D: Le banliues parigine, con i loro sommovimenti e le loro proteste, hanno evidenziato un aspetto specifico della crisi contemporanea della città. Qual è, secondo te, la lezione di carattere generale che si può ricavare da questi eventi così clamorosi?
R: Secondo me, l’esperienza francese è in larga misura diversa da quella italiana. Il caso francese dimostra che non sempre è sufficiente il “buon governo urbanistico” per avere risultati socialmente positivi. In generale, la periferia francese è figlia di una impostazione urbanisticamente all’avanguardia, che ha rappresentato un modello. Si pensi alle villes nouvelles. Si sarebbe potuto pensare che, da quell’impostazione, doveva derivare una buona ed alta qualità di insediamento e di vita. Invece, non è stato così, anzi! Il decentramento nelle periferie di attività commerciali e produttive di buona qualità, “l’effetto-città”, pur accuratamente progettato, una formidabile rete di trasporti su ferro: tutto ciò non ha salvato l’esperienza francese dalle vicende alle quali facevi riferimento. Probabilmente perché in Francia sono state dominanti ragioni che derivano dalla natura dell’immigrazione, in larga misura composta dalla seconda o terza generazione di immigrati dal Nord Africa. Un vasto strato sociale che non è mai stato veramente accolto dal resto della popolazione e dalla cultura francese.
D: Quindi si tratta un problema specifico di cultura della convivenza…
R: Penso di sì. In altre parole, in riferimento alla situazione francese, non credo che debba mettersi in discussione il tema delle periferie in senso strettamente e “tecnicamente” urbanistico. Ma si debba riflettere sul fatto che non è nata una vera cultura della convivenza. Bisogna insomma evitare di fare confusione tra queste ragioni sociali molto serie, molto profonde, con la crisi della città come modello spaziale. Né credo che si possano fare confronti con la situazione italiana. Da noi, per certi versi, c’è di peggio, vi sono fenomeni di degrado inauditi. Si pensi alla malavita concentrata nel quartiere Scampia, a Napoli, allo scandalo della estesa solidarietà manifestata nei confronti degli esponenti della delinquenza.
D: Hai anticipato la seconda questione che ti vorrei porre, con un riferimento specifico alla previsione che qualcuno aveva fatto, per cui sarebbero deflagrate anche le nostre periferie. E’ sempre difficile fare previsioni, ma è prevedibile una qualche precipitazione della crisi delle nostre periferie e delle nostre città?
R: Io non credo. Fenomeni di insofferenza per il degrado ci sono e ci sono stati, e non si può certamente escludere che, in qualche luogo, possano esplodere in forma violenta. Per esempio, intorno a questioni relative alle discariche o ai trasporti. Ma non mi pare possibile una reazione contemporanea e omogenea delle periferie italiane intorno a temi di natura sociale. Questo per ragioni riconducibili alle grandissime differenze tra le città, e soprattutto tra le periferie delle città, del nostro Paese. Prendiamo il caso di Roma. La periferia di Roma è in larghissima misura abitata da cittadini che non possono accedere al mercato degli alloggi nelle aree centrali, e sono costretti a vivere in luoghi sempre di più lontani. Ma è una periferia dai connotati molto diversi da quelli francesi, e anche dalle periferie disperate di altre città italiane come Scampia a Napoli o lo Zen a Palermo. La grande periferia di Roma è sterminata, informe, ma non esplosiva. Si tratta comunque di una realtà sociale non animata dal “rancore sociale”, “di classe”, si sarebbe detto una volta, presente in Francia.
D: In generale, sul tema della trasformazione della struttura e della configurazione della città - e quindi anche della crisi del modello di città – ormai è un luogo comune rilevare che non esiste più la città compatta, che c’è la “città di città”, l’”arcipelago” di città, un accentuato policentrismo delle dimensioni della città. Come è possibile andare a un’accezione positiva, a una pratica positiva, a una sperimentazione positiva di questo policentrismo che ormai è un dato di fatto nella città contemporanea?
R: Io di positivo ci vedo molto poco negli attuali processi di trasformazione delle città. Mi pare anche improprio parlare di policentrismo, almeno in riferimento alla situazione italiana. Come stavo dicendo prima a proposito della città di Roma, siamo di fronte a un’espansione sterminata, fatta prevalentemente di lottizzazioni abitative, alle quali si aggiungono attività commerciali e, più recentemente, attrezzature di divertimento e alcuni servizi. Gli abitanti della periferia continuano ad andare ogni giorno verso il centro della città, dove si concentrano le attività di lavoro. E’ questo il connotato patologico della situazione, certamente non solo italiana. Non è vero che è finita la dialettica centro-periferia. Il centro continua ad attrarre in forma anomala e patologica chi vive nelle periferie. Altro che policentrismo. Siamo di fronte al mancato decentramento dei fattori di qualità urbana. Qui è mancata l’azione di governo. Non mancano spregiudicati teorici, sociologi e urbanisti che vedono in tutto ciò elementi positivi. Io non li vedo.
