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Keith A. John A.; Sculle Jakle
Parcheggi e commercio suburbano (1)
21 Febbraio 2006
Il territorio del commercio
Una ricostruzione storica della formazione degli spazi del consumo contemporanei negli USA. Parte prima: dalle origini dell'automobilismo di massa, alla seconda guerra mondiale (f.b.)

John A. Jakle, Keith A. Sculle, Lots of Parking. Land use in a car culture, University of Virginia Press, Charlottesville, London 2004; Capitolo 8: Parcheggiare per lo Shopping: lo sviluppo nell’ambiente suburbano; Traduzione di Fabrizio Bottini (parte I)



Il parcheggio è stato raramente considerato come fatto a sé. Molto più spesso è stato visto come facilitatore di altre attività. Urbanisti e ingegneri del traffico possono certo pensare ai parcheggi come questione centrale, ma l’utente normale di solito non lo fa. Come ci ha detto recentemente un esperto del settore, “il parcheggio è qualcosa che tutti si aspettano, ma a cui nessuno ha voglia di pensare” [1].

In questo capitolo trattiamo il ruolo al tempo stesso di servizio e centrale dei parcheggi per il commercio, per i clienti che cercano un posto dove fermarsi e i negozianti che ragionano su come offrirlo, spesso col pericolo di morte economica se non lo fanno. Quale è stata l’influenza del parcheggio nella transizione del ventesimo secolo, dal commercio nei negozi centrali urbani, ai complessi nei quartieri e infine ai centri commerciali suburbani? Quali configurazioni fisiche sono state proposte, per questo invisibile ma fondamentale elemento di forza? Quali alternative sono state prese in considerazione? Quali forme sono prevalse, e perché?

Guardiamo al parcheggio come un fattore essenziale integrato nell’insieme generale dell’insediamento commerciale. Vogliamo capire quali elementi hanno prevalso, nello stesso modo in cui vorrebbero capirlo la maggior parte delle persone se il parcheggio fosse qualcosa a cui si presta attenzione.

Le decisioni su come organizzare il parcheggio legato al commercio non nascono in modo razionale, se per “razionale” intendiamo consapevolezza, valutazione delle alternative, azioni intraprese nella prospettiva di un programma di lungo termine. I critici razionalisti del parcheggio commerciale – molti urbanisti e gli attivisti anti-automobile – ritengono la nazione colpevole di essere scivolata nelle conseguenze della mobilità automobilistica senza piana coscienza del suo significato o intenzioni che andassero oltre obiettivi di breve termine [2]. L’esperienza nel tempo dimostra che la stragrande maggioranza degli americani che in qualche modo si sono interessati del prodotto collaterale parcheggio, erano soddisfatti di come e dove parcheggiavano prima che la scarsità di spazi iniziasse ad essere un deterrente della mobilità, ed alcuni sollevassero dubbi, critiche, e suggerissero soluzioni ai problemi di parcheggio determinati anche dalle migliori intenzioni di chi li aveva preceduti.

Gli americani in generale hanno sempre colto le occasioni di massima mobilità fisica, individualismo, insediamento decentrato, di cui l’automobile ha stimolato le più recenti espressioni. I geografi hanno sottolineato la passione americana per il movimento attraverso il paesaggio, variamente alla ricerca di miglioramento economico, specie prima del XX secolo, nel quadro del processo di reinsediamento o del tempo libero attraverso il turismo. Più di recente gli studiosi di letteratura hanno evidenziato l’emergere di un genere della strada negli scritti americani, secondo varie dimensioni tutte tese a considerare le strade su cui si spostano le persone come “spazio sacro”. Gli scrittori, usando la strada come strumento o metafora, speculano su ciò che la cultura americana è stata, e dove ritengono stia andando. Gli storici hanno rintracciato l’emergere dell’industria automobilistica e dei settori ad essa dipendenti per affermare anch’essi che determina gran parte della vita nazionale e all’estero nel corso del XX secolo. Gli abitanti del Sud, spesso considerati la parte più conservatrice del paese, hanno comunemente modificato il loro stile di vita per inserirci la mobilità automobilistica. Gli americani hanno teso a riempire la vastità dello spazio nazionale continentale con edifici e strutture sovradimensionati, a contrassegnare il raggiungimento di un luogo definitivo, continuando nonostante questo a celebrare il politicamente incontrollato passaggio da un luogo all’altro. Le lunghe distanze da percorrere in automobile non scoraggiano gli americani. Gli spostamenti più brevi come quelli attraverso città e cittadine non hanno mai impressionato chi se lo poteva permettere, preferibilmente con mezzi personali. Il concetto di “strada del re”, che risale al Medio Evo, dava base giuridica alla credenza secondo cui le persone avevano il diritto di muoversi senza impedimenti attraverso un certo percorso. Nel XX secolo questo si unisce alla superiorità fisica dell’automobile rispetto alle altre forme di trasporto e alla mobilità pedonale, producendo una presunzione di superiorità dell’automobilista nell’uso della strada, e del parcheggio come sua estensione [3].

Gli americani hanno in genere opposto resistenza ai programmi governativi di aumento delle tasse, perché queste sono percepite come imposizioni che interferiscono con l’individualismo. L’assenza di un forte movimento socialista nella storia nazionale conferma la predilezione dell’individualismo. L’eccezione forse più degna di nota, è la rapida adozione delle imposte sulla benzina in tutti gli stati (a partire dall’Oregon nel 1919) per finanziare la costruzione di un sistema stradale in ogni stato, e l’emanazione di una serie di leggi federali di sostegno per le strade (a partire dal 1916) per costruire un sistema portante di grandi arterie nazionali. Anche nelle zone con valori più radicatamente anti-statalisti, furono tranquillamente accettate le norme sulle patenti di guida e i limiti di velocità. La vita in comune e urbana, è sempre stata minoritaria nell’ambienta americano [4].

Joseph Interrante ha attribuito il modo inconsueto in cui l’automobile influenza il tipo di insediamento al “metropolitanismo”, termine ripreso da Recent Social Trends della Commissione Hoover, 1933: “Riducendo le dimensioni delle distanze locali, il veicolo a motore allarga l’orizzonte della comunità e introduce una divisione territoriale del lavoro fra le istituzioni locali e le amministrazioni confinanti unica nella storia dell’insediamento. ... Inoltre, cittadine e villaggi un tempo indipendenti, e anche il territorio rurale, diventano parte del complesso urbano allargato”. Interrante, anche se non offre una spiegazione adeguata del perché l’automobile sia diventata un prerequisito di sopravvivenza in ambiente metropolitano, correttamente sottolinea come non si tratti di un percorso obbligato. La mobilità automobilistica avrebbe potuto essere riservata al tempo libero o agli spostamenti oltre le zone servite da ferrovie e tranvie [5].

