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Paolo Flores D?Arcais
Lettera aperta a Romano Prodi
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
Un ragionamento sul risultato delle elezioni e sul “che fare”. Il testo è tratto dall’ultimo numero di Micromega. Lo riprendo da l’Unità del 4 luglio 2004

Caro Romano,

manifestare soddisfazione per i risultati elettorali e ottimismo per le prospettive che schiudono rientra nei rituali consolidati e in apparenza ineludibili della politica. Ma è davvero segno di realismo, oggi, non sottrarsi alle liturgie d’ordinanza, cioè ai vincoli di un orizzonte del “fare politica” evidentemente in crisi? Non sarà invece sintomo di saggezza - di Realpolitik! - e di fiducia nel futuro abbandonare abitudini che inchiodano i partiti a restare parte del problema anziché possibili veicoli della soluzione?

Il compito di ogni democratico, infatti, non è forse oggi di “reinventare” le pratiche della democrazia rappresentativa, proprio per “salvarla” dalle sirene della deriva populista che la sta minacciosamente svuotando in finzione?

(...) La coalizione di governo e la somma delle opposizioni raggiungono la stessa cifra, 46,1 (inglobando tra queste ultime Svp e Uv, come è giusto, e tra i sostenitori di Berlusconi, come è ancor più doveroso, i socialisti di De Michelis e le bellezze di Sgarbi e altri La Malfa. Il restante e disperso 7,8 non è affatto rassicurante, tra nostalgici e ultranostalgici di Salò, o vagamente qualunquisti partiti dei pensionati. Si divideranno gli elettori radicali (non i loro schieratissimi dirigenti), ma per il resto al centro-sinistra è attribuibile poco o nulla.

Hic rebus stantibus, dunque, se si votasse per le politiche domani, gli astragali del moderno calcolo delle probabilità vaticinerebbero Berlusconi, e sulla conferma del regime ai Lloyd di Londra la posta scenderebbe sotto l’1 a 1. Non mi sembra che siano in vista i “domani che cantano”, insomma. Certo, ci sono due anni. Ma anche per “loro”. In cui faranno carne di porco di quel poco che resta di istituzioni e pratiche democratiche. (...) E soprattutto, Romano, questa prospettiva minacciosa per la democrazia (e deprimente per lo schieramento di cui sarai il candidato) si annuncia dopo che il governo - in tre anni - ha fatto tutto quanto poteva per perdere consensi.

Andiamo però un poco oltre l'angusto angolo di visuale della politologia da establishment. Andiamo alla "cosa" che tale politologia non solo trascura ma anzi contribuisce a rimuovere: lo scollamento tra cittadini e rappresentanti, anche quando i primi non si astengono dal voto.

Prendiamo il tema che ha dominato vita politica e mass media negli ultimi mesi: la guerra di Bush. Non vi è nessun rapporto tra le opinioni contro la guerra, certificate da ogni sondaggio come schiaccianti nel paese, e l'esito elettorale. Ma analogo risultato si avrebbe confrontando ogni "issue" programmaticamente rilevante. In altri termini: si torna a votare secondo la logica tradizionale destra/sinistra in accezione partitica, senza che i temi che hanno diviso trasversalmente l'opinione pubblica spostino davvero dei voti. Siamo tornati al prevalere del voto di appartenenza, benché le "appartenenze" appartengano al passato.

Sembra il trionfo dei partiti e di un rapporto tradizionale con gli elettori, da Prima Repubblica ancora in rigogliosa salute, come se le lancette tornassero a trent'anni addietro. Ma è pura illusione. Nella rappresentabilità (e non solo nella rappresentanza) tutto torna nell'alveo di una geometria lineare tradizionale, anche se la società, il "sentire" politico e la (in)fedeltà ideologica sono definitivamente cambiati, solo perché le nuove istanze non trovano possibilità di rappresentazione. E sono dunque costrette a scegliere tra non-voto e camicia di forza della geometria tradizionale, che si traduce in disaffezione nel momento stesso in cui si vota.

