La destra politica e culturale stavolta se ne è stata zitta. Sono passati un po’ di mesi dall’omicidio plurimo di Rozzano, dalle fiaccolate, dalle urla contro le periferie degradate per colpa dei soliti comunisti, dalla polemiche sul che fare (a colpi di manganello o metro cubo), e anche dal dibattito che si accese per una breve fiammata sulle pagine di Eddyburg.
Qualche giorno fa il balordo prodotto dell’ambiente di “degrado sociale” è stato condannato a un po’ di anni di reclusione, e alla cosa si sono dedicate poche parole diluite fra le cronache d’altro. Del resto era abbastanza ovvio che l’ondata giornalistico/speculativa avesse il fiato corto. Di più ampio respiro sembra invece essere lo spirito improvvisatore (se non peggio) con cui sembra vengano affrontati, anche lontano dalla luce più viva e cruda dei riflettori, i problemi veri di queste periferie a tre dimensioni, quelle con gli abitanti che ci abitano proprio, lì dentro. È il caso, solo per fare un piccolo esempio neppure troppo lontano dall’originale, di via Turati a Bollate.
Bollate sta agli antipodi, agli antipodi di Rozzano. Mica antipodi qualititativi: semplicemente Rozzano è nella cintura milanese sud, e Bollate in quella nord. Cambiano un po’ il panorama, il nome dello svincolo più vicino della Tangenziale, ci sono le ferrovie Nord invece del Naviglio, e il Parco Groane anziché il Parco Sud. Ma siamo indubbiamente dentro la stessa Milandia, come si capisce subito guardandosi attorno, anche dalle parti di via Turati dov’è ambientata la nuova disfida sulle periferie. Una disfida che stavolta anziché i temi della sicurezza tocca “le ragioni dell’Arte”, per usare parole care a certa polemica di fine Ottocento, e alle origini dell’urbanistica moderna.
Via Turati di Bollate, oltre a stare agli antipodi di Rozzano, sta anche subito dietro la chiesa parrocchiale, e se non ci fossero il muro della canonica e qualche parcheggio di troppo si potrebbe anche chiamare una propaggine del centro storico, almeno in potenza.
Certo è difficile confondere le architetture moderne delle case di via Turati con le altre più vecchie e tradizionali dei dintorni, ma qui nessuno si azzarderebbe mai a parlare di terre di nessuno, labirinti metropolitani selvaggi voluti dai comunisti, e compagnia bella. Forse per questo la cosa non ha avuto troppo clamore in cronaca. La qual “cosa” è il progetto di demolizione delle case, e di completo rinnovo dell’area nell’ambito del Contratto di Quartiere, costruito passo passo attraverso quella progettazione partecipata che pare il toccasana per ripensare le periferie di ogni ordine e grado.
”Bestemmia!”, esplodono i cultori dell’Arte. Quelle non sono case malandate, ambienti malsani forieri del famigerato “degrado sociale”, ma capolavori di architettura del Novecento, che necessitano di restauro attento, rispettoso delle volontà del progettista originario, e se la cosa costasse anche molto di più ne vale certamente la pena. No: di rifare il quartiere non se ne parla nemmeno, checché ne dicano tutti i possibili laboratori di progettazione democratica e partecipata. E come spesso succede in questi casi, la verità e le colpe non stanno né dall’una né dall’altra parte della contesa, e neppure nel mezzo. Non sarò certo io a trovare la verità, ma almeno le colpe mi pare di intravederle: nel manico, che in questo caso è rappresentato dalla trafila di passaggi e filtri che si frappongono tra gli agognati investimenti per aggiustare grondaie, aiuole, ripulire cantine, e la loro effettiva elargizione. Perché la cosa sicura, e visibile anche a occhio nudo, è che le case progettate trent’anni fa da Guido Canella non sono in ottima salute, e a sentire chi di mestiere ci sta dentro l’interno è messo anche peggio. Ed è facile immaginarsi le aspettative di quelle assemblee di progettazione partecipata, coi toni accesi di chi ha gli scarafaggi in camera da letto, o litiga da lustri per l’uso di un passaggio pubblico che pubblico nei fatti non è mai stato, e via dicendo. Insomma il repertorio di guai della progettazione novecentesca che dalle ricerche un po’ paranoiche di Oscar Newman nel complesso popolare Pruitt-Igoe di St. Louis in poi ha fatto tutta la strada che conosciamo. Ma, come ricordava lo stesso Newman ad ogni piè sospinto, lo studio dei microterritori percepiti e controllati dagli esseri umani che a vario titolo si aggirano in questi spazi, è altra cosa rispetto ad un’idea realistica di cosa sono, e cosa invece dovrebbero essere, gli ambiti del quartiere popolare, in sé e nel rapporto col resto della città. Proprio qui, mi pare, sembra esserci una lacuna metodologica: quali sono gli obiettivi di un Contratto di Quartiere?