Sono i ceti medi urbani a introdurre l’idea di usare l’automobile non solo per il tempo libero ma anche per risolvere una serie di problemi urbani che si erano accumulati alla fine del XIX secolo. Molte città all’epoca erano diventate luoghi poco piacevoli per vivere, e quelli che un tempo erano vantati come elementi di superiorità ora erano messi in dubbio. Molti riformatori sociali attribuivano alla città problemi sanitari e psicologici. Nella Progressive Era i suburbi erano proposti come panacea, e il trasporto a basso costo verso di essi divenne un importante obiettivo politico, contro le compagnie tranviarie che ne erano i principali gestori. È stato dimostrato come nell’importante caso di Chicago la corruzione, la cattiva gestione e il servizio carente abbiano indebolito il trasporto pubblico, mentre in contemporanea l’automobile migliorava il proprio servizio alla élite politica della città, diventando attraverso una serie di complessi sviluppi il modo dominante di trasporto. I particolari cambiano a seconda delle città e degli hinterland suburbani, ma la mobilità automobilistica e il suo risultato in termini di centri di popolazione a bassa densità rappresentano una forte componente delle soluzioni idealizzate da molti. Uno storico sostiene in modo convincente che i riformatori municipali avevano previsto almeno che l’auto avrebbe eliminato la vita della strada, ma non furono in grado di contenere l’alta opinione che avevano di essa i ceti medi urbani, che rappresentavano la loro base politica [6]. La mobilità automobilistica produceva alcuni problemi inattesi, come quello che sarebbe stato portato dal parcheggio, ma in un primo tempo la sua completa egemonia fu la benvenuta.

Furono concepite alcune alternative per evitare che il traffico urbano venisse ulteriormente congestionato dall’automobile, ma tutte presupponevano che si trattasse di un mezzo di soddisfazione sociale, rispetto al quale fosse possibile suscitare nei proprietari gli istinti verso un’armoniosa comunità. Chi pensava alle alternative, non previde come quasi tutti gli americani che potevano permettersi un veicolo a motore, almeno per la maggior parte del XX secolo, avrebbero agito secondo le proprie inclinazioni individualiste nella guida dei veicoli, e non secondo forze centripete nella costruzione della comunità, ma in modo centrifugo a spingere l’insediamento sempre più lontano dai nuclei densi. Le alternative, da quelle dei teorici a quelle dei costruttori di suburbi, illustrano una fede nelle possibilità di mettere le briglie all’automobile. Nel 1914, la filantropa Mary Emery progetta Mariemont, Ohio, a 30 chilometri da Cincinnati per i lavoratori urbani poveri. È un adattamento americano della città giardino inglese, un’alternativa pastorale alle grandi città sovrappopolate, inquinate, senza servizi; Mariemont adotta l’automobile, e una strada la collega a Cincinnati. “Le strade di cemento assicurano pulizia, levigatezza, durata” all’interno del villaggio, secondo una descrizione [7]. Nel 1932, la " Broadacre City" di Frank Lloyd Wright propone un modello per 1.400 famiglie di cui il trasporto automobilistico è parte integrante, e l’insediamento si stende su dieci chilometri quadrati. Ma non si pone enfasi sugli spostamenti fra i vari punti; la soddisfazione è spirituale e va cercata nella vita di una comunità autosufficiente [8]. Radburn, New Jersey, a una ventina di chilometri da New York City, è progettata per superare le crescenti opposizioni alle macchine rumorose per le strade di molti nuovi centri, ed essere comunque “la città dell’epoca dei motori”. Gli urbanisti di Radburn evitano la classica griglia stradale che consente l’attraversamento continuo da parte delle macchine, a favore di una serie di cul-de-sac in cui sono situate le case. Un sistema a verde completa l’insediamento pensato per una popolazione di 25.000 abitanti [9].

Luoghi del genere erano proposti nella convinzione che la mobilità automobilistica fosse un’aggiunta alla buona vita interna alla comunità, e si trattava di spazi antiurbani. I loro sostenitori presumevano che non ci fossero aumenti nel numero di persone all’interno di ciascun insediamento, e non si edificasse fra l’uno e l’altro. Si abbandonavano le città esistenti per trovare rifugio in nuovi spazi pionieri nell’aperta campagna, ovvero suburbi. Non prevedevano il livello a cui l’automobile, all’inizio solo un mezzo di trasporto, alla fine si sarebbe trasformata in un agente di modificazione, anziché di integrazione, delle potenzialità. Molte persone apprezzavano i viaggi in automobile, e gli spostamenti pendolari non li scoraggiavano dall’abitare nei suburbi e lavorare in città anche distanti. I sostenitori di un’organizzazione definitiva degli insediamenti lungo le strade nell’aperta campagna, e concentrazioni separate per centri, col commercio posto al di fuori del nucleo urbano, magnificavano a questo proposito la domanda di “comodità” da parte dei consumatori. In una indagine condotta dalla catena di giornali Scripps-Howard a oltre 53.000 casalinghe, e in un altro della Kroger Grocery and Bakery Company in 5 città, fu posta la domanda perché facessero spesa più frequentemente in un certo negozio alimentare. La risposta fu per comodità nel 27,2% del casi per l’indagine Scripps-Howard, e sempre per comodità nel 70,5% del sondaggio Kroger [10]. Chi se non qualcuno con interessi finanziari nell’insediamento di complessi decentrati forieri di nuove automobili poteva in un primo tempo verificare le preferenze della gente? Orientamenti verso la suburbanizzazione e conclusioni delle ricerche egualmente orientate.

