Spariti in un anno 800 negozi "Niente ripresa, autunno nero"
di Laura Fugnoli
Chiusi, e non solo per ferie. In un anno sono morti 824 negozi. Un’emorragia che non conosce fine, nei primi sei mesi del 2010 il saldo tra chi apre e chi chiude è rimasto negativo, con 122 imprese in meno. E oggi il mondo del commercio travolto dalla crisi rilancia un nuovo allarme per il rientro dopo le ferie: l’autunno, è la certezza, sarà duro. Altri rischiano di rimanere soffocati dall’estate afosa e per niente generosa. Troppi rischiano di non sopravvivere al secondo anno di recessione. La ripresa non si è vista, e anche «i saldi sono stati un fallimento - ammette Renato Borghi, presidente Ascomoda - i ricavi hanno avuto un incremento di un misero 3% rispetto all’anno scorso e la delusione è diffusa».
Secondo i dati della Camera di commercio, tra giugno 2009 e giugno 2010 tra quegli 800 negozi scomparsi hanno chiuso 44 macellerie (-5,9%) e 26 panettieri (-3,7%), oltre una cinquantina i negozi con articoli per la casa. Non va meglio ai ferramenta (-3,8%), ai cartolai calati del 4,5%. Nella città della moda sono 90 i negozi di abbigliamento che hanno abbandonato l’avventura 8 - 2,6%). Si inizia con la superofferta, poi la svendita totale e si approda mestamente alla chiusura definitiva. In lieve controtendenza le attività di vendita di elettronica e telefonia, le sole ad avere un saldo positivo insieme alle gelaterie, esplose nel 2010 con ben 17 punti vendita in più.
Ma adesso spaventa l’autunno. Settembre sarà un grande banco di prova. «La riapertura dopo le ferie è un momento estremamente delicato. Con l’autunno i nodi vengono al pettine», dice Simonpaolo Buongiardino, amministratore dell’Unione del commercio. Poca fortuna sembrano avere anche i temporary shop. «Sono stati pompati come segno di dinamismo e vivacità, ma ora trovano pochi occupanti», spiega Buongiardino. Cartina di tornasole sono le scarse ristrutturazioni estive: «Questo è il tipico momento in cui chi ha un negozio in genere rinnova i locali e chiama imprese e muratori - dice Giorgio Montingelli dell’Unione Commercianti - ma ora di restyling non se ne vedono. Segno che i negozianti non vogliono, e non possono, investire». Sopravvivere è già un miracolo, dunque.
Eppure c’è chi azzarda nuove aperture, in particolare nel commercio ambulante che richiede meno impegno finanziario. Pur calate del 5,8% dallo scorso anno, le attività nei mercati hanno visto una discreta crescita negli ultimissimi mesi: dietro ai banchi di frutta e verdura, di abbigliamento e di casalinghi, però, sono quasi spariti gli italiani. «Su 5mila soci almeno il 30% ora è straniero - spiega Giacomo Errico, presidente dell’Apeca, associazione di categoria degli ambulanti - ma non mancano casi di macellai milanesi che mollano il negozio e si convertono a centri di vendita itineranti». Niente spese di affitto, basta un furgone anche usato, 3.500 euro circa l’anno per l’occupazione del suolo se si vuol lavorare cinque giorni a settimana. Tra i negozianti costretti a chiudere, c’è chi si ricicla così.
Il ceto medio è sempre meno medio, dicono i commercianti. E anche questo incide. «In viale Piave abbiamo cambiato il negozio a marchio Borghi in Outlet, con merce più a buon mercato per un target più modesto», afferma Renato Borghi. Per altri la sopravvivenza scatta con l’accorpamento o l’acquisizione. «Ci sono vie che sembra abbiano perso appeal, come Paolo Sarpi - dice Luigi Ferrario, coordinatore dell’associazione Vie dello shopping - e non sono solo gli italiani a chiudere la serranda, ma anche gli stessi commercianti cinesi. In corso XXII marzo, invece, il turnover di negozi è vorticoso, ma aprire e chiudere continuamente non è sempre un buon sintomo. La poca resistenza è spesso conseguenza delle difficoltà di accesso al credito. Le banche vogliono garanzie e in tempi bui le garanzie sono merce rara, quasi introvabile».
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Ilaria Parentini, lei è la terza generazione della famiglia che gestisce la "Vetreria di Empoli", in via Pietro Verri 4. Quando abbasserete definitivamente le serrande del vostro negozio?
«Questo chiuderà sabato 28 e resteremo aperti soltanto in via Montenapoleone al 22, dove abbiamo un altro spazio».
Perché chiudete?
«È stata una scelta dolorosa ma obbligata, la richiesta d’affitto per un negozio così in centro a Milano è diventata troppo alta. E poi c’è la concorrenza della grande distribuzione. Sono stata da Ikea il 13 di agosto e c’era pieno di gente: è ovvio che centri così grandi finiscono per sottrarci buona parte del mercato. E poi è anche cambiata la mentalità della clientela in questi ultimi tempi...».
In che senso?
«Adesso c’è la crisi economica e molta gente si rivolge ai centri commerciali. Uno va, si compra bicchieri e posate e viene via».
Da quanto tempo siete aperti?
«Noi siamo iscritti all’albo delle botteghe storiche e siamo in via Verri dal 1938, quando mio nonno, dopo un breve periodo in via Bigli, ha aperto il negozio. Qui la nostra azienda si è evoluta e ha modificato il suo percorso: abbiamo iniziato con i vetri a mano colorati, poi l’azienda si è ampliata e abbiamo cominciato a rivendere prodotti ai negozianti, sia in Italia che all’estero».
