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Carlo Doglio
Metropoli come Mercato. Territorio come Merce (1966)
1 Aprile 2005
Il territorio del commercio
Una lucidissima anticipazione dell'imminente territorio post-moderno, in cui la metropoli diventa "motore immobile distributivo". Con lo straordinario linguaggio di Doglio, estratto da Dal Paesaggio al territorio: esercizi di pianificazione territoriale, Il Mulino 1968 (f.b.)

Sia, il tema: da un punto di vista formale, in che rapporto si può mettere con le attività di carattere “terziario” il concetto della metropoli come mercato e del territorio come merce?

Nel senso, si badi, che le attività di carattere terziario “possano” (così, tramite la forma) diventare un patrimonio culturale e non siano più intese a livello bruto e schematico, come quantità di servizio non-produttive - che è poi la definizione classica della economia, o anche della geografia - bensì invenendo, codeste attività, un carattere di contenuto culturale che riesca, in certo modo, a bilanciare il mondo della produzione industriale.

Si potrebbe, da ciò, passare a trovar un posto, o per lo meno a ipotizzare un eventuale posto, per gli architetti: non tanto come urbanisti, ma proprio in quanto architetti -cioè come persone le quali, alla fin dei conti, si occupano di forma, urbana o no che sia.

E lo svolgimento (affannoso e anfanante: ma con un suo rigore) concluderà:

io sono persuaso che se noi guardiamo dentro di noi, dentro le cose, mettiamo in crisi il “gigantismo”: mettiamo in crisi il cosiddetto progresso tecnologico. E mi spiace, che troppo spesso le giustificazioni più appariscenti (formalistiche, non formali) di un certo tipo di società sian venute proprio dallo ambiente degli architetti (e degli ingegneri) - da coloro, cioè, che in sede altra che la propria ne son poi, di quella società, gli avversari risoluti.

Non credo che abbia senso idoleggiare Broadacre City, la visione wrightiana di una totale separazione sociale, la città fatta di tanti cubicoli pressocché singoli e incomunicabili; ma nemmeno credo giusta la soluzione di Le Corbusier dove si spende tanta intelligenza “normativa”, e intellettualistica, per fare ingoiar alla gente l’amaro boccone dell’accettazione del “presente”.

Nell’ambito del discorso che avviammo, di pertinenza architettonico-formale, io credo che si possa dire: dal supermercato alla alienazione... E come, l’architetto, può risolvere il problema? credo che la strada vera sia quella dell’esame del territorio come mezzo d’esorcizzazione della città quale essa è diventata. Che il ritorno alla città medioevale ne si può farlo né ha senso ipotizzarlo, ma nel territorio può aver luogo una immensa opera di scoperta del nuovo che si dispieghi (e penetri) quale contatto con la natura umanizzata, simile ai pochi momenti felici (gleba o non) della società medioevale. E chi può svolgere il discorso dal territorio se non gli urbanisti e gli architetti?

Nel momento in cui si cerca un metodo per la ricerca, si cerca anche il contenuto.

Gli architetti tendono, per loro propria malintesa passione, al gigantismo: dovrebbe invece verificarsi un ritorno al “minore”, al piccolo - correlato, formalmente, con tutti gli altri “minori”.

Evvia, tante piccole attività terziarie legate (correlate) a tante piccole attività primarie.

I “GRADI” DELL ‘ APPROCCIO

I “gradi” dell’approccio si svolgono comunque per i punti che qui di seguito offriamo.

1) La città che produce, la metropoli che distribuisce

Per quel che so ci sono studi, nemmeno recentissimi, d’economisti moderni che tendono a reinserire nella città il momento della produzione. A de-terziarizzarla, cioè, preoccupati che in essa si contengano, oggidì, solamente elementi distributivi. Ed è forse indice della arretratezza I di una certa cultura urbanistica il fatto che gli urbanisti, e meglio dirci gli architetti-urbanisti, ancora si balocchino con le zonizzazioni e la cacciata dell’industria dal terreno urbano - eredità evidente dell’approccio igienistico, pressocché eugenetico, che essi mutuarono da filantropi e medici sociali e da cui non riescono ancora a liberarsi: o non sarà che la “città terziaria” meglio si adatta alle elucubrazioni formali dove decade la creatività architettonica?

È questa una prima avvisaglia dei pericoli insiti nello attribuire troppa importanza a elaborazioni d’altre discipline; oppure il segno di una consonanza di comodo tra reperti tecnologici e faciloneria formalistica?

Di certo la città, un tempo, si ornava d’orti e di terreni aperti che la nutrivano “dal di dentro”; ma ben presto cacciò nell’intorno, nella campagna, il momento produttivo dell’agricoltura (o ritagliò in quel momento la sua pausa urbana). È piuttosto la produzione industriale quella che si identifica con la città: tanto di crescita d’abitanti per l’inurbamento dei contadini che si fanno operai, quanto per la pressante presenza degli edifici industriali veri e propri.

Con gli anni, con le decadi, più la città cresce a metropoli e più allontana da se anche il momento della produzione industriale: diventa il monumento della distribuzione, la risonante campana del terziario.

Nella metropoli non sono rimasti che magazzeni, uffici, amministrazioni private e pubbliche, negozi e residenze sempre più dilapidate nel centro. Il territorio, nemmeno trent’anni or sono, decadeva a mero tempo nutritivo della localizzazione urbana. Certo oggi son concetti risibili, quando l’area nutritiva di una metropoli come Roma o come NewYork può essere estesa fino al Nuovo Messico o il Sud-Africa o l’Australia - e la medesima estensione, evidentemente, vige per l’area di rifornimento di prodotti industriali. Semmai potrà aver rilevanza di tecnica ingegneresca (una versione, ahinoi assai appetita, di pianificazione territoriale) la struttura delle comunicazioni e dei trasporti: una “forma” di contenuto infrastrutturale che nelle sue proprie campiture tenderà a soverchiare la forma tradizionale della città, diventata metropoli e praticamente disseccata. Perché vive, oramai, solo se in quanto stia al gioco dell’economia di mercato e non è più il luogo della produzione e consumo ma quello dove si distribuiscono le merci, la formalizzazione tridimensionale, d’architettura e di spazi, della alienazione capitalista. Identicamente, decade a magazzeno, la metropoli, di attività amministrative; luogo di distribuzione di teatro, cinema, letteratura, arti figurative, cultura mercificata quanto la attività politica che si finge di continuar a svolgere “nel suolo urbano”.

2) Lo svuotamento del territorio

Ma il guaio più grosso è che ne consegue la perdita di ogni contenuto autonomo del territorio, destinato esclusivamente a provvedere ciò di cui la metropoli abbisogni (o creda di abbisognare). È a questo punto, orbato d’ogni autonomia decisionale, che il territorio decade a merce. E la maggiore sopraffazione della metropoli (distributiva) sul territorio (mercificato) si ha quando essa gli impone di non “produrre”: di essere mero lago e bosco e disposizione passivamente naturale per le ossigenazioni fasulle del tempo libero. A poco a poco, come un cancro che rode fondo, l’un momento e l’altro, così quello urbano come quello territoriale, si aggrovigliano e soffocano vicendevolmente. Gli architetti-urbanisti decorano, per il piacere dei potenti, edilizia e natura di monumenti tanto più inutili quanto più audaci.

3) Dal negozio al super-mercato

Quando si tratti di “fare una ricerca” sul momento terziario della città, si chiamano di solito a raccolta i geografi urbani (se ne esistono, in Italia, che dubito) gli economisti e i sociologhi. Gli economisti fanno fatica a occuparsene, perché la micro-economia non gli piace e non la capiscono - semmai, la desumeranno dai loro grandi numeri, dalle loro generalizzazioni disumane. I geografi urbani descriveranno: e se mettono in mappa gli allineamenti commerciali, gli sembrerà di essere anche loro urbanisti; che è poi vero, e finora proprio come gli architetti-urbanisti ma, seppure superficialmente, qui cerchiamo di indicare che non sarà vero quando “ritorni” il momento architettonico a far premio su quello (creduto) urbanistico. Quanto ai sociologhi, il loro ambito proprio è quello del “comportamento”: sembrerà che carpiscano il senso della vita, ma in realtà anche loro descrivono, danno il “come” e mai il “perché” delle strutture sociali.