Comodità è un termine pigliatutto, che maschera una convergenza di molte motivazioni particolari. La comodità è relativa. Ciò che conviene a una persona può non esserlo nel giudizio di un’altra. I dati empirici che hanno influenzato le decisioni nel modo degli affari sono insufficienti. Non sappiamo, soprattutto, quanto davvero la clientela di allora fosse disponibile a guidare per raggiungere la propria destinazione. I primi complessi commerciali di tipo drive-in a Los Angeles, quelli degli anni ‘20, potrebbero essere stati collocati secondo le impressioni del potenziale proprietario riguardo al volume di vendite e relativi profitti, in una località promettente. Non sembra ci siano stati studi sul traffico simili a quelli condotti dagli imprenditori dei garages a parcheggio. Le piccole dimensioni dei negozi e mercati drive-in possono giustificare l’assenza di dati, perché la rilevazione era considerata una spesa non necessaria. Uno studio per una catena alimentare pubblicato nel 1941 rivela che il 76% dei clienti che arrivano in automobile percorre più di 500 metri, e il 34% oltre un chilometro. Alcune persone, dunque, erano disponibili a guidare oltre una veloce passeggiata, sino alla loro destinazione. Questa comodità può anche essere stata gergo da piazzisti, ma la maggior parte delle persone arrivando aveva una certa serie di aspettative. Aspettative che sono state voluminosamente e ripetutamente elaborate dalla letteratura commerciale a partire dagli anni ‘20 [11].

Gli americani non volevano far compere nei negozi del centro dove la congestione assediava la loro meta. Una serie di valori giocarono un ruolo di primo piano, contribuendo a configurare aspetto e accessibilità delle destinazioni commerciali. Come era possibile riconciliare il gusto per l’espressione individuale, il fastidio per un’involontaria delega all’autorità, il desiderio di spazio, la fede nella libertà attraverso l’automobile, di fronte agli ingorghi da traffico? Lo stesso agire sincrono della propria esistenza rispetto a quella degli altri automobilisti aggirandosi per il centro a cercare un buon posto auto o a pagamento, su strada o in garage, qualcosa che molti ritenevano troppo dispendioso, qualunque fosse il prezzo, rappresentava un’intrusione nella vena libertaria di parecchi americani. Ci furono anche altri fattori ad allontanarli dallo shopping in centro: una scarsa scelta di beni e servizi, un ambiente poco piacevole e insicuro, la distanza dalle loro abitazioni suburbane. Ma molti americani si sentirono anche rapidamente troppo immersi nella folla in uno spazio ristretto, preferendo generose distanze fra sé e gli altri clienti. L’assenza di parcheggi abbondanti e gratuiti respingeva i consumatori; dunque anche il parcheggio stesso era un importante fattore. La mobilità automobilistica, scartando alternative intermedie come Broadacre City, Mariemont, o Radburn, trionfava negli insediamenti dispersi e fasce commerciali perché a molti non dispiaceva, o addirittura piaceva, spostarsi, per lo shopping come per il tempo libero, quando all’arrivo era promesso un rapido parcheggio e un’altrettanto rapida scappatoia se il posto si trovava molto al di fuori della serie di complessi commerciali congestionati nel centro o di quelli originari di prima fascia periferica. Riesaminando le origini della fascia commerciale e del suburbio, alcuni studiosi concordano sul fatto che luoghi-tipo del genere dimostrano come gli americani vogliano semplificare gli spazi in cui vivono, dove fanno acquisti, e il modo di arrivarci, adottando un tipo di insediamento meno formalizzato [12]. Ma questo è senno di poi.

Le conseguenze non furono né preordinate né ovvie a coloro che fecero evolvere il paradigma attuale. Nel 1927, John Ihlder, funzionario della United States Chamber of Commerce, apprezza l’importanza dei parcheggi, ma non capisce che una loro corretta organizzazione può attirare i clienti. Ihlder avverte che i centri città coi loro problemi di sosta non stimolano l’attività commerciale, ma non incoraggia la realizzazione di garages parcheggio – probabilmente perché si tratta secondo lui di innovazioni non sperimentate – e propone invece di aumentare lo spazio sulla strada regolamentando la disposizione planimetrica degli edifici. I parcheggi insufficienti nel decennio successivo danneggiano il commercio. Un’indagine della camera di commercio del 1944 sul centro di Montclair, New Jersey, per esempio, rivela che la città possiede il più alto potere d’acquisto per famiglia dell’Est, e il terzo a livello nazionale, eppure quasi la metà delle spese viene effettuata nelle città vicine [13].

Frank R. Hawkins, responsabile di Unterecker's, catena di vendita dolciumi di Buffalo, è uno degli imprenditori più immaginifici, e sa utilizzare il proprio metodo per tentativi e correzioni di organizzare le attività portate dall’automobile, a partire dagli anni ’20. Hawkins comprende che “oggi quasi tutti quelli che hanno voglia di comprare un dolce e di spendere denaro per questo, hanno anche un’automobile”. In un punto vendita nel centro città congestionato, di fianco a un cinema, dove ci si poteva aspettare un gran andirivieni, la maggior parte dei clienti arrivava di giorno, non nelle ore notturne in corrispondenza degli affollati spettacoli al cinema. In un altro negozio, fuori dalla zona congestionata del quartiere commerciale”i nostri clienti possono trovare quasi sempre un posto per parcheggiare di fronte al negozio, o molto vicino ad esso. Non devono venire a piedi o guidare una o due volte attorno all’isolato per trovare un parcheggio, come succede spesso nella parte congestionata di questa zona”. La differenza di frequentazione era dovuta alla disponibilità di parcheggio, e Hawkins astutamente preparò il futuro di Unterecker's, non solo con un prodotto di qualità, ma basandosi anche sulla geografia.

Nel futuro, le posizioni che sceglieremo saranno quelle che ci assicurano ampi spazi a parcheggio per i clienti, al centro di una buona comunità residenziale. Il numero di persone che passa dal negozio a piedi non conta molto in realtà, non quanto quello di chi passa in automobile, tende a fermarsi, e lo spazio a parcheggio che gli rende facile la sosta e l’acquisto”[14].

Il parcheggio, chiaramente visibile dall’auto e facilmente accessibile, era un incentivo. Hawkins è chiaro in modo disarmante, contro i numerosi commercianti che rivendicheranno poi la primogenitura dell’importanza del parcheggio, e fornisce un’immagine ravvicinata notevole della sensibilità dell’imprenditore ai nuovi orizzonti dell’attività.

