LA SENTENZA, esemplarmente dura, contro la banda di giovani assassini di paese che si faceva chiamare Bestie di Satana, prova a rimettere sotto il dominio della legge e della ragione una vicenda criminale davvero sconvolgente. La logica della sottomissione violenta non è rara tra gli adolescenti "difficili". Ma come da quel meccanismo (che al grado più ordinario genera solo spregevole bullismo) abbia potuto germinare una violenza così mostruosa e continuata, fatta di torture e sadismo, con un accanimento da navigati aguzzini, è uno di quei misteri che rientrano nella psicopatologia criminale.
Mantenendoci al di qua di quell’estremo territorio, rimane da riflettere sulla miserabile ambientazione di questa storia di sangue: una stracca vita di provincia, il basso livello culturale, la paccottiglia satanista e metallara che dapprima attecchisce come atteggiamento per darsi un tono tra ragazzi, e piano piano diventa forsennata liturgia, movente di morte. Uno dei capi si faceva chiamare "Ozzy", nomignolo di un estroso e ormai anziano ciccione americano, star della scena heavy metal, perfino spiritoso nelle sue ributtanti performance sul palco. Ma quel minimo di comprendonio richiesto per distinguere gli abiti di scena dalla vita vera, evidentemente non era alla portata della improvvisata setta di ragazzi, e Ozzy, da nomignolo di un clown, è diventato il nome di battaglia di un mostro.
Tutto è smisurato e senza freni, in questa storia: come se in nessuno dei luoghi di socialità (la famiglia, la scuola, il lavoro, il bar, perfino gli amori tra coetanei) le aspiranti Bestie avessero incontrato un minimo intoppo, un percettibile elemento di ripensamento, di esitazione, di morale, di logica, perfino di paura della punizione. Come se la setta avesse potuto crescere, nel tempo, in una solitudine allucinante, senza che niente di esterno al delirio del leader riuscisse a interferire, a bloccare in tempo la ferocia omicida.
Colpisce – e non è la prima volta – che sia ancora il paese, la provincia, la piccola Italia ex rurale, quella fatta di villette tra i campi e di modeste attese, il teatro di un così orribile massacro. Abituati come siamo a considerare la metropoli come luogo per eccellenza della dissoluzione sociale, dell’anonimato a rischio, dovremmo invece prendere atto, se non altro per onor di statistica, che quasi tutti i più efferati casi di cronaca nera italiana degli ultimi anni non hanno per scenario grattacieli o muri di fabbrica, ma cascine, boschi, campi, casali isolati. Dal mostro di Firenze a Cogne, da Pietro Maso alle bande dei cavalcavia, emergono facce e vite di un’Italia minore, distante dai grandi crocevia urbani, aperta dalla televisione alla fruizione virtuale del caotico flusso di consumi, spettacoli, nozioni, contatti, ma nella vita reale ancora chiusa in piccole cerchie, piccoli itinerari: quel famoso "qui tutti si conoscono" che consideriamo in genere una garanzia di controllo sociale, ma evidentemente non basta più a munire lo sguardo pubblico, e forse, al contrario, lo illude e lo confonde.
Tanto da far sospettare che le nostre vere banlieues siano queste ex campagne, queste non città cinte da capannoni e stradoni, con le radici contadine sradicate e lasciate disseccare, e ancora nessuna cultura metropolitana che aiuti (almeno aiuti) a capire che il satanismo è appena una moda scema fra altrettante altre, un look balordo, un’intenzione ostile, e non può essere una verosimile maniera per diventare qualcuno o qualcosa di decente. Di satanismo si comincia a morire piuttosto spesso (vedi il caso della suora martirizzata a Sondrio, e le sospette venature "diaboliche" del delitto tra compagne di studi in Puglia), e i casi sono due: o si crede che la colpa sia davvero di Satana, o si considera con amarissimo dolore quali e quante forme di imbecillità possono assumere l’ignoranza e l’odio degli uomini, colpiti da immagini, mode, parodie di identità che non sono in grado di controllare.
Postilla
Non solo i "casermoni", quindi, sono fonte di smisurato disagio sociale, ma anche lo "sprawl". A proposito, chissà se quando Bruegmann scrive dello sprawl tiene presenti solo le linde periferie londinesi, o si riferisce anche alla dispersione insediativa cui si riferisce Michele Serra?