E adesso?
«Adesso siamo dispiaciuti di dover chiudere in via Verri, pensi che moltissimi nostri clienti ci hanno chiamato per dirci che sono disperati e che non sapranno come fare senza di noi. Non sappiamo ancora chi subentrerà, ma secondo me sarà un negozio di abbigliamento. Si vede solo moda in giro».
Però avete il negozio in via Montenapoleone.
«Esatto, e da qui in avanti concentreremo i nostri sforzi là. Abbiamo una prima sala con tutti bicchieri, un po’ particolari e decorati. Poi nel secondo salone c’è un reparto di cose antiche, per gli specialisti ma anche per chi vuole qualcosa di bello e un po’ diverso. È una specie di "mercatino", noi acquistiamo dai privati e rivendiamo. E si può trovare davvero di tutto, mi creda».
Nel futuro che cosa vede?
«Vorremmo aprire un reparto dedicato al Natale, da novembre, occupandoci un po’ del settore addobbi. E poi vorrei continuare con il servizio di riparazione. Vecchi vasi, oggetti di vetro, cristalli rotti che le persone ci portavano a far aggiustare: abbiamo il nostro artigiano, era un servizio che davamo qua in via Verri e mi piacerebbe che continuasse anche in via Montenapoleone».
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Markus Mutschlechner, lei è uno dei soci di Delicatessen che ha due negozi che vendono specialità altoatesine. Da settembre rilanciate con un terzo punto vendita, in corso Buenos Aires, e un ristorante in via Casati.
Che cosa vi ha spinto, in un momento in cui molti commercianti sono costretti a chiudere?
«La crescente richiesta dei clienti. Abbiamo cominciato a vendere specialità altoatesine nel 2005, aprendo un negozietto in piazza Santa Maria Beltrade, dietro via Torino. Da allora le vendite sono aumentate di anno in anno, consentendoci di aprire una seconda bottega. E perfino in un anno di crisi come questo, ci siamo ritrovati con i negozi pieni. Così, abbiamo deciso di scommettere ancora una volta».
Qual è il segreto per non risentire degli effetti della crisi?
«Offriamo un servizio che gli altri negozi non danno. Siamo aperti sette giorni su sette, dalle otto del mattino alle otto di sera. Sabati e domeniche comprese. Anche d’estate, non abbiamo praticamente mai chiuso la saracinesca. Nemmeno a Ferragosto. Queste cose la gente le apprezza. Diventi un servizio sul quale si può contare sempre. In un momento così difficile bisogna offrire sempre di più: noi ci sforziamo di farlo in tutto».
Cioè?
«Le specialità altoatesine che vendiamo sono di prima qualità: chiediamo ai nostri fornitori brezel, sacher, canederli freschissimi. Questo ha un costo, certo. Ma alla fine si è ripagati e la gente viene da noi quando vuole un piatto particolare, magari assaggiato in vacanza. E poi ci siamo organizzati per fare un servizio catering, abbiamo pensato che potesse essere carino organizzare cene altoatesine dall’antipasto al dolce. E la cosa è stata apprezzata così tanto che a breve apriremo anche un ristorante. Bisogna sapersi inventare, insomma».
Tre negozi, tre affitti, però.
«Sì, vero. E sono salatissimi, visto che le nostre sedi sono tutte in zone centrali. L’affitto del negozio che apriremo in corso Buenos Aires, poi, è una legnata pazzesca. Però se a Milano non stai in una via strategica non vendi, non c’è niente da fare. Sono tanti i negozianti delle vie secondarie o periferiche che si ritrovano a dover chiudere. Con l’apertura della terza sede, però, avremo più gioco sui fornitori, aumentando gli ordini puoi strappare molto più sconto. Ma soprattutto, contiamo di essere ripagati dalla clientela stessa, come è avvenuto con l’apertura della seconda sede: quando la gente si fida, il passaparola arriva anche dall’altro lato della città».
postilla
pare quasi superfluo sottolineare come e quanto, nei medesimi giorni in cui si levano questi lamenti sul disastro del commercio di un certo tipo nell’area centrale, l’amministrazione prosegua imperterrita nella chiusura coatta di esercizi per imprecisati motivi di “ordine pubblico”. Confermando se non altro il sospetto di un preciso orientamento delle sue politiche urbane: eutanasia di ogni parvenza di articolazione e complessità sociale, e preparazione di una specie di caricatura locale delle città globali. Almeno nell’interpretazione regressiva e piuttosto squallida che ne danno gli amministratori attuali: da un lato la borghesia più o meno blindata fra boschi verticali, quadrilateri d’oro, boutiques del salamino o del sandalo di tendenza; dall’altro poche sacche di underclass o ceti comunque emarginati, a garantire lavori sporchi (dalla pulizia dei bagni della discoteche alla fornitura della polverina magica che si consuma là dentro), confinati in una sorta di post-baraccopoli precaria, priva di servizi considerati inutili per questa non-umanità senza diritti. La coerenza fra politiche urbanistiche e gestione urbana corrente, credo di averla più o meno delineata anche nell’ultimo contributo sul tema. Si tratta di stupidità, o di un lucido piano reazionario, consapevolmente perseguito? Come sempre succede in questi casi, probabilmente un po’ di entrambe le cose (f.b.)