Molta parte dell’evoluzione dei negozi verso modalità più comode per il parcheggio delle automobili, ad ogni modo, deve essere studiata attraverso la cultura materiale non scritta. Di fatto i fondatori delle attività sulle fasce stradali non hanno lasciato memorie. Dallas è uno dei primi ambienti in cui si sviluppa il parcheggio riservato a scopi commerciali, che in città comincia nel 1921 come scelta non originariamente pensata come tale da chi se ne avvantaggia. In mancanza di una norma urbanistica che proibisca i negozi di quartiere, molte attività si spostano verso gli incroci, dove arretrano almeno 7 metri dal bordo stradale per consentire il parcheggio perpendicolare. La successiva domanda di questa attrattiva spaziale per automobilisti da parte delle catene di distribuzione in cerca di immobili, la rende molto popolare fra i proprietari. Los Angeles contemporaneamente offre una gamma più vasta di tipi di negozio dipendenti dal parcheggio. Longstreth ha correttamente individuato nei negozi suburbani una frattura radicale rispetto al commercio tradizionale. Il parcheggio attira l’occhio dell’automobilista verso una serie di elementi architettonici del negozio [15].

La progettazione dei parcheggi entra rapidamente in quella degli shopping centers e gli imprenditori con essi lanciano l’esca per il cliente. Il Country Club Plaza a Kansas City, cominciato nel 1923, è il modello originario poi adattato da molti operatori. Il fondatore J. C. Nichols voleva che il parcheggio fosse più che non solo facilmente visibile e accessibile. Il parcheggio era un aspetto del flusso veicolare, calcolare gli angoli, carico e scarico merci, dimensioni dell’isolato, solo per nominare alcuni elementi. Gli imprenditori disposti a prendersi dei rischi iniziano ad apprezzare il potenziale del parcheggio nei tardi anni ‘20 [16].

La comodità inizia ad essere compresa intuitivamente, così come tante altre cose in questi shopping centers. Ne fanno parte certamente anche gli ampi, visibili e accessibili parcheggi. Non esiste nella letteratura commerciale uno spazio specifico per il ruolo del parcheggio, ma la sua frequente inclusione nelle dichiarazioni su cos’è buon commercio ne chiarisce le potenzialità. Commenti come "I visitatori hanno la comodità di parcheggiare di fronte ai negozi” o “questo crescente bisogno di comodi parcheggi” caratterizzano la letteratura dagli anni ‘30 [17]. “ Convenience goods” sta a significare articoli comprati per impulso, presumibilmente perché la situazione lo consente. Il parcheggio aiuta a indurre questo impulso. La posizione degli shopping centers, il loro progetto, quello dei singoli negozi all’interno, certo contribuiscono, ma il parcheggio è sempre a fianco, curiosamente poco amato. Un vuoto in attesa di frequentatori, implicitamente attrattivo, singolarmente diverso dagli altri elementi espliciti di attrazione geografica e architettonica degli shopping centers.

Torniamo brevemente a queste attrazioni, che completano l’immagine del cliente che arriva in automobile. Partiamo dalla geografia. I primi nodi commerciali suburbani possono essere chiamati “ shopping centers esterni”, un nome che J. C. Nichols contribuisce a rendere popolare, a sottolineare gli elementi di rottura rispetto agli spazi tradizionali del centro città [18]. La macro visione di questi centri esterni è già stata proposta molte volte ed esaurientemente. Possiamo tranquillamente generalizzare la descrizione fatta da un ingegnere del traffico nel 1942 di Los Angeles, panorama automobilistico per definizione. I centri terziari esterni cominciano a qualunque incrocio di traffico, seguendo o anticipano qualunque direzione dei flussi. “Lo sviluppo continua, e i bracci delle numerose croci sulla scacchiera delle strade principali si incrociano, così ogni via e arteria principale di Los Angeles è diventata o diventerà presto fittamente edificata con tutti i generi di strutture per attività” [19]. A livello del terreno, l’urbanista descrive le sezioni stradali come ridotte; gli incroci, aree a velocità limitata, segnali di Stop, come numerosi; gli affacci stradali pullulanti di piccoli negozi, le abitazioni in calo, i cartelloni; e poi i locali notturni, i chioschi, i depositi, a ricoprire qualunque sopravvivenza di aperta campagna. Gli shopping centers esterni colonizzano la fascia stradale [20].

Una volta attirato il cliente col parcheggio, me merci vengono mostrate nel modo che più probabilmente concluderà la vendita. Una visibilità chiara sembra rinforzare la capacità di discernimento del cliente. L’idea della chiara visibilità suggerisce anche affidabilità del prodotto; quello che si vede è quello che si acquista. Pesi, misure, limpidezza dei prodotti avevano da tempo creato problemi nei mercati. Il commercio nell’era dell’automobile provava con la certezza. Longstreth indica nella corte aperta dei mercati drive-in di Los Angeles una delle prime forme di commercio automobilistico. Le vetrine degli shopping centers esterni, più comuni a livello nazionale degli ingressi aperti di Los Angeles per motivi di condizioni atmosferiche e sicurezza, occasionalmente incoraggiano i proprietari di edifici “ taxpayer” sulle fasce stradali alla visibilità per pedoni e chi viaggi sui tram (gli edifici " taxpayer" sono realizzati per produrre il reddito necessario a pagare le tasse immobiliari, in attesa di guadagni più elevati dalla proprietà in un secondo tempo). Guardare le grandi vetrina passando in tramo a piedi diventa la chiave perché i " taxpayers" inizino ad aggregarsi in blocchi, arretrando e offrendo arcate sui fronti e vetrine, organizzati in “isole” realizzate a moltiplicare i preziosi affacci commerciali di tre o quattro volte. Le automobili che per parcheggiare sono orientate direttamente verso le vetrine offrono una drastica innovazione nella proposta delle merci a chi arriva, molto diversa dal parcheggio in senso parallelo. Il commerciante capisce immediatamente dagli arrivi dei clienti che i prodotti di fronte al vetro dell’abitacolo sono più desiderabili [21].

Però, tenendo il passo con la lentezza con cui i negozianti capiscono i potenziali del parcheggio fino ai tardi anni ’30, la maggior parte delle zone commerciali esterne offrono modesti spazi per la sosta. Molte uniscono agli isolati di taxpayer col loro parcheggio sul marciapiede qualche piazzale riservato di fronte all’esercizio che funge da anchor dell’insieme. La zona di Woodlawn a Chicago, South Side, nel 1940 ben rappresenta il problema del parcheggio per i più vecchi isolati di taxpayer; invece della quantità desiderata di 2:1 o 3:1 metri quadrati di parcheggio per ciascuna unità di superficie commerciale, Woodlawn soffre di una quota del solo 0,8 [22]. Alcuni di questi complessi taxpayer con parcheggi bloccati sopravvivono, e se ne realizzano anche di nuovi, grazie alla vicinanza di quartiere o a un negozio tradizionale a fare da anchor. Ma si tratta di un modesto orizzonte di affari.

