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Fabrizio Bottini
Urbanistica dei Fasci e delle Corporazioni
1 Settembre 2010
Milano
Si comincia a scorgere la nuova geografia della capitale morale d'Italia: pezzi sognati dell'"infrastruttura globale" e sacche di tacita resistenza, con retrogusto nero. Scritto per eddyburg

Milano - Tanto di cappello: quando una strategia c’è va riconosciuta, e a modo suo ammirata pure. Soprattutto se dall’altra parte non si intravede nulla, salvo innumerevoli e maldestri tentativi di imitazione, o critiche sacrosante che però, ahinoi, non si presentano (o forse non hanno davvero) col medesimo respiro millenario. La strategia, il “piano”, è quello della destra ciellino-fascista che imperversa ormai da lustri nella capitale padana, via via plasmata a sua immagine e somiglianza, almeno nel senso comune di chi ragiona o dovrebbe ragionare, salvo stridere con tutto ciò che non controlla, e trovare lì una specie di “antitesi”, di opposizione, che però ovviamente non potrà mai di per sé trasformarsi in proposta alternativa.

Avevano perfettamente ragione coloro che, intervenendo in varie fasi nella discussione sul Piano di Governo del Territorio dicevano quanto fosse sostanzialmente inutile andarne a contestare questo o quell’aspetto, se non si ricomponeva l’insieme delle critiche entro una idea di città completamente diversa, e non fatta di rattoppi a quella degli altri. Perché anche le scelte urbanistiche più “generali” e le strategie di massima a loro volta si inseriscono in un quadro più ampio, non necessariamente di ordine esclusivamente territoriale. Solo per toccarne un aspetto, di questa coerente complessità, proviamo a dare un’occhiata alle ultime politiche di “tolleranza zero”. Cosa c’entrano? C’entrano, c’entrano parecchio.

Prima c’è stata la stagione dei grandi piani di iniziativa privata, a loro volta discendenti dei più antichi documenti direttori sull’innovazione infrastrutturale e il riuso delle superfici dismesse. Non ha un particolare interesse, qui, andare a vedere se, come, e quanto quelle operazioni abbiano solo mosso capitali e aspettative, e siano naufragate fra le erbacce, la nuova fauna urbana di nutrie e leprotti, o peggio nel tragicomico delle archistar letteralmente sedute su un mucchio di veleni che tentano di nascondere con le loro tavole colorate. La cosa forse più interessante è capire che parallelamente a quei progetti si è impennato complessivamente il mercato immobiliare, con processi progressivi di espulsione dal nucleo centrale metropolitano, e di sprawl a cerchi concentrici sempre più ampi. Lasciando al loro destino i poveri neovillettari coatti, va osservato come la forma di resistenza più vistosa all’espulsione sia quella di chi si adatta – anche in mancanza di alternative – a quel che offre il convento.

Inquilini delle case popolari, finché glie le lasciano, e soprattutto neoimmigrati: non solo i disperati nascosti sotto qualche cavalcavia o fra i residui capannoni in disuso, ma la fascia intermedia più dinamica che prova a sopravvivere. Sono questi la vera opposizione al regime. In stragrande maggioranza del tutto legali e integrati, per ovvi e comprensibili motivi di relazione familiare, culturale, etnica, si ritrovano in strettissimo rapporto quotidiano, personale, a volte anche economico, con qualche sacca di illegalità. Producono anche parecchio disordine, soprattutto se per “disordine” si intende qualcosa che non si capisce, non si vuole capire, non si ha interesse a capire. Che rapporto potranno mai avere questi brandelli di città sconosciuti (sconosciuti ai rappresentanti eletti dal popolo), sia con la confusa immagine da cartolina del quartiere del tempo che fu, sia con quella altrettanto confusa di una fantascientifica popolazione di ricchi, su e giù dall’aeroporto agli attici da tre milioni euro, a produrre fantastiliardi di reddito.

Entrambe queste versioni della città futura virtuale ispirano le convergenti politiche della Falange: da un lato l’apparentemente demenziale “densificazione” a due milioni di abitanti da stipare chissà dove e chissà come; dall’altro le insinuate speranze di ritorno al bel tempo che fu, quando c’era il rispetto, la dignità, e la gente stava al suo posto … La Falange da par suo si presenta anche sul versante fisico proprio come una tenaglia, coi nuovi grandi quartieri (veri o ancora solo appiccicati sul sito web del Comune) della corona esterna pronti ad accogliere il popolo terziario avanzato, quelli intermedi in attesa del messia liberatore dal giogo dell’immigrazione, e il piccolo nucleo centrale a fungere da laboratorio-pensatoio. Basta guardare una mappa della città per vedere questo schema riprodursi ineffabile ogni qual volta l’eroe libertador di turno (a dire il vero pare sempre lo stesso, ma non mancano i comprimari occasionali di settore) lancia i suoi strali contro gli effetti nefasti della globalizzazione.

Sull’asse urbano della Padana Superiore, l’operazione coprifuoco in via Padova è scattata come un orologio appena qualcuno ha innescato la scintilla: troppa vita in quel quartiere, staccare la spina, chiudere tutto, emergenza! E qualche centinaio di metri più in periferia, i rendering degli architetti stanno puntualmente trasformando l’ex area Marelli ai confini con Sesto San Giovanni nel futuro Quartiere Adriano. Nella zona più centrale della cosiddetta Chinatown di via Sarpi, la fede nell’ineluttabile ritorno a un fumoso ambiente Vecchia Milano mai esistito si è addirittura andata a scontrare col sacro libero mercato, l’impresa, sfiorando l’incidente diplomatico internazionale con l’intervento del Console cinese. Ma se si tira una riga a scavalcare la porta nei Bastioni progettata a fine ‘800 da Cesare Beruto, ci si infila quasi subito fra le torri della zona Garibaldi, i localini post-bifolchi dove si sniffa ma non si deve dire, i boschi verticali dove si fa il mutuo solo per visitare l’appartamento.

La ricetta del panino immaginario a tre strati si è ripetuta in questa estate climaticamente anomala del 2010 anche nell’ultimo caso, quello del quartiere Lodi-Corvetto, sull’asse urbano della via Emilia. Anche qui gli eroi della liberazione dal giogo degli oppressori immigrati, verso il luminoso ritorno della Vecchia Cara Milano col cervelè all’angolo, inquadrano la direzione esatta, nel caso specifico quella di Rogoredo, su cui si affacciano le propaggini estreme dell’abortito (ma questo è un dettaglio) Santa Giulia, by appointment of his majesty Sir Norman Foster, ciumbia!

E la forza del destino che tutto travolge ha individuato da par suo il nuovo nemico: Bersani. Non il segretario del ciondolante Pd, ma il ministro che a suo tempo nel più perfetto stile italiano ha liberalizzato il commercio mettendo fine alla pianificazione di stile sovietico chissà perché approvata dai democristiani, aprendo le porte al degrado urbano. Insomma l’immigrato non si merita il libero mercato: torniamo al bel tempo che fu anche con la corporazione dei bottegai che per diritto di sangue controllano il quartiere.

Solo in questa cornice, del dispiegarsi coerente di una Urbanistica dei Fasci e delle Corporazioni, è possibile apprezzare appieno oltre vent’anni di piccoli e grandi passi sulla strada verso il futuro. Gli ultimi particolari nell’articolo riportato di seguito. Grazie per l’attenzione.

Oriana Liso, Stop a kebab e Internet point il commercio cambia regole, la Repubblica ed. Milano, 17 agosto 2010

Un piano del commercio per fissare regole severe, che impediscano il proliferare di negozi etnici, di Internet point, ma anche di bar e locali della movida. È questo il progetto di Comune e Regione, che stanno lavorando per mettere a punto un regolamento che non contrasti con le leggi nazionali, come quella (la cosiddetta Bersani) che ha liberalizzato le licenze. «Finché abbiamo questa legge non possiamo intervenire, abbiamo le mani legate», è la posizione del sindaco Moratti, che ha firmato l´estensione dell´ordinanza antidegrado - che entrerà in vigore domani - a un nuovo tratto di corso Lodi e vie limitrofe, «come chiesto dai residenti», secondo la versione di Palazzo Marino. Ed è proprio il sindaco ad annunciare: «Stiamo lavorando con la Regione per vedere se si può, con una legge regionale, mettere a punto delle misure per i negozi di vicinato e le botteghe storiche, però non possiamo andare contro una legge nazionale. Per controllare esercizi come phone center, Internet point, kebaberie usiamo anche le ordinanze».

Già il mese scorso ci sono stati i primi incontri tra l´assessore comunale Giovanni Terzi e il suo omologo regionale Stefano Maullu per stabilire un piano d´azione. Perché il problema è proprio quello di non entrare in rotta di collisione con la legge nazionale, scrivendo regolamenti che potrebbero poi facilmente essere annullati dai giudici amministrativi. Per questo, spiega Maullu, «pensiamo a una griglia operativa che dia ad ogni Comune gli strumenti per creare dei distretti commerciali armonici, dove non ci sia una concentrazione eccessiva dello stesso tipo di attività, anche grazie a criteri più rigidi per concedere le licenze». Tra i criteri, per esempio, ci potranno essere regole igieniche stringenti, o una trasparenza maggiore su proprietari e finanziatori di ogni attività, oppure, ancora, un controllo puntuale su diplomi e attestati che dimostrino la competenza di chi apre un´attività in quel settore specifico (ad esempio, i centri massaggio, i saloni di estetica, i parrucchieri).

A questo, aggiunge l´assessore Terzi, si potranno sommare anche regole sugli orari (che scoraggino l´avvio di nuove attività nelle zone già dense di locali) e che fissano distanze minime tra le vetrine. «Un criterio di distribuzione che non vale solo per i negozi etnici, ma anche per i locali della movida e per le gelaterie, vogliamo rendere armonici i quartieri, evitando superconcentrazioni di alcune categorie merceologiche a spese di altre», spiega Terzi.

L´idea di mettere le briglie alla legge Bersani non dispiace agli stessi commercianti. Tanto che Simonpaolo Buongiardino, consigliere delegato dell´Unione del commercio, attacca: «La deregulation di questa legge ha tolto la possibilità ai Comuni di fare dei piani commerciali, e quindi di porre dei limiti ad alcune attività: ma non si può pensare a periferie trasformate in suk di negozi etnici, o a zone anche centrali dove tutte le vetrine sono di abbigliamento e non si trova un supermercato». L´occhio di Regione e Comune resta puntato sulle insegne straniere, visto che - come raccontano i dati della Camera di commercio - in città sono oltre mille le imprese con titolare nato fuori dall´Italia, ovvero il 33 per cento delle ditte del settore (la media in provincia è del 26, in Italia del 9). A portare la bandiera delle attività sono i cinesi: rappresentano oltre il 55 per cento dei servizi di ristorazione stranieri.

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