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Giovanni Caudo
Periferie, di che cosa?
7 Novembre 2005
Periferie
Le periferie di Parigi bruciano. Guerriglia urbana in aree di degrado fisico e sociale. Periferie si, ma di cosa?

A Roma, nella periferia sud, in fondo a via Gerocarne, oltre gli argini del Tevere, nel canneto una donna e un uomo abitano insieme. Vengono dalla Romania. Poco lontano, stesi sul prato, ci sono i loro vestiti ad asciugare. La riva del fiume è lì davanti, un passo oltre e sei nell’acqua. Pochi metri più in là, un sentiero tra la vegetazione rivela una roulotte, una tettoia, qualche sedia, una doccia arrangiata con il bidone in alto. Tra le canne, una sedia bianca in plastica, opportunamente modificata, è il bagno. Ancora oltre, fili per stendere i panni rivelano altre presenze umane. Presenze precarie ma anche luoghi “arredati” in un modo che ti sorprende, nel senso che non ci avresti mai pensato che si poteva ri-dare senso a tante di quelle cose che buttiamo.

Poco prima, proprio sull’argine del fiume, Giorgio, rumeno anche lui, ha messo insieme una roulotte, qualche tettoia, divani, mobili, sedie, ha anche un letto per il figlio che la domenica lo viene a trovare. Non ha mai parlato con la donna e con l’uomo rumeni che vivono nel canneto. Lui non si nasconde anzi, la sua baracca è visibile da tutti e lui vede la borgata ex abusiva, gli abitanti lo conoscono e ha un buon rapporto con loro. Una baracca sull’argine del fiume, una bicicletta per muoversi sono molto meglio di quell’appartamento a Ostia vicino al Todis dove abitavano in ventuno con un solo bagno. Qui lui ha anche la doccia.

Se si risale verso Magliana, dove il fiume piega un po’, si trova una vera e propria baraccopoli come quelle delle metropoli dell’altro mondo, ma anche come i tuguri degli anni ’60. Anche qui rumeni, qualche giorno fa un incendio, per il momento solo una baracca bruciata. Risali il fiume e in centro, in pieno centro, sotto i ponti e lungo le sponde del Tevere una presenza continua e diffusa di un abitare precario che va avanti da tempo. Più a nord, verso Tor di Quinto e, ancora, nella zona oltre l’aeroporto dell’urbe altre presenze di un abitare sul “bordo”.

Che tipo di periferia è questa che attraversa il centro e che ci sta davanti mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane? O, piuttosto, di che “cosa” è periferia? Cos’è quello che sta attorno a quello che semplicemente indichiamo come periferia? Dov'è il centro di questa periferia, quel luogo da cui secondo un movimento centrifugo giungono fino a qui queste tracce?

La periferia messa a fuoco e fiamme non illumina il degrado sociale e fisico dei quartieri ma tradisce la rimozione di un pensiero sulla città, su cosa è diventata la città, sulle disuguaglianze prodotte, qui e altrove, dal modello economico neoliberista.

E’ vero o non è vero che da tempo le città non sono più nell’agenda politica pubblica? E’ vero o non è vero che la sicurezza urbana è il modo, ormai prevalente, con cui le città entrano nei dibattiti, nelle agende della politica (ma ne escono presto, quanti si ricordano ancora oggi delle polemiche estive del 2003 attorno agli omicidi avvenuti nella periferia Milanese, a Rozzano?).

Si può cambiare rotta? Possiamo tornare a guardare le città come a luoghi dell’innovazione, della crescita e della giustizia sociale? La risposta deve essere si, e bisogna fare in modo che le città (non solo le periferie) tornino ad essere un tema centrale nel momento in cui ci si appresta a formulare il programma di governo.