I parcheggi contribuiscono a definire posizione e aspetto delle zone commerciali esterne, ma molto più spesso sono alcune tipologie di esercizio a guidarne lo sviluppo. Fanno da pionieri i grandi magazzini alimentari e i cinema, forse perché i grossi investimenti alle loro spalle riescono più facilmente a tentare maggiori profitti attraverso esperimenti di ampia portata.

Bastano, qui, i grocery stores a illustrare lo schema iniziale. Le persone prima degli anni ’30 spesso acquistano i generi alimentari in tre negozi diversi, uno per gli articoli da drogheria, uno per le carni e uno per ortofrutticoli. Le merci devono essere pesate e impacchettate dopo una scelta, e c’è un impiegato addetto a questo servizio, a mettere insieme il tutto e a concludere la vendita a ciascun cliente [23]. I commercianti nella loro ricerca di maggiori profitti ristrutturano la propria attività in vari modi. Lo spostamento verso spazi esterni al nucleo centrale congestionato è un elemento critico per trarre vantaggio da un consumatore che sempre più si muove in automobile, e che in quanto tale probabilmente avrà un reddito superiore a molti di quanti vivono nei confini tradizionali. Il caso di Atlanta dimostra quanto è vero anche a livello nazionale: dato che i clienti fanno spesa spesso e regolarmente ai grocery stores, questi negozi non possono sopravvivere alla congestione da traffico che funge da deterrente ai visitatori [24]. Nel 1925, il lungimirante direttore immobiliare dei Safeway Stores di Los Angeles descrive la posizione più auspicabile come vicina a un incrocio affollato, dove esiste un notevole volume di traffico ma al tempo stesso l’affitto è più economico che non in posizione d’angolo, e sullo stesso lato rispetto alla corsia di chi è diretto verso casa. “L’automobile sta diventando sempre più un problema commerciale” e “comodità e spazio nei parcheggi sono necessari, per questa attività”. [25] Gli operatori più aggressivi, di solito le nascenti grandi catene distributive, si interrogavano su come integrare pienamente ed efficacemente la mobilità automobilistica nei propri progetti.

Alcune immagini di una maggior motorizzazione, con diverse proposte di servizi, compaiono all’Automarket di Louisville nel 1927. Nel prototipo, i clienti guidano le loro macchine lungo una corsia con ai lati scaffali rotanti da cui si scelgono i prodotti. In varie proposte di nuovi grocery stores, la comodità comprende due elementi: l’acquisto di tutti i generi alimentari in un solo negozio – punti " one-stop", come vengono chiamati vari esercizi automobile-dipendenti – e il parcheggio: abbondante, con ampi spazi laterali, e vicino al negozio. La MacMarr Stores, con quartier generale a Portland, Oregon, rileva che il 70% della sua clientela arriva in macchina, e così la compagnia realizza dei " drive-in" con parcheggi immediatamente di fianco a ciascun esercizio [26].

Il commercio alimentare più innovativo a partire dagli anni ’20 unisce varie strategie, sia interne che esterne a ciascun punto vendita, come la pubblicità via stampa, ma diventa imperativo soprattutto attirare i clienti dal ciglio stradale. Il parcheggio si evolve per primo, forse perché a quanto pare non richiede grandi costi né immaginazione. Una rassegna a caso di progetti di negozi modello dagli anni ’30 agli anni ’50 comprende in modo uniforme i parcheggi [27]. I primi grocery stores sulla fascia stradale di solito limitano le insegne a cartelli sul margine del tetto o sulla striscia al di sopra delle vetrine. Segnali più grandi, sia su una torre all’angolo sopra o di fianco all’ingresso principale, verranno dopo. Verso gli anni ‘50, i progettisti calcolano in modo più preciso l’effetto desiderato. Un droghiere di Hot Springs, Arkansas, credeva inizialmente che i cartelli attirassero i clienti perché erano nuovi, facendo capire che i messaggi avrebbero dovuto continuamente essere rinnovati, per funzionare meglio. I passanti avrebbero creduto di perdersi qualcosa se non si fermavano, e molti facevano manovra per leggere attentamente la scritta dell’insegna [28].

Il parcheggio si evolve da forma di cortesia a strumento per aumentare le vendite e variabile per prevederle. Alcune particolarità locali nella correlazione fra negozi e parcheggio continuano sin dall’apparire dell’automobile. A Los Angeles si preferisce lo spazio davanti ai negozi, e a Houston quello sul retro. Un architetto di supermarket parla di utilizzare sia fronte che retro, a posti diagonali, a seconda di quante auto il commerciante intende sistemare. Il parcheggio diagonale è riconosciuto come quello a massima capacità. La stretta vicinanza è un dogma cardinale: la massima distanza fra auto e negozio è di 150 metri, preferibilmente 100. Il resto delle corpose elaborazioni sul tema comprende i particolari per gli accessi, le uscite, manutenzione e scarichi. Nel 1964, i supermercati colossali, quelli oltre i 2.000 metri quadrati e non inseriti in uno shopping center, avevano in media spazio per 400 auto; era più di quanto offrisse ai clienti un parcheggio multipiano nei garages delle zone centrali un quarto di secolo prima. Normalmente nei supermercati parcheggiavano 194 automobili [29]. Il parcheggio era diventato l’insegna di sé stesso, e pochi esercizi venivano considerati degni di essere frequentati senza parcheggi, in omaggio alla dipendenza dall’automobile di tanti consumatori.

