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Stefano Lucci
Periferie: il «new deal» partecipativo di Librino
30 Luglio 2013
Periferie
Ancora una volta riemerge in un quartiere "modernista" italiano la divaricazione fra intenzioni e realtà, ma con un approccio propositivo non passatista.

Ancora una volta riemerge in un quartiere "modernista" italiano la divaricazione fra intenzioni e realtà, ma con un approccio propositivo non passatista. Il manifesto, 30 luglio 2013, con duplice postilla (f.b.)

CATANIA - A fine giugno a Librino, quartiere della periferia di Catania, «le fiamme alimentate dal vento hanno raggiunto perfino i piani alti delle abitazioni del viale Moncada 11, distrutto le grondaie, bruciati i condizionatori esterni e anneriti i cavi dell'energia elettrica» Le aree verdi di Librino «a causa della mancata manutenzione, oltre a essere causa di annidamento di ratti, insetti e parassiti, diventano ricettacolo di rifiuti che l'inciviltà diffusa continua ad alimentare». Queste alcune righe di una lettera inviata da Sara Fagone, della Cgil di Librino, e Francesco Torre del Comitato Librinoattivo, il 2 luglio scorso, alle autorità preposte al verde pubblico e, per conoscenza, al sindaco neoeletto Enzo Bianco. Librino, come molti sanno, è la new town etnea di cui si parla - quando si parla - solo come rappresentazione tra le massime di degrado e abbandono urbano.

Leggo questa breve lettera - che ha la sobrietà e la continenza verbale di chi denuncia da anni inascoltato - e i ricordi vanno a cinque anni fa. Arrivai a Catania per un reportage che pubblicai su Rassegna Sindacale, settimanale della Cgil. Ci aveva invitati la Fillea, il sindacato degli edili della confederazione: «Venite - mi avevano detto - c'è una bella storia da raccontare di partecipazione e coinvolgimento civico, c'è un comitato di cittadini attivi che ha con grande generosità redatto una piattaforma partecipata per ridare forza e speranza a Librino e farla uscire dal degrado». È passato un lustro da allora e l'impegno infaticabile della gente, non certo per demerito imputabile a questi cittadini, ha prodotto pochi risultati, con un'amministrazione di centrodestra - guidata da Umberto Scapagnini, il medico che non è più tra noi e che evocava l'immortalità di Berlusconi - sorda e presa da altro. Adesso è arrivato Enzo Bianco, il cui primo mandato da sindaco per molti catanesi resta ancora una specie di età dell'oro, una primavera etnea che in tanti sperano di poter, questa volta, far arrivare fino a Librino. Un primo, importante, passo c'è stato: l'istituzione di una delega specifica per Librino che è andata all'assessore Saro D'Agata, che a metà luglio ha incontrato gli abitanti del quartiere insieme alle decine di istituzioni e associazioni che operano sul territorio.

Il sogno di Tange

Ma cos'è Librino? Qual è la sua identità? Difficile dirlo. Lo stereotipo - che però come tutti gli stereotipi una parte di verità la possiede sempre - la vuole espressione plastica del degrado che le grandi aree urbane, specialmente meridionali, sono in grado di produrre ed espellere dal proprio corpaccione. Dunque: intere zone in mano agli spacciatori, aree abbandonate, forte abbandono scolastico, diffusi fenomeni di devianza, pochi servizi e trasporti insufficienti. E fuochi poco fatui che incendiano le sterpaglie, come abbiamo visto.

Con tutte le differenze, la storia di Librino è simile a quella di Corviale a Roma e delle Vele a Napoli. Non borgate cresciute per gemmazione selvaggia e immediatamente purulenta, ma sogni di architetti visionari e coraggiosi che presto, però, si sono trasformati in incubo. L'urbanista, anche se non è un filosofo o un matematico, troppo spesso traccia linee, scrive numeri e poi se ne va. Librino la sognò, più di quaranta anni fa, il grande Kenzo Tange, l'architetto razionalista giapponese allievo ideale di Gropius e Le Corbusier, cui l'amministrazione di Catania affidò nel 1970 il compito di progettare Librino: la città nuova e futuribile alla periferia sud-ovest di Catania, la città satellite da 70 mila abitanti in tutto autonoma e autosufficiente che doveva risolvere la pressione demografica della città etnea. Quarant'anni dopo il sogno Librino, l'orgoglio razionalista di pensare spazi urbani all'avanguardia e in cui l'estetica delle costruzioni fosse giustificata dalla loro funzionalità, sembra svanito. Oggi a Librino, a parte l'infrastrutturazione primaria, manca ancora tutto: servizi, negozi, centri di aggregazione, spazi culturali.