Senza andare fino a St. Louis, Missouri (dove sono esplosi i problemi socio-spaziali del quartiere popolare), e neppure a Porta Pia, Roma (dove al Ministero delle Infrastrutture si promuovono i Contratti di Quartiere, a tentare di risolverli, questi problemi), basta dare un’occhiata qui vicino a Milano, sede della Regione Lombardia responsabile del Bando II, che recita alle finalità: “ una serie coordinata ed integrata di interventi edilizi e di azioni sociali che complessivamente sono finalizzati alla riqualificazione definitiva di un quartiere degradato”. Bene, c’è la miscela spaziale e sociale da dosare ed equilibrare in un approccio coordinato e “complessivo” di “riqualificazione definitiva” del quartiere. Il quale quartiere, come ci insegnano la vulgata e l’alto dibattito da quasi un secolo, è “parte costitutiva della città”, o altra declinazione del medesimo concetto generale. Ancora senza andare a St. Louis o a Porta Pia, basta fare quattro passi fra via Turati e il sagrato della chiesa parrocchiale, o magari nelle strade e parcheggi lì attorno che sfumano nel cuneo verde del parco del Castellazzo e delle Groane, per toccare con mano che questi posti parte costitutiva della città lo sono, eccome. Grazie alle dimensioni minuscole dell’insediamento, grazie alla vicinanza al nucleo centrale consolidato, grazie a tanti fattori non ultima la capacità del progettista anche oltre i singoli manufatti, tutto si tiene. E, grondaie colanti, corridoi trappola e scarafaggi in camera a parte, c’è molta più qualità potenziale da queste parti che non nelle strisce di villette pochi isolati più in là, verso il tracciato delle ferrovie Nord. Il che fa capire ancora meglio che questa piccola polemica nasce da una interpretazione miope, burocratica, magari un po’ in malafede, sia di cosa possa essere quella “ serie coordinata ed integrata di interventi edilizi e di azioni sociali”, sia degli obiettivi generali che si pone.
Perché, anche considerando un lusso decadente (cosa che non è) l’idea del progettista Guido Canella, e delle autorità di tutela artistica che considerano questi edifici di alto valore, di procedere a un restauro anziché ad una demolizione, c’è dell’altro. Quanto “valgono” questi spazi? La polemica restituita dalla stampa locale ci risponde: molto, ovviamente, per chi li considera dal punto di vista dell’opera di architettura di alto profilo; meno, molto meno, per chi “sa fare i conti”, e cifre alla mano ti dimostra che costruendo un nuovo quartiere si avranno alloggi migliori e spese infinitamente ridotte. Il che coi tempi che corrono, viste anche le opinioni positive dei residenti, è un gran risultato. Curioso che nessuno si accorga del convitato di pietra: lui sul “prezzo” da pagare conta, eccome se conta.