Se cinema e supermercati attirano e radunano esercizi più piccoli verso particolari nodi delle zone commerciali esterne sulle arterie di traffico automobilistico alla fine degli anni ‘30, emerge un’altra conformazione tipo che usa il parcheggio in modo più spettacolare: la fascia stradale [ strip]. La strip si differenzia in modo notevole dai suoi predecessori orientati all’automobile. Le fasce sono più vaste e maggiormente dedicate in modo esplicito al commercio. I piccoli operatori, senza alcuna pretesa architettonica collocano i propri edifici l’uno di fianco all’altro in serie parallela alla strada, come in un bazaar per automobilisti. I raffinati critici del gusto d’élite se ne ritraggono con sdegno, e conducono campagne di abbellimento per regolamentare l’esistente e migliorare le attività per il futuro [30]. Il primo obiettivo di questi abbellitori non è il parcheggio, che rende gestibile il commercio; sono piuttosto i materiali che si accumulano nei piazzali dei rigattieri [31]. I teorici dell’architettura postmoderna che campionano gli aspetti visivi di questo commercio stradale di cascami alludono brevemente al contributo del parcheggio [32]. Puntualmente, piccoli imprenditori sul ciglio della strada colgono l’opportunità per scavarsi una nicchia con ampi e ovvi parcheggi. La nascente attività della distribuzione di petroli su strada a partire dai ‘10 e quella della ristorazione e alberghiera negli anni ’20 aprono la strada. La catena di motel Rodome per il suo lancio a Sacramento, California, nel 1922, ad esempio, annuncia il progetto di offrire in ogni punto garages deposito a ogni cliente e un “cortile centrale asfaltato”. In ciascun Rodome possono trovare posto 90 auto e 420 clienti [33]. Molti automobilisti possono parcheggiare e portare i bagagli in stanza senza facchini, facendo così diventare il parcheggio self-service accanto al proprio alloggio un tratto distintivo della catena di motel sempre più popolare [34]. Nel 1958, la catena Downtowner si allontana dal self-parking quando il fondatore, socio in due catene di servizi parcheggio a dimensione regionale, si affida ad un servizio esterno, non come elemento ornamentale ma per massimizzare le disponibilità di posti nei caratteristici piccoli lotti urbani dei Downtowner [35].

Le attività di tipo drive-in, alcune limitate a uno sportello di servizio dove gli automobilisti sostano brevemente per qualche transazione, e altre con un parcheggio aggiunto per soste più prolungate, fondano una strategia di vendita totalmente nuova. Le banche sono tra le prime a offrire uno sportello automobilistico di servizio [36]. Negozi di calzature e rilascio di biglietti aerei sono compresi nella pletora delle attività che seguono a ruota, coi loro punti di sosta momentanea o più prolungata, caratterizzando così in modo molto sostanziale la fascia stradale. [37]

Il commercio di veicoli e pezzi di ricambio, in particolare auto e camion, è forse fra tutti quello che più sconcerta l’élite estetizzante. I nuovi spazi espositivi si collocano dapprima in edifici adattati, poi attorno al 1910 alcuni commercianti cominciano a profondere grosse somme di denaro in saloni dove i nuovi modelli dell’anno sono circondati da ornamenti degni di un palazzo. Le auto in mostra sono parcheggiate, ma l’insieme dei molti veicoli invenduti e tenuto ai livelli superiori alla zona espositiva in forma di parti smontate negli imballaggi forniti dal produttore. Riducendo così la necessità di spazi magazzino. Numerose fotografie di autosaloni che mostrano gruppi dei modelli più vendibili in stretta formazione parcheggiati sul ciglio della strada, col muso rivolto verso l’obiettivo, fanno pensare alla possibilità di depositi esterni in terreni adiacenti. Quelli mostrati sono solo fantasiosi allestimenti. Negli anni ‘60, le auto parcheggiate in attesa di clienti nei piazzali vicini rivaleggiano con la vetrina del concessionario nell’attirare l’attenzione visiva. Comunque i venditori di auto usate si concedono spazi espositivi a parcheggio più grandi, e che costino il meno possibile. Solo di rado, in questo paesaggio vernacolare, si evolve qualche tipo di miglioramento [38].

Gli sfasciacarrozze operano in “cimiteri” che occupano il gradino più basso nella scala estetica del ciglio stradale, essendoci pochi motivi, oltre al rispetto delle norme urbanistiche, per organizzare i materiali di recupero in altro modo. Nel 1929, il Connecticut approva uno dei regolamenti più efficaci per i cimiteri delle automobili. Per quell’epoca, dall’altra parte, gli operatori del settore in altri stati sono considerati portatori di “una minaccia dei cimiteri di automobili” tale da deprimere i valori degli immobili vicini, secondo il parere di un costruttore di New York [39]. Carcasse di auto e parti smontate sono variamente impilate l’una sull’altra o sporgenti, su notevoli superfici di fianco alle strade o su piccoli lotti urbani. Variano le dimensioni, ma raramente cambia l’impatto visivo. Nonostante i veicoli nuovi accuratamente allineati nei parcheggi dei concessionari siano molto diversi dai gusci dei cimiteri, in entrambi i casi chi osserva passando per la strada vede prodotti automobilistici posti al di fuori di uffici o saloni proporzionalmente piccoli, in questo settore preminentemente basato sul parcheggio.

Le città continuano a reagire lentamente al potenziale dell’automobile. Arlington, Virginia, è considerata lungimirante per l’adozione di un’ordinanza del giugno 1938 che prevede parcheggi non su strada per tutte le abitazioni, ma cinque mesi più tardi sono già necessarie delle modifiche per evitare che i veicoli facciano retromarcia immettendosi sulla via, impedendo nel frattempo il flusso del traffico. Ulteriori emendamenti del 1941 stabiliscono che gli edifici residenziali non possono occupare più del 35% del lotto in modo che i veicoli riescano a manovrare al suo interno e spostarsi rapidamente nel flusso di traffico anziché interferire con altri veicoli parcheggiati. Infine, nel 1942, le norme sul parcheggio entrano a far parte delle norme urbanistiche per le zone destinate a commercio o attività produttive. Questi adeguamenti incrementali stanno a indicare la generale incapacità di cogliere in pieno il potenziale della mobilità automobilistica. I commercianti del centro hanno anche tra i vari motivi la lunga tradizione, per rimanere ostinatamente attaccati alle proprie abitudini. Ad esempio, i negozianti di Passaic, New Jersey, "centro di acquisti" per una enorme area metropolitana, non si convincono facilmente della necessità di attivare un’autorità cittadina di regolazione dei parcheggi col potere di acquisire spazi e realizzare tre garages ai margini del distretto commerciale. Esempio del mancato adeguamento a quanto sta cambiando, e di un approccio più positivo verso la clientela, un negoziante obbliga i clienti ad andare sul retro dell’esercizio e salire di un piano, per timbrare il tagliando del parcheggio e avere uno sconto sulla tariffa. Il caso di Atlanta, soggetto di uno studio particolareggiato su come la mobilità automobilistica abbia ricreato la struttura fisica di una città, mostra che un centro congestionato spinge i clienti verso le zone esterne. La domanda di parcheggi supera la capacità di molti vecchi settori commerciali esterni. I sostenitori del commercio main-street consigliarono di applicare una “chirurgia radicale” alle pratiche correnti [40]. Altri spostarono altrove le attività. (fine Parte I)

Nota: per lo sviluppo del "metropolitanismo" fra gli anni '20 e '30 e il ruolo dell'automobile, citato anche qui, si veda il saggio in tre parti di R. D. McKenzie, La Comunità Metropolitana (f.b.)

vai alla parte 2

[1]Jo Ann Whelan (Alco Parking, Pittsburgh), intervista telefonica a Keith A. Sculle, 3 febbraio 2000.