Per capirsi: chi ha (ri)scoperto la passione civile con i no global o con i girotondi (o con le nuove lotte operaie), al Circo Massimo o a San Giovanni, non trova possibilità di traduzione elettorale per la politica che ha "agito" nelle piazze. Nemmeno parziale, se non in quantità marginali. Con l'ovvia conseguenza che le opposizioni non intercettano, trasformandoli in voti (e anzi si precludono la possibilità di farlo anche in futuro) i motivi di critica al regime, fondati sia su valori che su interessi.

(...) Collocare le diverse opinioni lungo una linea ininterrotta che da destra a sinistra vede: reazionari, conservatori, moderati, riformatori, rivoluzionari, oggi non rende conto della realtà neppure approssimativamente, schematicamente. La occulta, anzi. Un tempo destra voleva dire "law and order", oggi la "destra" realmente esistente (e malgovernante) si è fatta crociata di illegalità, tanto per citare un tema che da oltre dodici anni domina la vita politica italiana. E chi sarebbero poi i moderati? La difesa intransigente dei valori costituzionali è massimalismo? E non saranno invece proprio i moderati a diventare degli "enragé" quando i valori "moderati" (l'abc liberale, insomma) vengono calpestati da un regime populista?

Aver riportato le possibilità di scelta elettorale dentro gli schemi di appartenenza della Prima Repubblica costituisce in realtà il regalo più grande che le opposizioni potevano fare a Berlusconi, che punta tutto sulla vecchia dicotomia precaduta del Muro, e anzi guerra fredda anni Cinquanta (di nuovo c'è solo lo strumento del partito aziendal-videocratico): i "comunisti" (vale a dire tutti i suoi oppositori) e gli anticomunisti, in quanto tali paladini delle libertà, cioè lui medesimo e quanti a lui obbedienti. Le opposizioni regalano così a Berlusconi una vittoria strategica esattamente quando gli elettori gli tolgono lo scettro del comando assoluto in seno alla sua stessa coalizione.

Eppure, caro Romano, ricordo assai bene quando ci incontrammo la prima volta, nella primavera del ‘94, ancora nella sede dell’Iri, da cui stavi traslocando. (...) Il tuo interesse era tutto concentrato nell'illustrarmi la tua tesi di fondo, che circolò poi nella famosa espressione sul "valore aggiunto" delle energie della società civile rispetto alla somma dei partiti, e si manifestò nel sottolineare la necessità di suscitare forze ed entusiasmi potenziali, proprio perché eccedenti la logica degli schieramenti tradizionali. Proprio perché, appunto, quegli schieramenti non "rappresentavano" più, neppure a grandissime linee, il paese. Quegli schieramenti, e i dirigenti e gli apparati che ne materializzavano la logica. E del resto cosa è stato l'Ulivo (e perfino l'Asinello e la Margherita) se non il tentativo (a tentoni, ma non brancolando nel buio), per dare corpo a questa linea? Cioè alla consapevolezza che solo frantumando la logica degli schieramenti tradizionali, e ricomponendo alleanze su valori e interessi radicati nella società civile, anziché su "appartenenze" obsolete e ormai ingannevoli, si vinceva contro Berlusconi e si rinnovava il paese? Anche con la tua proposta della scorsa estate non hai fatto che restare fedele a quella analisi di fondo. Ma ormai, dopo ripetute "incarnazioni" sempre più distanti dall'idea, il rischio è l'incistarsi di un deficit di coerenza tra l'ipotesi analitica e il veicolo organizzativo.

Guardiamo alla vicenda del Triciclo, esemplare nella sua negatività.

Quando la scorsa estate lanciasti l'idea di una lista unitaria, dissi subito che costituiva "l'unico tentativo politico fin qui partorito dall'Ulivo in due anni di opposizione". Ma non fui certo il solo a mettere in luce come il punto cruciale, da cui dipendeva la riuscita o meno dell'operazione, stesse in questi termini (Eugenio Scalfari, molto più autorevolmente di me, lo ribadì e sintetizzò su Repubblica): la proposta sarebbe stata vitale e straordinariamente innovativa solo se non si fosse limitata a evocare l'unità tra i partiti, bensì l'unità di tutte le opposizioni, quelle dei partiti e quelle manifestatesi nella società civile.

Proprio di questo, invece, si finì per non discutere. I sì, i no, i forse, che rimbalzarono fra gli apparati evitarono proprio di prendere in considerazione tale questione cruciale e dirimente. Ovvio il risultato: eluso il problema la cui soluzione poteva fare da catalizzatore unitario, si scatenò l'uso strumentale dei sì, dei no e dei forse: privilegiando ragioni di schieramento e di bottega.