Il convitato di pietra (o cemento e asfalto che dir si voglia) non c’è bisogno di affannarsi molto per cercarlo. Basta sporgersi dai balconi e percorsi delle case popolari di via Turati. Oppure mettersi in piedi nel parcheggio sulla prospettiva del campanile parrocchiale, o nelle aiuole spelacchiate, e fare un giro di 360 gradi con gli occhi aperti. Eccolo lì, il convitato: esattamente come l’ha visto, e tentato di interpretarlo – a quanto pare con un certo successo e consenso critico – il progettista Guido Canella trent’anni fa. Eccolo lì, il convitato/resto della città, arricchito da trent’anni di uso, percezione sociale, adattamenti spaziali e stratificazioni varie. Questo, e non altro, è il “quartiere”, come ricordava un’ottantina di anni fa Thomas Adams introducendo per il Piano Regionale di New York la teoria della neighborhood unit (unità di quartiere, o di “vicinato”) di Clarence Perry. Si stava formando la prima mastodontica area metropolitana del mondo, negli anni ruggenti di New York, e dentro alla griglia di asfalto e cemento gli studiosi “scoprirono” un possibile punto di incontro fra la progettazione urbanistica, quella architettonica, e la percezione e uso dello spazio quotidiano da parte degli abitanti. Era il moderno quartiere, certo accoccolato in grembo al grande convitato di pietra della città metropolitana, e circondato dalle rampe delle strade di comunicazione veloce, ma raccolto attorno a due-tre concetti quantitativi e percettivi facili e articolabili: l’abitazione, gli spazi aperti immediati, i servizi quotidiani soprattutto per bambini e anziani. Insomma un prolungamento dell’abitazione nello spazio esterno, che opera da trait-d’union "amichevole" con la città e la regione metropolitana, e di converso fra questa e lo spazio privato dell'abitazione. E questa sensibilità è anche quella che ha guidato bene o male la formazione delle nostre periferie, specie nei quartieri di iniziativa pubblica, della seconda metà del Novecento.
Ma se andiamo a leggere le “ LINEE GUIDA PER LA PROGETTAZIONE E REQUISITI PRESTAZIONALI DI CONTROLLO DELLA QUALITÀ” proposte dalla Regione per il bando dei Contratti di Quartiere, non c’è nessuna traccia di nessuna idea, di città, di quartiere, a stento di cortile. Per trovare un tema diverso dall’alloggio in senso stretto (umidità, illuminazione, l’immancabile sicurezza ecc.) bisogna arrivare al punto “5.4 Fruibilità dell’organismo edilizio e spazi multifunzionali comuni”, dove lo sguardo tecnico si avventura oltre il tinello con televisore, nel territorio vasto di corridoi, cortili, e financo spazi comuni alberati. E basta. Abbastanza ovvio, che i criteri di valutazione economico-sociale del quartiere escano piuttosto distorti da una prospettiva dentrocentrica del genere. Ed è abbastanza ovvio, che anche qualunque laboratorio di progettazione partecipata, muovendosi nel quadro di queste linee guida, finisca per focalizzare le migliori aspettative e sforzi degli abitanti sul lavandino che perde, gli spazi comuni colonizzati dai campionati di skateboard, e a definire quello che si può chiamare al massimo “Contratto di manutenzione Edilizia”. Quando la manutenzione edilizia è troppo cara, come ben sa il geometra, si tira giù tutto e si rifà daccapo, magari spostandosi di qualche metro. Pensare che anche Thomas Adams originariamente era un geometra ( surveyor). Ma questa è un’altra storia ...
Per tornare a Bollate, e chiudere queste note, credo si possa buttar lì un’ipotesi: al contrario di Rozzano, stavolta la destra politica e culturale non ha strepitato, perché aveva già vinto. Vinto, trasformando di fatto cent’anni di riflessioni sul quartiere in una sommatoria di rilievi tecnici sulle qualità dei singoli alloggi. Vinto, proponendo con un certo successo la contrapposizione fra un “artista” che legittimamente tenta di difendere la sua opera, e i bisogni residenziali altrettanto legittimi di chi dentro a quell’opera ci deve mangiare, dormire, fare l’amore, buona parte dell’esistenza. Insomma separando di fatto quello che è il cuore dell’idea di quartiere come cellula costituente dell’organismo urbano, e la sua pur perfettibile interpretazione (a un tiro di sasso dal centro storico) da parte del progettista, arricchita dalla trentennale interpretazione degli abitanti.
Perché quella che sembra essersi affermata, comunque finisca questa piccola vicenda, è la logica del quartiere popolare così come interpretata da un vecchio presidente dell’Istituto di epoca fascista, Giuseppe Gorla: “Una volta abituati, non c’è più bisogno di obbligarli”. Gorla, diventato noto poi per altri meriti urbanistici, con questa frase si riferiva all’uso dei servizi igienici e dei bagni. Interpretata dai neoburocrati del Contratto di quartiere e dell’arredamento partecipato, questa frase può essere riferita allo schermo televisivo, unica vera finestra sulla realtà.
Per il resto, lasciate fare agli specialisti: partecipazione sì, ma solo tra uno spot pubblicitario e l’altro.