E l’architetto-urbanista... gli sembra che sarà molto importante sapere da dove viene la merce, perché i mezzi di trasporto influiranno sulla forma da dare alla sua città, o al pezzo di città di cui abbia incombenza. E si sente più umano d’ogni altro, perché a valle si preoccuperà anche di coloro che useranno i manufatti terziari, dei consumatori: i loro percorsi, le loro residenze, le loro idiosincrasie, comodità, interrelazioni psicologiche. Ma è prigioniero, anche lui, di quello che gli dicono altri - di quello che crede di sapere mutuandolo non da sé, dal territorio dell’architettura (mi scusi Gregotti se uso in altro senso un suo titolo), ma dal territorio dell’ovvio mistificato. È nei paesi, nelle città-pueblo, nelle frange sgomente delle città che non riescono a diventare metropoli che esiste ancora un rapporto tra venditore e compratore. Per il resto, che è quello che conta (? ), vige il principio delle crescenti agglomerazioni, delle economie esterne in ogni ambito, delle macro-metropoli: in una società basata sul profitto, in una strettoia economica che solo nel profitto riconosce la molla del progresso, anche il momento del terziario ci è succubo.

I supermercati distruggono il piccolo negozio: la gente ci si trova meglio, dicono, e sono economicamente più validi. Il super-mercato distrugge, con le sue ovvie tipizzazioni, la possibilità di invenzioni artigianali, di scoperta rinnovata nell’operare, di produzione diretta, e tutto è meccanizzato, ridotto a merce nel senso più volgare. Nel super-mercato si celebra un tipo di compera dove è finita la gioia di andare scoprendo le cose (surrettiziamente ammiccato nelle programmazioni degli stand), dove persino la musica agisce da condizionatore... entro il contenitore provvisto dall’architetto.

4) La scelta architettonica

Ma l’architetto è questo, un provveditore di contenitori e basta? Ricordo che un po’ d’anni fa, discutendo con giovani architetti, gli sentivo affermare che non si dovessero fare progettazioni le quali non fossero perfettamente congruenti con la loro impostazione globale, la loro visione del mondo... anche quando non va oltre l’arredamento, lo architetto dovrebbe pretendere di esprimere creativamente codesta visione: è lui che crea le cose di cui gli altri si servono, che gli altri ridurranno a merce se non c’è, dentro quelle cose, una difesa attiva (semmai, sarà un poco difficile inserire cariche dirompenti nella progettazione di poltrone per i ricchi, o per i manager: memoria di quando, subito dopo il 1945, Zanuso che pur era uomo di sinistra progettava poltrone - che erano belle, annotiamo - e invece Diotallevi e Marescotti indicavano vani, problemi di edilizia popolare. Lo so, era più architetto, ma “tradizionale” Zanuso... I giovani architetti di oggi a chi vogliono assomigliare?).

Di certo so che l’architetto è colui che interpreta e interviene, nella società. E se si pensa che anche in Italia andiamo verso le tipiche forme dello sviluppo delle società industrializzate, bisognerà bene decidersi a capire che il compito architettonico è quello di aiutar la forma della metropoli occupandosi, soprattutto, di quel momento terziario che in essa metropoli è basilare (mentre il territorio, sostengo, diventa disponibile agli infrastrutturisti, e talvolta agli ecologi). Ci si dedichi francamente alle elucubrazioni alla Victor Gruen, delibando imitazioni di Fort Worth o, più sottili, dei “centri direzionali” delle ultime “nuove città” inglesi che oltraggiosamente subiscono la pressione dell’elaborazione statunitense. Si farà opera buona verso le vittime di quella società, monadi atone la cui unica armonia prestabilita sta nell’intreccio dei commerci, nella liberazione dell’incontro allo shopping-center. È questa la scelta?

