da Enzo Crea non sono né derelitte e bisognose di riscatto, né sbalzate fuori dalla loro dimensione quotidiana da eventi memorabili. Nè vittime né eroi. Sono ritratte nell’universo di senso che per secoli ne ha accompagnato e scandito le esistenze. Sono, per l’appunto, persone: termine significativamente scomparso dal nostro lessico quotidiano. Uomini, donne, bambini, vecchi intenti al loro lavoro, ai giochi, alle conversazioni di vicinato, o fissati in un incontro, in una calma attesa, in una pausa di riposo o di riflessione. Persone che vivono ancora con familiarità, come avevano fatto per secoli, con le capre, le pecore, le galline, gli asini. Tutti umili e naturali compagni delle loro vita. E il paesaggio intorno è fatto di pietre, di piccole case, di muri sbrecciati, di duro selciato. Si tratta di figure che incarnano una antropologia profonda, quella delle genti mediterranee, formatasi in una evoluzione millenaria e che è stata dissolta in un batter di ciglia dalla modernizzazione capitalistica.

Nessuna nostalgia, si diceva, delle fatiche e delle pene del mondo contadino. Come potremmo avere nostalgia dell’oppressione che gravava sulla più gran parte delle donne e degli uomini che quel mondo tenevano in piedi?. Ma certo, chi osserva oggi le foto di Crea, difficilmente riesce a reprimere l’onda di struggimento che quei volti generano nel nostro animo. Dall’universo fatuo in cui siamo immersi, dalla coltre di menzogne pubblicitarie che è diventato il nostro nuovo cielo, le immagini di quel mondo lontano ci appaiono come un Eden ormai perduto per sempre. E’ la terra abbandonata dove ancora alberga il significato, e dove ogni gesto è autentico, parla il linguaggio originario e incontaminato della vita. La semplicità dei segni ritratti nel loro spazio quasi fuori dal tempo parla a noi con il linguaggio universale della poesia.

Infine, un’ultima considerazione, che ritorna agli inizi. Apre il volume, la galleria di foto raccolte da Crea, un viso di donna. E’ una persona non più giovane, ma dall’età indefinibile. Prorompe da tutta la pagina che ospita la foto un volto duro, scavato, inciso da ombre e sporgenze: pare fatto della stessa materia di pietra scabra che le sta alle spalle. Poche volte mi è capitato di imbattermi in un volto che con tanta intensità fosse capace di suggerirmi l’idea primigenia, l’archetipo della madre. Quella faccia arcana incarna il volto di tutte le Madri che sono vissute sulla terra. Pare intimamente illuminata da una indomabile forza materna e al tempo stesso, mentre scruta nel fondo angoscioso del passato, è come se fosse approdata a una soglia di serena e inattingibile imperturbabilità. E’ un’ Ecuba che è sopravvissuta a tutti i dolori, a tutti i lutti che hanno straziato la sua esistenza, e che ora osserva con impenetrabile saggezza l’arcano della vita. Nessun osservatore potrebbe violare l’enigma che lo sguardo di questa Madre racchiude. Esso sfugge alla nostra capacità di decifrazione razionale. E’ per questo che essa ci incanta e non cesserà mai di affascinarci. Continua a parlarci un linguaggio di significato e di mistero che incessantemente, nonostante tutto, continuiamo a cercare come la nostra méta: al di la della coltre di irrealtà da consumo, di banale finzione e di menzogna che oggi copre ogni cosa, come un manto di neve sporca.

Le immagini sono di Enzo Crea, e il testo ha costituito la postfazione alla seconda edizione di un libro di foto di Crea,Immagini di persone in Calabria, Edizioni dell’Elefante, Roma 2004.

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg