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Ida Dominijanni
L'occidente chiuso nel velo
2 Dicembre 2005
Scritti 2004
Una posizione controcorrente. Un punto di vista che aiuta a comprendere un quadro non semplice nel quale ogni posizione (a me quella della Francia sui simboli religiosi sembra convincente) deve mantenere un margine di dubbio. Da il manifesto del 31 agosto 2004

La Francia di Chirac, avamposto europeo del no antiamericano alla guerra in Iraq, si iscrive al fronte della fermezza e mette a rischio la vita dei suoi due giornalisti ostaggi dei terroristi iracheni in nome di una legge votata dal suo parlamento e tuttavia controversa, contrastata, sbagliata. Una legge che antepone il valore occidentale della laicità al valore occidentale della tolleranza. Che fa dell'integrazione universalistica modello francese un feticcio da agitare, prima che contro l'integralismo islamico, contro il multiculturalismo anglosassone e americano. Che simbolicamente riconsegna la libertà femminile, delle donne islamiche ma anche di quelle occidentali, allo scambio fra uomini, infilandola nella tenaglia fra l'oppressione del patriarcato fondamentalista islamico e la tutela del paternalismo statale democratico. Non era stato solo l'ideologo di Al Queda ad attaccare la legge che vieta l'esibizione del velo, della croce e della kippah nelle scuole: erano stati - lo documenta il lungo dibattito svoltosi lo scorso inverno su Le Monde e altrove - molti e molte intellettuali francesi ed europei, consapevoli della sua impronta illiberale nonché dell'evidente rischio in essa implicito di suonare come una provocazione agli occhi di più di un settore del mondo islamico e delle sue comunità sparse in occidente. Lo scontro di civiltà si fa e si fomenta in due, o non si fa e non si fomenta. Di fronte al nuovo, atroce ricatto del gruppo terrorista iracheno, che non ha tenuto conto ieri degli intenti pacifisti di Enzo Baldoni e non tiene conto oggi dell'appartenenza a un governo no-war di Cristian Chesnot e Georges Malbrunot, non c'è oggi opinionista che non sottolinei il salto di strategia del terrorismo islamico, insensibile ai distinguo politici, radicalmente antioccidentale, globale nel raggio dell'azione anche se tradizionalista nelle rivendicazioni. Ma pochissimi, ancora oggi come dopo l'11 settembre, rilevano quanto sia incongruo e sbagliato, inefficace e autolesivo rispondere a questa scala del problema innalzando barriere veteronazionaliste. La bandiera a stelle e strisce e l'esercito nell'America pro-war di Bush, la grandeur repubblicana nella Francia no-war di Chirac. Non funziona. Nel mondo globale che mette le civiltà a contatto, e che sradica e mescola le identità fino a provocare i tragici crampi identitari e integralisti del nuovo terrorismo, l'occidente non ha scelta: o contamina i suoi valori o li perde. O cede al contatto, o viene preso nello scontro. O si apre o regredisce: con le guerre, e con le leggi.

Fa parte di questa regressione, parte attiva, l'uso delle donne come bandiera, posta in gioco e trofeo, da una parte quanto dall'altra delle civiltà in guerra. Dall'Iran di Komeini all'Algeria all'Iraq, ci indottrina André Gluksmann e altri non mancheranno, il fondo roccioso dei fondamentalismi è sempre lo stesso, l'inferiorizzazione, la lapidazione, il massacro delle donne. Lo sappiamo e lo combattiamo non da oggi, facendo leva, a differenza di Gluksmann e compari, sui movimenti di libertà femminile che abitano anche le società islamiche e non solo le nostre. Ma assieme a quelle donne islamiche, velate e non, che intimano ai terroristi di non imbrattare quel velo di sangue, noi diciamo agli uomini e ai governi occidentali di non imbrattare di sangue la laicità, i diritti e quant'altro della sua contraddittoria storia (e nessuno quanto noi donne sa quanto sia contraddittoria) l'occidente usa oggi come arma contundente contro quanti e quante non vogliono farsi assimilare alle sue misure. Non è in nostro nome che il gioco al massacro dello scontro di civiltà può continuare.

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