Sia pure, ma con la coscienza che significa accettazione della società dei consumi, della società prigioniera della riduzione di qualsiasi sua produzione a merce da consumare, e basta. E senza dubbio la cultura architettonica e urbanistica attuale danno una greve spinta in codesta direzione, travolte dalla gioia di “formar grande”, di monumentalizzare le idiosincrasie della metropoli incombente, di creder di risolvere problemi che sono ben più a monte: e che non sono problemi di spettanza degli amministratori civici, o degli economisti, o dei sociologhi, o dei geografi urbani ma tanto più degli architetti-urbanisti nel momento in cui creano cose che si vedono, cui partecipano più persone, che sono integralmente, organicamente, dentro la società. Si tratta, in parole semplici, di diventare i maggiori corresponsabili della disumanizzazione dei propri simili - e di sé medesimi.

5) La composizione seriale

È possibile dar per ineluttabili attività terziarie a grande scala, senza che ne derivi una congruente struttura della città, del territorio, della vita associata? Sembra evidente che, in tale caso, si ammette che la vita all’interno dei quartieri non è auto-sufficiente, che c’è invece bisogno di un respiro maggiore, e che la città - anzi, la metropoli, che qui traspare - vive ed esiste solo nel momento in cui appaiono codeste strutture terziarie a grande scala. Ammettere tutto ciò significa rinunciare a mettere in discussione se codesto sviluppo sia giusto o meno (ma già! giudizi di valore, che valgon qui?).

Ma anche, sicuramente, rinuncia a un dibattito estetico: si mutuano dall’esterno certe forme, e le si mena per buone scadendo nello stereotipo - l’ambito proprio della architettura non sovviene ne tramuta, ma subisce e rigurgita tristi giochi formalistici.

Io sono persuaso che siccome l’economia e la politica hanno fatto fallimento da molti anni, una tra le poche vie d’uscita per la rielaborazione dei modi di intervenire nella società, di riviverla e ricrearla, stia nella pianificazione fisica, nella pianificazione territoriale, nella progettazione di cui gli architetti sono il momento davvero creativo. È finito il tempo dell’architetto-rivestitore inerme di contenuti a lui alieni: è il tempo della scelta.

Nessuno vuole tornare alla città medioevale. Bensì a una dislocazione sul territorio di una serie di fatti che chiameremo “città-comprensorio”, o comunque si preferisca. Bisogna evitare, per esempio, che come accade nel PIM, nel Piano Intercomunale Milanese, Milano invece di sciogliersi nel territorio - e liberarlo, con la sua cultura di città, dall’essere mera merce - ancora più campisca e domini, motore immobile-distributivo.

È ben vero che oggi molti studiosi concordano sullo scioglimento della città tradizionale nel territorio, ma asseverando che essa permanga lo agglomerato fondamentale della attività terziaria (l’unica cui si prevede futuro) a grande scala. Non è possibile ipotizzare che uno studio di carattere territoriale ci indichi che codeste attività non possono conglomerarsi in quello che è tradizionalmente il centro urbano (nelle sue vesti odierne di centro direzionale) ma che la attività terziaria a grande scala, se proprio ci si tiene, sia il risultato di una rete di comunicazioni che correlano e fanno cosa distinta e unica di punti distanti nel territorio, sicché la città-comprensorio è fatta di tante città, nessuna delle quali ubicata “in qualche luogo” bensì “in nessun luogo”, risultante da una serie di linee?

E questo ha il vantaggio, fondamentale anche per la salvezza del territorio, di battere quel gigantismo che sembra contraddistinguere in modi sempre più palesi (formalizzati) il nostro pseudo-sviluppo.

Cominciamo a usare una composizione seriale: niente dominanti, sono tanti “unici”, tante individualità ma collegate fra loro: nel gioco dei loro collegamenti può nascere qualcosa di diverso da ciò che si vede di solito. Può nascere, e può non nascere: non è per niente vero che il getto dei dadi “non torna”, e comunque non saranno mai i calcolatori a decidere il destino dell’uomo.

Nota: qui una breve NOTA BIOGRAFICA su Carlo Doglio (f.b.)

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