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Jonathan Coe
Le folli imprese della Londra olimpica
22 Luglio 2012
Il territorio del commercio
La fiera del capitalismo consumista, raccontata con un tono da fiera paesana che le si addice molto. La Repubblica, 22 luglio 2012

Nel Diciottesimo secolo se aveste voluto entrare a Londra da ovest sareste dovuti passare attraverso la porta con pedaggio di Kensington. Arrivando da est, invece, vi sarebbe stato chiesto di pagare il pedaggio a Whitechapel. Erano quelle barriere a segnare i confini occidentali e orientali della metropoli. Oggi ne abbiamo un equivalente moderno. A ovest e a est i confini della Londra consumistica sono contrassegnati da due enormi centri commerciali, di proprietà di una società australiana che si chiama Westfield. Il primo — quello leggermente più piccolo tra i due — si trova a Shepherd’s Bush, incuneato all’incrocio tra West Cross Road e Uxbridge Road. Il secondo è tra la Great Eastern Road, a Stratford, e il nuovo Parco olimpico londinese.A rigor di termini, non è più obbligatorio versare un pedaggio fisso passando in macchina all’ombra di queste due moderne barriere a pagamento. Tuttavia, qualora la curiosità dovesse obbligarvi a fare una sosta e a dare un’occhiata all’interno, è improbabile che ne uscireste senza aver speso almeno qualcosa. Questi due grandiosi monumenti al consumismo suonano per certi versi come una sorta di altrettanti rintocchi funebri per i tradizionali quartieri londinesi dello shopping: indubbiamente, andarsene a passeggio tra la folla di acquirenti ipnotizzati, sulla scintillante superficie dei vasti ambienti a forma di cattedrale di Westfield, è un’esperienza di gran lunga più gradevole che trascinarsi faticosamente su e giù lungo i marciapiedi sempre più malmessi e trascurati di Oxford Street.

Westfield Stratford City — come ormai viene chiamato il più recente dei due shopping centre — è soltanto il più appariscente delle varie strutture architettoniche che hanno portato la nuova Londra olimpica al centro di un’accalorata polemica. La questione più dibattuta è lo status assunto da Westfield di “accesso” allo Stadio Olimpico: in pratica, il settanta per cento degli spettatori che si recheranno ad assistere a un evento olimpico si avvicineranno al Parco percorrendo tragitti pedonali che passano letteralmente attraverso il centro commerciale stesso. In altre parole, sarà impossibileassistere a un evento olimpico senza ritrovarsi sottoposti a enormi pressioni per sborsare, lungo il tragitto, parte dei propri contanti. Da questo punto di vista, quindi, il centro di Stratford Westfield è in senso proprio una barriera con pedaggio. L’ideale olimpico di spirito sportivo e fraternità tra le nazioni è stato messo in linea di collisione diretta brutale — e intenzionale — con la nuova etica consumistica.

La parola più in voga che si sente pronunciare tutto intorno ai nuovi edifici olimpici è “Legacy”, eredità. Esiste perfino un’organizzazione denominata Olympic Park Legacy Company. “Legacy”in questo contesto è una di quelle parole altisonanti e flessibili alle quali nessuno può attribuire un significato inequivocabile. Volendo darne in ogni caso l’interpretazione più benevola, “legacy” esprime la determinazione da parte dei progettisti olimpici a far sì che le nuove grandi e costose strutture realizzate negli ultimi anni costituiscano un beneficio duraturo per questa parte dell’East End, storicamente svantaggiata e trascurata. Saranno molte le persone che vigileranno da vicino che questa promessa non vada infranta. Dopo tutto, quando un paese si trova sull’orlo della recessione e il suo primo ministro, laureatosi a Eton, dice alla popolazione che «ci troviamo tutti sulla stessa barca», è un momento davvero insolito perspendere 9,3 miliardi di sterline per un evento sportivo della durata di due settimane. (E che per altro pare diventare sempre più costoso col passare dei giorni: è stato annunciato da poco che il budget per garantire la sicurezza ai Giochi olimpici è stato quasi raddoppiato, passando da 282 milioni di sterline a 533).