Eppure quando Tange arrivò qui rimase profondamente colpito dalla bellezza dei luoghi. Così scrisse nella sua relazione di presentazione del progetto: «Quando visitai il luogo per la prima volta ammirai quel bel terreno collinoso e decisi di fare qualcosa per utilizzare la topografia, in modo da fondere l'ambiente umano con quello naturale. L'idea che sviluppammo era una completa struttura collettiva, consistente in un asse verde centrale, dal quale si diparte una rete verde che organizza tutto il complesso».

Quel paesaggio così ammirato dal maestro giapponese lo ricorda ancora assai bene Francesco Guzzetta, 68 anni, memoria storica del quartiere, che si sbraccia dal cortile della masseria Buonaiuto da cui si domina una bella porzione della "città nuova": «Lavoravo con mio padre che stava a mezzadria. Queste zone si chiamavano "terre forti", per la gradazione decisa del vino che usciva da quelle uve. C'erano solo viti, mezzadri e case basse. Il lavoro era molto faticoso e si guadagnava poco. Così dal '69 sono andato a lavorare nelle ferrovie. Tutti questi palazzoni prima non c'erano, sono arrivati solo dopo gli espropri delle terre effettuati per realizzare la nuova Librino».

Tange disegnò la sua nuova città organizzandola in dieci quartieri (ciascuno con centri a scala di vicinato, servizi e polo di quartiere) collegati tra loro da sentieri pedonali e continui per i pedoni (le "spine verdi") e un sistema veicolare ad anelli. Librino doveva essere una città immersa nel verde: parchi urbani, aree agricole, spine verdi. Di tutto ciò non resta che una labilissima traccia. Le spine verdi, per esempio, sono in totale abbandono, ricoperte di polvere e sterpaglie e non frequentate da nessuno, se non per i traffici più loschi. Visto dall'alto il sistema veicolare ad anelli rende ancora più esplicita la frammentazione di Librino, lo scollamento dei singoli quartieri, la mancanza di tessuti connettivi: i nuclei abitati sembrano tanti spruzzi di cemento estranei l'uno all'altro. L'effetto è amplificato anche dalle politiche abitative che si sono succedute negli anni: via via hanno costruito a Librino Iacp, cooperative, privati e il Comune di Catania. Per non parlare dell'abusivismo imperante. Il tutto senza uno schema o un disegno o almeno uno spicciolo di logica. Bei comprensori di cooperative - dove si svolge anche una ricca vita sociale - convivono vicino a palazzoni anonimi magari occupati da abusivi. Altrettanto eterogenea è la sua popolazione: vecchi agricoltori, impiegati, operai, sfollati da quartieri storici di Catania tipo San Berillo. Tra questi fallimenti urbanistici e il degrado sociale di certe zone del quartiere il collegamento c'è ed è provato. Secondo uno studio dell'Università di Catania, il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi.

Il palazzo di cemento

Il segno della complessità di Librino è ben visibile dall'area del cosiddetto Palazzo di cemento. In questa piazzona si fronteggiano e si guardano il suddetto, enorme, ventre bucherellato (abitato da poche famiglie di abusivi disperati che vivono in stanzoni fatiscenti, umidi e in condizioni igieniche del tutto precarie) e una piccola costruzione piena di vetrate, quasi trasparente (un Palazzo di vetro?), dove in perfetta antitesi con il buio del colosso dirimpetto si vede tutto quello che accade all'interno. In questo edificio ha sede il centro della Caritas TalitàKum.