D: È possibile, in una situazione come questa, rilanciare un’azione e una cultura di governo delle trasformazioni della città?
R: È una banalità se dico che la “questione urbana” è, più che mai, una questione politica. Cioè, non è un problema settoriale. Vi è stata, in Italia, una stagione irripetibile in questo senso: quella del primo centrosinistra. Quando si è provato seriamente ad affrontare il tema della condizione urbana. Si respirava un clima particolare, a livello nazionale e nelle città. Tu mi parli da Firenze. Pensa che cosa hanno significato a Firenze l’amministrazione di Giorgio La Pira e l’urbanistica di Edoardo Detti. C’era attenzione e interesse autentici per la città, sentita come un banco di prova decisivo per la politica in generale. Dopo di allora certamente ci sono stati episodi di buon governo, ma sono mancati un’attenzione, un’elaborazione, una filosofia, un interesse complessivi.
Adesso siamo all’avvio di una fase di svolta governativa, e spero che un dibattito e un’iniziativa su questi temi possano ripartire. Ricordo che proprio durante la presidenza Prodi nell’Unione Europea sono state messe a punto raccomandazioni comunitarie che riguardano la necessità di porre un freno allo sprawl urbano. Non nascondo, però, che ho tante perplessità. La teorizzazione e la pratica di un’urbanistica priva di regole e di vincoli sono molto radicate. Per fortuna si è chiusa l’esperienza del governo Berlusconi senza l’approvazione di quella micidiale proposta nota come legge Lupi (con molti sostegni anche nel centrosinistra), che sanciva in via definitiva la privatizzazione dell’urbanistica. L’opposizione a questa proposta è stata limitata a pochissimi settori del centrosinistra. L’argomento è stato ignorato dalla grande stampa e nei dibattiti pubblici. Abbiamo dovuto faticare veramente tanto per riuscire alla fine a farlo accantonare. Auguriamoci comunque che adesso il vento cambi.
D: Finiamo con due questioni di carattere generale. Siamo, per quello che riguarda la questione città – come tante volte viene sottolineato – a uno snodo storico, perchè in questi anni, per la prima volta nella storia umana, la popolazione urbana tende a pareggiare o addirittura a superare la popolazione rurale. Simbolicamente e culturalmente cosa rappresenta, secondo te, questo passaggio? Che tipo di universo sembra delinearsi nella vita e nelle relazioni umane?
R: Osservato dal nostro punto di vista europeo, questo passaggio storico rappresenta comunque, secondo me, un tendenziale miglioramento. Non condivido le analisi e le rappresentazioni apocalittiche che in merito vengono proposte. Sono analisi implicitamente nostalgiche e regressive dal punto di vista culturale ed antropologico. Non penso che questa forte spinta all’urbanizzazione debba necessariamente essere un fattore così terribile, come spesso si dice. Credo che continui a essere vero che “l’aria della città rende liberi”. Si va a vivere in città per migliorare le proprie condizioni, per avere nuove opportunità. La campagna è spesso sinonimo di immobilità e di passiva accettazione di condizioni disumane. Naturalmente, so bene che le megalopoli asiatiche hanno ben poco a che fare con la nostra storia e la nostra cultura europea della città. C’è la “città illegale”, ci sono sacche spaventose di povertà e devastanti sperequazioni. Perché la condizione urbana diventi accettabile, si devono fare sforzi smisurati e deve essere accelerata la messa a punto di strumenti e di misure di carattere organizzativo, finanziario e sociale (si pensi alla condizione sanitaria negli agglomerati del “terzo mondo”) per combattere la miseria e l’emarginazione. Con tutto questo, il “fattore città” in espansione ed in crescita non riesco davvero a vederlo come fatalmente negativo.
D: Il tema della città è questione veramente di portata enorme dal punto di vista culturale ed è al centro di un grande dibattito, oggi, tra sociologi, antropologi e urbanisti. C’è chi dice che nell’età delle megalopoli, nell’età in cui le città sembrano non avere più un centro, in cui la città tende a non avere più una dimensione definita, la cultura della città così come si è storicamente formata, sia arrivata al capolinea. Tu concordi con quest’analisi così drastica ?
R: Non so se si possano dare definizioni a senso unico, valide su scala planetaria. Secondo me non è possibile. In Europa è innegabile il peso positivo dei fattori urbani tradizionali. E penso che sarà sempre così. In questa parte del mondo, secondo me, nonostante le trasformazioni in corso, non vale l’ipotesi catastrofica e definitiva che dichiara conclusa l’”epoca delle città”. In certe regioni dell’Asia o del Sudamerica, dove, tra l’altro, il peso delle città è stato diverso rispetto all’Europa, si vivono sicuramente problematiche diverse.