[2]Jane Holtz Kay, Asphalt Nation: How the Automobile Took Over America and How We Can Take It Back (Berkeley: University of California Press, 1997), 172-73.

[3]For geography, see John A. Jakle, The Tourist: Travel in Twentieth-Century North America (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985). For literary studies, see Ronald Primeau, Romance of the Road: Literature of the American Highway (Bowling Green, Ohio: Bowling Green State University Press, 1996); Kris Lackey, Road Frames: The American Highway Narrative (Lincoln: University of Nebraska Press, 1997). For histories of the automobile industries and the infrastructure supporting their products, see James J. Flink, The Automobile Age (Cambridge: MIT Press, 1988); John B. Rae, The American Automobile (Chicago: University of Chicago Press, 1965). For the South's response, see Blaine E. Brownell, "A Symbol of Modernity: Attitudes toward the Automobile in Southern Cities in the 1920s," American Quarterly 24 (March 1972): 29, 44. Regarding the cultural significance of the automobile in America's vast space, see Karal Ann Marling, The Colossus of Roads: Myth and Symbol along the American Highway (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1984). For a history of the American highway system, see Tom Lewis, Divided Highways: Building the Interstate Highways, Transforming American Life (New York: Viking, 1997). For the concept of the "king's highway" see M. G. Lay, Ways of the World: A History of the Worlds Roads and the Vehicles That Used Them (Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 1992),64-65, 299.

[4]Warren I. Susman, Culture as History: The Transformation of American Society in the Twentieth Century (New York: Pantheon Books, 1973), 75-85; John Chynoweth Burnham, "The Gasoline Tax and the Automobile Revolution," Mississippi Valley Historical Review 48 (dic. 1961): 445-47; Kenneth T. Jackson, Crabgrass Frontier: The Suburbanization of the United States (New York: Oxford University Press, 1985), 288. Per quanto riguarda la fede originaria nell’automobile come efficace panacea sociale senza alcun bisogno di intervento governativo, vedi James J. Flink, America Adopts the Automobile, 1895-1910 (Cambridge: MIT Press, 1970), 107-12. Per l’accettazione da parte di un importante direttore di un giornale del South Dakota, della necessità di patente di guida e limiti di velocità, vedi Keith A. Sculle, "An Editor Hails the Automobile: Al J. Adams and the Sisseton Courier," Great Plains Heritage 29, no.1 (primavera-estate 1996): 45.

[5]Citato in Joseph Interrante, "The Road to Autopia: The Automobile and the Spatial Transformation of American Culture," in The Automobile and American Culture, a cura di David L. Lewis e Laurence Goldstein (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1980), 91, 100.

[6]Martin Wachs, «Men, Women, and Urban Travel: The Persistence of Separate Spheres," in The Car and the City: The Automobile, The Built Environment, and Daily Urban Life, a cura di Martin Wachs e Margaret Crawford (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1992), 86-100; Paul Barrett, The Automobile and Urban Transit: The Foundation of Public Policy in Chicago, 1900 - 1930 (Philadelphia: Temple University Press, 1983); Clay McShane, Down the Asphalt Path: The Automobile and the American City (New York: Columbia University Press, 1994), 225-26. Il ruolo di avanguardia di Los Angeles nel decentramento si è meritato il classico studio di Scott L. Bottles Los Angeles and the Automobile: The Making of the Modem City (Berkeley: University of California Press, 1987).

[7]"This Is the 'Garden City' Idea," Building Age 51 (ago. 1929): 49.

[8]Frank Lloyd Wright, The Disappearing City (New York: William Farquar Payson, 1932).

[9]Joseph B. Mason, "Two Fronts for Every House," Building Age 52 (sett. 1929): 42-44,106.

[10]Joseph B. Hall, "What Makes the Hot Spot 'Hot'?" Appraisal Journal 7 (ott. 1939): 344.

[11]Richard Longstreth, The Drive-In, the Supermarket, and the Transformation of Commercial Space in Los Angeles, 1914-1941 (Cambridge: MIT Press, 1999),72-73; Harry E. Martin, «Trends in Decentralization of Shopping Centers," Chain Store Age 17 (apr. 1941): 39.

[12]Kent A. Robertson, Pedestrian Malls and Skywalks: Traffic Separation Strategies in American Downtowns (Aldershot, GB: Avebury, 1994), 24, 83; E. Relph, Place and Placelessness (London: Pion, 1976), 132.

[13]John Ihlder, "Coordination of Traffic Facilities: Annals of the American Academy of Political and Social Sciences 138 (sett. 1927): 5-6; Cleland Austin, "New Life for an Old Shopping Area," American City 63, ott. 1948, 106.

[14]Frank R. Hawkins, "Making It Easy for the Automobile Shopper," Chain Store Age 4 (apr. 1928): 17. Per un esempio di uomo d’affari che non solo aveva riconosciuto, ma anche documentato la scoperta del fatto che gli automobilisti preferivano guidare più a lungo per raggiungere parcheggi disponibili anziché percorrere distanze minori e dover andare a caccia di un posto, vedi F. R. Henry, "Changing Buying Habits Set Our Location Policies," Chain Store Age 10 (lug. 1934): 18.

[15]R. E. Wood, "Space for Head-in Parking Relieves Congestion and Facilitates Suburban Street Widening," American City 4° (feb. 1929): 127; Richard Longstreth, City Center to Regional Mall: Architecture, the Automobile, and Retailing in Los Angeles, 1920-1950 (Cambridge: MIT Press, 1997),46-47.

[16]J. C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers:' American City, 42, lug. 1929, 99. La migliore storia delle realizzazioni di J. C. Nichols non spiega la ragioni della sua prescienza riguardo al potenziale commerciale dell’automobile e dei modi per rispondere nel caso del Country Club Plaza; si veda William S. Worley, J. C. Nichols and the Shaping of Kansas City: Innovation in Planned Residential Communities (Columbia: University of Missouri Press, 1990), 80, 254-55.