TalitàKum significa: «Fanciulla, io ti dico alzati». Il centro accoglie tra i 90 e 100 minori ogni giorno, fa recupero scolastico, organizza laboratori di pittura e creatività varia. Propone alternative a chi magari ha il padre in carcere, la madre assente o, più semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Proprio in questa area mi colpì cinque anni fa l'incontro con Cettina (il nome è di fantasia). Stavamo riprendendo con una telecamera una festa organizzata dai valorosi di TalitàKuma quando incuriosita si avvicina questa bambina che comincia a raccontare: l'hanno appena bocciata in quinta elementare; la maestra, racconta, voleva promuoverla ma il padre le ha consigliato di non farlo, perché non «andava bene ed è stato giusto così». Cettina parla in dialetto stretto e ha anche qualche difetto di pronuncia; non è facile comprenderla. Incoraggiato dalla sua disponibilità le chiedo cosa vorrebbe fare da grande. Risponde: «Non capisco cosa vuol dire questa domanda». Insisto e allora risponde: «Niente, starò con mio marito». Vuoi figli? «Sì, ma solo uno, un maschietto». Poco dopo le persone del postomi raccontanoha perso da poco un fratellino di quattro mesi. Alla domanda «che cosa fa tuo padre», non risponde. Cettina parla già come una grande che riduce le sue ambizioni alla scala delle esperienze già vissute.

Cettina oggi è quasi adolescente. A Librino i ragazzi sono tanti: ci vive il 17 per cento della popolazione giovanile di Catania. Nonostante questo, per loro manca quasi tutto, a partire dalle scuole superiori, ma non solo: Villa Fazio, una vecchia preziosa masseria che era stata ristrutturata e adibita a luogo di ritrovo per i giovani, è stata completamente abbandonata dall'amministrazione. Il campo polisportivo è totalmente dissestato, cartacce ricoprono ovunque sterpi riarsi; dentro e fuori materassi e lacerti di indumenti a testimoniare un passato assai recente di bivacco per disperati. Sono tanti i giovani che sognano di cambiare il loro quartiere. Poi c'è la vicenda sconcertante di campo San Teodoro: i volontari del Centro Iqbal Masih (che dal 1995 lavorano con i bambini delle case popolari, per i quali spesso l'unica prospettiva è di allargare le fila della malavita) hanno nel 2006 messo su con questi ragazzi una bella squadra di rugby, che ha sfiorato anche la serie B. Si chiamano "I Briganti" e per tanto tempo si sono allenati per strada: davanti, il campo San Teodoro, spazi vuoti, abbandonati a se stessi e al degrado. Per questo ne hanno chiesto l'affidamento al Comune, ma non è mai arrivata alcuna risposta. Poi, nella fatidica data del 25 aprile (2012) il Campo San Teodoro viene "liberato": "Briganti" e volontari lo puliscono, estirpano le erbacce, livellano il terreno, ci organizzano feste e spettacoli. Subito dopo la beffa: il campo verrà assegnato ai Salesiani, ma si dice pure che al suo posto sorgerà il nuovo stadio di Catania.

Un futuro partecipato

«Questa è la politica che non vogliamo, Ma oggi mi sento più ottimista e ho voluto l'incontro con il nuovo assessore per consegnarle la nostra piattaforma per Librino - racconta Sara Fagone, infaticabile suscitarice di queste energie sociali - Non gliel'abbiamo data per discuterne, ma per cominciare a tracciare le modalità per mettere in atto le proposte contenute nel documento. Questo anche per affermare con più forza l'idea di una politica partecipata, e che ogni cambiamento o decisione debba essere condivisa con gli abitanti. All'incontro sono intervenute un sacco di persone e questo ci dà speranza perché le cose cambino».

Il tesoro non troppo nascosto di Librino è quello della sua gente. Il suo futuro sta in questo: nell'effervescenza con cui scuole, associazioni, sindacati e volontari organizzano occasioni di incontro e vita comune che convivono orgogliosamente con il degrado sperando però di sconfiggerlo.

