In calce il testo del Progetto di legge n. 3921, Azioni straordinarie per lo sviluppo e la qualificazione del patrimonio edilizio ed urbanistico della Lombardia.
Alla volontà sovranamente espressa dal Primo ministro di affrontare le difficoltà indotte dalla crisi economico-produttiva mondiale promuovendo in Italia un incremento dell’attività edificatoria minuta attraverso la sospensione in via eccezionale dei limiti posti dalle regole urbanistiche in tema di rapporto tra quantità edificatorie e dotazioni di attrezzature pubbliche normalmente vigenti, e alla conseguente minaccia di procedere autocraticamente nel determinare i contenuti e la durata di tale “periodo eccezionale”, la Conferenza unificata delle Regioni del 1 aprile scorso (ironia delle date!) ha approvato un’Intesa che propone di adeguarsi “spontaneamente” all’espressa volontà sovrana, rivendicando almeno margini di autonomia decisionale nel come farlo.
In questo, tuttavia, la Regione Lombardia avrebbe più di un argomento per sostenere, rispetto ad altre Regioni, di avere da tempo autonomamente, preventivamente e a tempo indeterminato già più che ottemperato a quell’auspicio, sia con il principio del cosiddetto “standard qualitativo” nei PII (cioè, cessione di minori aree pubbliche rispetto a quelle prescritte dagli strumenti urbanistici vigenti a fronte di oneri urbanizzativi per opere pubbliche in qualche misura superiori a quelli normalmente vigenti), sia con la possibilità di trasformare ad uso abitativo tanto i sottotetti preesistenti che quelli delle nuove edificazioni che via via si vanno realizzando ex-novo (questi ultimi, ora, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui pertengono).
La Giunta regionale della Lombardia il 3 giugno scorso ha, invece, approvato un disegno di legge regionale, che dà seguito a quell’Intesa, che consentirebbe – si dice in via straordinaria e temporaneamente per diciotto mesi, ma poi si vedrà – , al di fuori dei centri storici e in deroga a ogni norma vigente, di aumentare l’edificato proporzionalmente ai volumi preesistenti (20-30-35% in più, a seconda dell’impiego di criteri di risparmio energetico e di schermature arboree) con incrementi volumetrici da 300 a600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare.
Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia ne aggraverebbe la dissonanza dal contesto insediativo.
Si tratta di incrementi che si concentreranno in particolare nelle zone urbane più fittamente utilizzate, soprattutto in ambito metropolitano: basti pensare alle cosiddette “coree” costituitesi nelle grandi periferie urbane del triangolo industriale negli anni Cinquanta (cioè, nel periodo coevo al logorante e interminabile conflitto Stati Uniti- Corea, che – ironia della sorte – rischia oggi di tornare d’attualità)) con la vendita di mini-lotti di 400-500 mq ai primi immigrati veneti e meridionali e da questi progressivamente edificati in autocostruzione (prima abitando la cantina, poi il primo e, infine, il secondo piano), con l’unico limite della distanza prescritta dal codice civile di 1,5 metri dal confine - per una distanza totale di 3 metri tra gli edifici - e strade di poco più di 5 metri di larghezza, senza marciapiedi.
Non sono scomparse, sono solo state inglobate nella successiva e più massiccia espansione metropolitana.
Se la loro densità edificatoria fondiaria è relativamente non elevatissima (si tratta, appunto di edifici per lo più di due piani fuori terra, pur con superficie quasi totalmente coperta), lo è invece quella territoriale, per la pressoché totale assenza di adeguata rete viaria e spazi pubblici.
Ma è proprio questo l’obiettivo dell’intervento legislativo caldeggiato dal Primo Ministro: far intendere anche ai piccoli e piccolissimi proprietari immobiliari che potranno godere anche loro (nel loro piccolo, si intende) dei benefici di quel liberismo privo di regole di cui hanno sinora usufruito le grandi e medie proprietà immobiliari con gli strumenti di deregolazione di piani attuativi e spazi condominiali.