[17]"All-Chain Shopping Area," Chain Store Age 6 (dic. 1930): 58; "Taking Business out of Traffic," Chain Store Age 15 (dic. 1939): 23.

[18]J: C. Nichols, "Developing Outlying Shopping Centers," American City 41 (lug. 1929): 98-101.

[19]E. E. East, "Los Angeles' Street Traffic Problem," Civil Engineering, ago. 1942,437. Per una descrizione generale, vedi Gerald J. Foster and Howard J. Nelson, Ventura Boulevard: A String-Type Shopping Street (Los Angeles: Real Estate Research Program, Bureau of Business and Economic Research, University of California, Los Angeles, 1958), 7.

[20]L. Deming Tilton, "Roadside Control through Zoning," Civil Engineering 10, no.1 (gen. 1940): 11. Per un esempio di sviluppo di shopping center nella fascia occidentale di Cleveland, vedi "How Searstown Grew," Chain Store Age 24 (sett. 1958): 35.

[21]Longstreth, Drive-In, 46-47; Chester H. Liebs, Main Street to Miracle Mile: American Roadside Architecture (Boston: New York Graphic Society, 1985), 10-13; M. S. C., "Shop Fronts Must Advertise," Building Age 52 (gen. 1930): 40.

[22]"A Program for Community Conservation in Chicago and an Example: The Woodlawn Plan," ([Chicago]: Chicago Plan Commission, 1946),49.

[23]"Looking Backwards: 25 Years of Super Market Progress," Super Market Merchandising 20 (1955): 68-69.

[24]Howard L. Preston, Automobile Age Atlanta: The Making of a Southern Metropolis (Athens: University of Georgia Press, 1979), 131.

[25]H. S. Wright, "Locating Grocery Stores," Chain Store Age 1 (ago. 1925): 54-55.

[26]"Now Comes the 'Automarket,"' Chain Store Age 4 (giu. 1928): 49-53; "MacMarr Develops the 'Drive-In' Store," Chain Store Age 6 (ott. 1930): 59- 60, 62, 72.

[27]Ad esempio, vedi Andrew Williams, "Super Markets to Endure Must Excel in 5 Ways," Chain Store Age 13 (ago. 1937): 18; "All the Most Modern Red and White Food Store in the United States (Today)," Red and White Hy-Lites, ago. 1940, 3; "Include a New Store Front in Your Post-War Plans," Red and White Hy-Lites, gen. 1945, 6; "Tom's Quality Market," Monthly Bulletin, Michigan Society of Architects 23 (22 marzo 1949): 3; Samuel Shore, "How We Planned Our New Providence Unit," Super Market Merchandising 15 (mar. 1950): 43; "Supers Continue Forward March, Part I," Super Market Merchandising 19 (feb. 1954): 41.

[28]"Supers Emulate 'Great White Way,' Super Market Merchandising 19 (lug. 1954): 55.

[29]H. W. Underhill, "What It Costs to Build a Modern Super Market," Super Market Merchandising 19 (sett. 1954): 62-63, 66; "What Do You Think?" Super Market Merchandising 17 (feb. 1952): 124-25; "Shopping Centers - A Neighborhood Necessity," Urban Land: News and Trends in City Development, sett. 1944, 4; "The 1964 Model," Super Market Merchandising 33 (apr. 1965).

[30]Per un eccellente esame dei conflitti di lungo termine fra estetica elitaria e vernacolare riguardo alle fasce stradali, vedi Daniel M. Bluestone, "Roadside Blight and the Reform of Commercial Architecture," in Roadside America: The Automobile in Design and Culture, a cura di Jan Jennings (Ames: Iowa State University Press, 1990),170-84. Per un’attenta comprensione del significato della concorrenza sulle fasce stradali, vedi Richard P. Horwitz, The Strip: An American Place (Lincoln: University of Nebraska Press, 1985).

[31]J. M. Bennett, Roadsides: The Front Yard of the Nation (Boston: Statford, 1936), 165.

[32]Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Learning from Las Vegas: The Forgotten Symbolism of Architectural Form (Cambridge: MIT Press, 1997), 3.

[33]"Tourist Hotel Project Includes Maintenance and Accessory Sales," Buffalo Motorist 15 (ago. 1922): 30-31.

[34]Warren James Belasco, Americans on the Road: From Autocamp to Motel, 1910-1945 (Cambridge: MIT Press, 1979),139.

[35]George Thomason (architetto di Downtowner, 1958-c. 1971), intervista di Keith A. Sculle, Memphis, 22 maggio 2000.

[36]Per esempio, vedi "Bank Caters to Motorists Curb Service for Depositors," Hoosier Motorist 18 (mag. 1930): 15; "'Drive-In' Bank Opens New Field," American Builder 60 (feb. 1938): 52-53.

[37]"Ticket Office for an Airline," American Builder 77 (ago. 1955): 144- 45; "'Drive-In' Retailing Setting New Trend?" Chain Store Age 33 (lug. 1957): 32-33.

[38]"Something New in Selling Used Cars," Accessory and Garage Journal 19 (ago. 1929): 39. La storia del commercio di automobili si è concentrata da qui sia sulla storia delle architetture che più ampiamente sulle pratiche distributive. Per il primo aspetto, vedi Liebs, From Main Street to Miracle Mile, 75-93. Per il secondo, vedi Henry Dominguez, The Ford Agency (Osceola, WI: Motorbooks International, 1981), e Robert Genat, The American Car Dealership (Osceola, WI: MBI,1999).

[39]"Ways of Controlling Automobile 'Graveyards,"' American City 41 (ott. 1929): 171. Vedi anche "What Disposition of 'Junked' Automobiles," American City 43 (lug. 1930): 14.

[40]C. G. Stoneburner, "The Development of Off-Street Parking in Arlington, Va.," Trafiic Engineering 15 (mag. 1945): 309, 311; "Adequate Parking Holds Big Regional Retail Trade," American City 67 (nov. 1952): 155; Harold C. Frantzen, "The Speculative Stop-and-Shop," Appraisal Joumal 17 (gen. 1949): 98; Howard T. Fisher, "Can Main Street Compete? American City 65 (ott. 1950): 101; Preston, Automobile Age Atlanta, 130.

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