La piattaforma per Librino è un documento interessante e complesso, elaborato da tanti in appassionate riunioni a tutte le ore rubate a impegni domestici e di lavoro. Presenta idee innovative per salvare ciò che del progetto di Kenzo Tange è salvabile, modificandolo laddove non è possibile. Le linee di intervento promosse riguardano interventi sul patrimonio edilizio e abitativo, la mobilità e le infrastrutture (studenti e lavoratori hanno enormi difficoltà a spostarsi verso Catania). E poi: i centri di aggregazione, i servizi pubblici, sociali e sanitari, la formazione e il lavoro, il commercio e l'artigianato (attività, queste, quasi inesistenti nel quartiere, nonostante il Piano di zona prevedesse proprio una specifica aerea artigianale) e l'ordine pubblico. Dall'assemblea pubblica con il nuovo assessore sono arrivate prime importanti disponibilità: «Abbiamo chiesto di separare i grandi progetti dalle piccole manutenzioni - conclude Fagone - Poi l'assessore ci ha garantito che aprirà una sede dell'assessorato direttamente nel quartiere, dove sarà lui stesso presente con una frequenza regolare. Ci siamo dati appuntamento per alcune visite guidate: le faremo conoscere meglio il quartiere, i suoi difetti e le potenzialità». Chissà, magari in uno di questi giri incontreranno anche Cettina.

Una città-satellite modello diventata un ghetto
Librino è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata all'architetto giapponese Kenzo Tange, lo stesso che progetterà il Centro direzionale a Napoli. Attualmente conta circa 80 mila abitanti, contro i 60 mila inizialmente preventivati. La progettazione del quartiere fu prevista dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel 1969. La redazione del progetto fu affidata allo studio Tange nel 1970, e il progetto di quest'ultimo fu consegnato nel 1972 e reso esecutivo con un Piano di zona nel 1976. Esso prevedeva anche la realizzazione di alcune lingue di verde e un parco di 31 ettari. Librino, insomma, era stata pensata fin dall'inizio come una sorta di new town, collegata al centro da un asse viario. Ma i risultati furono altri.

Postilla
sono passati quarant'anni da quando il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di Saint Louis, progettato non molto tempo prima da Minoru Yamasaki (architetto razionalista della medesima generazione di Kenzo Tange) veniva demolito a colpi di dinamite, demolizione diventata leggendaria con le riprese del documentario Koyaanisqatsi e le musiche di Philip Glass. Ma nel nostro paese la discussione sul valore sociale del progetto di città razionalista si è sempre arenata su due estremi: da un lato gli architetti che difendono in assoluto il valore formale e culturale di quei manufatti, dall'altro il rifiuto popolare di stampo passatista, che lega (anche logicamente) quelle forme al degrado umano e sociale a cui spesso si accompagnano. Non esiste una terza via? Forse questo articolo, di fatto separando inconsapevolmente i due aspetti spazio/società, la indica. Ma c'è ancora molta strada da fare (f.b.)

Per comprendere un fatto è necessario comprendere il suocontesto. Del contesto fa parte la storia. Anche discutere i prodottidell’edilizia residenziale pubblica fuori del loro contesto storico è unerrore. E’ quello che sostenni qualche anno fa, proprio su queste pagine, in uneddytoriale al quale rinvio (in calce vi trovate il collegamento a una ricca catella di scritti sulle periferie, nell'archivio del vecchio eddyburg). Un secondoerrore è pensare che la città sia fatta solo dagli architetti: che sia solonelle sue forme, nella composizione spaziale. La città è urbs, civitas, polis:è disegno dello spazio, è cultura diffusa e costumi condivisi, è politica eamministrazione. Questo vale perLibrino, come per Corviale a Roma e lo Zen a Palermo. Non so quale sia stato ilruolo di Kenzo Tange (che secondo me è un pessimo urbanista) a Catania: quelloche so è che ci sono state fasi della nostra storia (quelli che definisco “glianni della speranza”) nella quale i migliori urbanisti hanno sperato che quellaitaliana fosse, o stesse diventando, unasocietà migliore migliore di quella che cominciava a diventare. Il nodo è sempre quello: per qualiresponsabilità il vento è girato, da noi e nel mondo, e al ventennio dellasperanza è succeduta la lunga fase della degradazione? Se si ragiona con un po’ d’attenzione su questa domanda si scopre che le responsabilità sono molto ampiamentedistribuite. (es)

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