I dati positivi sulla crescita del Pil, come dei posti di lavoro, registrati dalle principali città italiane, non bastano e, anzi, ci nascondono una crisi che si trascina, si radicalizza e che modifica strutturalmente il carattere delle città. La crescita degli indicatori economici, registrata dalle statistiche, non ci dice nulla sulle persone che sono dovute andare via dalla città, in provincia, in cerca di casa, su dove portano i figli a scuola, su dove trovano spazi di socialità e di solidarietà. L’emergenza ambientale registrata nelle grandi città italiane è solo la manifestazione ultima di una sofferenza sociale, di disagi di uomini, di donne, di ragazzi e ragazze, di bambini e anziani. La manifestazione del bisogno di spazi dell’abitare, di possibilità di spostamento, di cultura e di opportunità di socialità. Per questo non basta la tecnologia pulita applicata all’automobile, il problema è di natura diversa. Oggi, spostarsi dentro le città è più difficile di ieri, lo si fa più lentamente. Le proteste dei pendolari che viaggiano sui treni regionali sono la spia accesa sulla carenza dei treni ma, anche, sulla difficoltà più generale di vivere e lavorare in città. Non sono anche queste storie di periferia?

Le periferie di Parigi sono a fuoco e fiamme ma in pochi hanno accennato qualche perché, qualche ragione. Pare che anche in questo caso si avanzi la giustificazione di rito, l’integralismo islamico, e si costruisce così il velo che nasconde le nostre contraddizioni. Ad esempio, c’entra o non c’entra l’emergenza casa? C’entra o non c’entra che anche in Francia non si costruiscono più case popolari e che i municipi quelle che hanno le vendono? C’entra o non c’entra che non ti basta uno stipendio per avere in affitto un bilocale? C’entra o non c’entra che su 340 mila richiedenti un alloggio nell’area parigina non c’è alcuna disponibilità di alloggi? C’entra o non c’entra la corsa senza fine del mercato immobiliare, canoni e valori degli immobili cresciuti a dismisura. Il più lungo ciclo immobiliare di segno positivo, cominciato già nel 1996, molto prima della bolla della new economy e delle torri gemelle. C’entra o non c’entra la redistribuzione della ricchezza che sta producendo una sempre più accentuata polarizzazione tra ricchi e poveri. C’entra o non c’entra che circa 6 milioni di persone in Francia sono relegati in quartieri-ghetto delle grandi città dalle quali sono stati esclusi fisicamente e socialmente. Siamo sicuri che non c'entra nulla il nostro passato e come nell’ultimo film di Haneke non abbiamo “Niente da nascondere”?

Il problema non è nel degrado delle periferie, nei bassi livelli di vita e di vivibilità dei quartieri, questi sono solo i risultati più evidenti di un malessere.

Solidarietà e partecipazione si stanno diffondendo e attraversano le città non solo più nelle periferie. In molti casi queste forme rappresentano l’unico modo per soddisfare bisogni essenziali: realizzare un parco, costruire un asilo, una casa o una struttura per ospitare gli immigrati. Le esperienze cooperative e del volontariato sono oggi una risorsa importante per rispondere nei contesti urbani ai bisogni primari (forse è anche per questo che da noi la situazione è meno incandescente). Ma sono anche la misura della febbre del crescente disagio sociale provocato dall’arretramento delle politiche pubbliche di welfare.

E’ per questo che sempre più forte e urgente si fa il bisogno di un nuovo progetto politico con valenza strategica e di interesse nazionale che colga la sfida di collegare lo sviluppo economico e le aree urbane secondo principi di equità e di giustizia. Per questo il soggetto pubblico deve recuperare autorevolezza e tornare a fare la regia dei processi di trasformazione urbana. Non si può essere fraintesi se si afferma che oggi la carenza principale del soggetto pubblico non sta nelle risorse economiche ma nella capacità di formulare con chiarezza politiche pubbliche. Abbiamo bisogno di più mercato ma il mercato ha bisogno di più pubblico, e se guardiamo alle città comprendiamo quanto questa esigenza non si possa più rinviare oltre.

Le città sono cresciute, la campagna si è fatta metropoli senza passare per la città. Ciò che abbiamo davanti non è stabile, non è definitivo è, ancora, “disordine, precarietà tanto più grave e pericoloso perché si presenta sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe ancora da cominciare”. Cominciare, appunto, chiedendosi: Periferie si, ma di cosa?

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