Un gran numero di residenti è piuttosto scettico riguardo ai promessi miglioramenti a lungo termine. Le comunità britanniche urbane — delle quali quella londinese è naturalmente la più grande e la più in vista — un tempo si fondavano su qualcosa di solido: l’industria manifatturiera, per esempio. Westfield Stratford City è stata costruita proprio dove un tempo c’era la Stratford Railway Works, dallaquale uscirono 1.682 locomotive e 5.500 carrozze ferroviarie. Quella fabbrica chiuse i battenti oltre venti anni or sono, e gli industriali contemporanei invece di costruire treni provvedono soltanto a soddisfare l’enormeappetitocheilpubblicohaperibeni di consumo venduti al dettaglio.Gli insoddisfatti residenti dell’East End hanno trovato un portavoce nello scrittore Iain Sinclair, che ha trascorso buona parte degli ultimi cinque anni a documentare la propria costernazione nei confronti dei lavori olimpici e per le modalità con le quali i cantieri hanno cancellato con insolenza secoli di storia locale e di edilizia popolare. Sinclair ha dedicato il suo ultimo libro, intitolato Ghost Milk, alle «baracchette dei Manor Garden Allotment», con riferimento a quel patchwork di orti e giardini urbani che un tempo assicuravano nutrimento e svago a centinaia di abitanti dell’East End e che ora sono stati spianati e spazzati via, scivolando nell’oblio, per lasciare posto al Parco Olimpico. Sinclair considera il cuore di quel Parco una mostruosità uscita dritta dritta dalle pagine di un catalogo Ikea — lo chiama il «flatpack stadium», lo stadio componibile. Secondo Sinclair, l’intero progetto olimpico è un atto di arroganza distruttiva: dice che gli architetti, gli organizzatori e gli sponsor vivono in uno «stato psicotico di smania progettuale», e che il motore trainante di tutto ciò, naturalmente, non è lo spirito comunitario o il senso della storia, bensì il denaro.

Vivo ai margini di Chelsea, lontano dal Parco Olimpico, e quindi a fungere da barriera a pedaggio per la mia zona è il più occidentale dei due centri commerciali. Quella è anche la meta preferita di mia figlia adolescente, che vi trascorre ore spensierate in compagnia dei suoi amici, permettendo alle prime simpatie della sua vita di sbocciare e mettere radici mentre passeggia tra i negozi al dettaglio e i vari fast food. La zona nella quale vivo — a circa due miglia da Westfield — è una delle meno multiculturali di Londra, ma ha una prospera comunità di banchieri di investimento europei ed è quindi un buon punto di osservazione per seguire come gli incessanti afflussi e reflussi di capitali internazionali abbiano un impatto sulla vita quotidiana della capitale. Tra i super-ricchi di Kensington e Chelsea (che sembrano arricchirsi di giorno in giorno, mentre il resto di noi si dibatte con le conseguenze della loro crisi finanziaria) sta dilagando una nuova mania: scavare nel sottosuolo. Londra è una città gremita di persone, lo spazio vitale è prezioso e le amministrazioni comunali stanno dando un giro di vite ai permessi concessi ai residenti per espandere le proprie case verso l’alto o verso il largo. Il che lascia un’unica direzione per espandersi e costruire: verso il basso. E questo è quanto stanno facendo coloro che se lo possono permettere.

Questa è una «smania progettuale» su scala più casalinga rispetto alla follia delle Olimpiadi, ma ciò nonostante mette in evidenza le medesime qualità di arroganza ed eccesso. Abbondano le voci di leggendarie stravaganze: non è chiaro quante di esse siano veritiere, ma per le mogli dei banchieri nelle caffetterie eleganti, come pure a tavola nei ristoranti all’ora di pranzo, costituiscono un ottimo argomento per spettegolare. Si parla, per esempio, di un banchiere londinese che ha scavato un enorme showroom sotterraneo per mettere in mostra la sua collezione di Ferrari. O di uno scavo sotto Pembridge Square a Notting Hill profondo non uno, non due, non tre, ma ben quattro piani, così che qualcuno nella propria piscina sotterranea possa installare anche un trampolino. E ancora, si racconta di sotterranei crollati in piena fase di scavo, e della morte di operai (polacchi, naturalmente). E tutto ciò solo perché gli ultra-ricchi possano imporre alla Londra affollata e sovrappopolata un nuovo movimento architettonico, quello che il giornalista Simon Jenkins ha chiamato «architettura Emmental».

Londra ha una grande capacità di reinventarsi, e una passione sfrenata e incontenibile per tutto ciò che è nuovo. Ma è anche uno spazio circoscritto, ed esistono limiti alle modalità con le quali si può indulgere in tale passione, persino per i suoi cittadini più ricchi e più potenti. In superficie progetti grandiosi come il Parco Olimpico e templi del capitalismo come i centri commerciali Westfied possono essere creati soltanto a spese di comunità più piccole e spontanee che hanno impiegato secoli a evolversi. Mentre nel sottosuolo i segreti luoghi di svago dei super-ricchi stanno erodendo il terreno e l’argilla sui quali sono erette le abitazioni dei loro vicini. In entrambi i casi questi progetti — per quanto capaci di colpire l’immaginazione — assai difficilmente porteranno vantaggi a lungo termine alla maggior parte dei londinesi. Al contrario, molti di questi ultimi potrebbero arrivare a sostenere che stanno minando le fondamenta stesse, spirituali efisiche, sulle quali si regge la loro città.

© , 2012 (traduzione Anna Bissanti)

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