(...) Oggi si può dire, naturalmente, che Di Pietro-Occhetto valevano solo il 2,1 per cento. Verissimo. Da soli, però (e non bisognerebbe trascurare che lo Sdi di Boselli ha contribuito non già con lo 0,00 ma con una grandezza negativa, come conferma l'analisi del voto di Bologna). Quale sarebbe stato il "valore aggiunto" legato non a Di Pietro-Occhetto ma al dispiegarsi della spirale virtuosa, e relativa passione civile/entusiasmo elettorale, a seguito del venir meno dei veti e della partecipazione dei "movimenti e girotondi" del teatro Vittoria, non lo sapremo mai, ovviamente.

Ma qualche indizio lo abbiamo: a Bari la lista civica di un candidato sindaco voluto dalla società civile (il magistrato anticosche Michele Emiliano) prende da sola il 18 per cento, superando tutti i partiti (e costituisce il "valore aggiuntissimo" che strappa la città al berlusconismo). Ad Ascoli Piceno, per le provinciali, Massimo Rossi, "imposto" dai movimenti stravince, prendendo circa il 10 per cento in più della somma dei partiti. A Bologna vince in modo travolgente il "massimalista" Cofferati, mandando ai robivecchi tutta la solfa politologica sulle elezioni che si vincono al centro (forse si vincono "al centro", inteso come luogo sociologico degli incerti e "moderati": non certo con candidati più "di centro"). Infine, anche le preferenze dentro il Triciclo dicono qualcosa: inviso agli apparati (e da questi esplicitamente boicottato) Giuseppe Fava prende in Sicilia un mare di voti. E due neopolitici estranei alle gerarchie, Lilli Gruber e Santoro, mandano il pallottoliere in tilt.

Insomma: ovunque si è presentato uno spiraglio, l'elettorato democratico (dunque antiberlusconiano) ma "incerto", che rifiuta la logica delle appartenenze, ha "aggiunto" il suo "gruzzolo": se ci fosse stata la lista davvero unitaria che proponemmo al teatro Vittoria (a parole accettata dai partiti, e qualche ora dopo buttata al macero), quel gruzzolo avrebbe inclinato verso l'esondazione: sarebbe divenuto, almeno e certamente, investimento massiccio.

(...) Ora, caro Romano, con sacrosanta tempestività rilanci l'idea di una Costituente dell'Ulivo. Lemma drasticamente impegnativo nella sua vincolante onerosità in vista di un radicalmente nuovo. Ma vocabolo malinconicamente esautorato, a forza di "nuovi inizi" troppo spesso tramontati non appena vista la luce. Eppure tutto si gioca qui, se la parola "Costituente" starà a significare un "patto fondamentale" tra partiti già esistenti (dunque tra i loro apparati dirigenti) o tra i cittadini che con "pari dignità" rispetto ai partiti (come recita una giaculatoria partitocratica mai onorata) trovino ancora la passione per fondare il famoso e più che mai necessario "oltre". Fondare, non essere cooptati, cioè trifolati e digeriti da nomenklature che strutturalmente resteranno le medesime.

Che sia ancora possibile, non mi azzarderei a scommetterci. Che sia necessario, resta più vero che mai.

Ma è una verità ormai gravosamente scomoda, che non si lascerà aggirare o annacquare: quei famosi cittadini attivi, disponibili all'impegno politico ma non al professionismo politico, senza i quali non ci sarà Costituente ma solo aria fritta e rigovernatura di apparati, sono sempre di meno e sempre più scettici. Per trovarne in numero tale da renderli "massa critica" dovrai essere convincente davvero: non sulle tue intenzioni, ma sulla tua capacità di convincere davvero i potentati di partito a rimettersi radicalmente in gioco, a ridimensionare radicalmente il loro potere in un "gioco" nuovo, a fare molto ma molto di più (cioè molti ma molti più passi indietro) di quanto non fossero disposti a fare neppure nei giorni del pullman. Su questo si deciderà se avrai voluto essere il leader dell'altra Italia o semplicemente il candidato dell'attuale centro-sinistra.

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