La speranza, per limitare i danni di questa illusoria libertà individuale, è che si inneschi un meccanismo di autodifesa da parte di coloro che si vedrebbero sorgere nuove parti edificate a distanze minori dei dieci metri garantiti dal DM n. 1444/68, che – come è già accaduto nel caso della trasformazione ad uso abitativo dei sottotetti – è stato sentenziato dal TAR Lombardia essere inderogabile da parte di provvedimenti legislativi regionali e comunali, senza una sua esplicita abrogazione a livello nazionale.
Anche nelle zone di edilizia economica popolare, che tradizionalmente hanno utilizzato indici edificatori più elevati proprio in considerazione delle più ridotte capacità economiche dell’utenza, un incremento percentuale del 40% della volumetria presenterà non pochi problemi di vivibilità urbana.
In questo caso l’obiettivo è ricavare ulteriori quote di edificabilità da destinare al crescente mercato dell’housing sociale, alla cui gestione ambiscono poter accedere le tradizionali centrali cooperative, ma anche e in modo ormai preminente quelle cielline di Compagnia delle Opere, senza penalizzare le quote di edificabilità dell’immobiliarismo privato.
Infine, il DDL della Giunta lombarda consentirebbe di trasformare le parti inutilizzate di edifici esistenti in zone agricole in destinazioni ricettive non alberghiere, uffici e attività di servizio non meglio specificate e addirittura nelle aree dei parchi regionali gli edifici esistenti potrebbero avere un incremento volumetrico dal 13 al 21% (cioè lo stesso che in zone urbane, diminuito di un terzo).
Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia, ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni nazionali e regionali - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli), anche se paradossalmente gli esempi che spesso vengono portati a sostegno degli insoddisfacenti risultati prodotti in termini di immagine urbana sono proprio quelli causati dal periodo delle “libere” contrattazioni senza Piano Regolatore degli Anni Cinquanta/Sessanta.
Vi è, in questo, una perversa convergenza tra tendenze neoliberiste nell’uso di città e territorio e accresciute sensibilità ambientaliste (risparmio di suolo, risparmio energetico, patrimonio arboreo) che propugna in materia urbanistica un ritorno alle sole norme ottocentesche di superficie coperta ed altezza (quest’ultima, tuttavia, spesso liberalizzata in nome di una preteso minor consumo di suolo e modernità funzionale e di immagine degli edifici in altezza) abbandonando come obsolete quelle novecentesche basate su indici di densità e dotazioni di spazi pubblici, a fronte dell’avvento dei criteri di sostenibilità nell’uso delle risorse non rinnovabili (risorse idriche, inquinamento da traffico e riscaldamento, smaltimento rifiuti).
Anche se è vero che, coi soli limiti di densità e di standard pubblici, si sarebbe potuto procedere ad un’urbanizzazione dell’intero territorio, senza alcuna valutazione di sostenibilità ambientale di lungo periodo (e il sovradimensionamento dell’estensione urbanizzativa di molti PRG ne è la testimonianza), tuttavia non è concentrando un accresciuto peso insediativo in ambiti più ristretti che si affronta correttamente il problema.
In tal modo, infatti, ad un incremento dello spazio alberato o scoperto (ma per lo più si tratta di spazi privati e non pubblici, quando non si tratta addirittura del bizzarro “verde verticale”, cioè della piantumazione – non si sa quanto durevole – di terrazze private pensili) corrisponde un incremento più che proporzionale della densità insediativa, con una riduzione dello spazio pubblico per abitante (realmente “inedificato”, cioè non pertinenziale ad un edificio), che si risolve in un’accresciuta pressione antropica.
Anche i vantaggi in termini di risparmio energetico e di miglioramento della qualità edilizia appaiono come uno scambio ineguale, se ottenuti - nel ciclo di lungo periodo – al prezzo di un peggioramento della qualità insediativa dell’assetto urbano.
Certo l’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.
Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto pubblico di territorio e città, socialmente individuato e condiviso.
Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra libertinaggio pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo (tanto il territorio ha “spalle grosse”, non c’è più sensibilità diffusa a volerlo proteggere, non è reato abusarne) cui è colpevole rassegnarsi.
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