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Jan Peter; Breidenbach Dreier
L'eredità di Frank Wilkinson
20 Gennaio 2007
Altri padri e fratelli
Battaglie per la casa popolare nel solco dei diritti civili. Common Dreams, 7 gennaio 2006 (f.b.)

Titolo originale:Frank Wilkinson's Legacy– Traduzione di Fabrizio Bottini

Gli articoli commemorativi in occasione della scomparsa di Frank Wilkinson, morto il 2 gennaio all’età di 91 anni, si concentrano principalmente sul suo ruolo di oppositore di punta del maccartismo e la fervente dedizione al Primo Emendamento. Gli anni trascorsi lottando per le nostre libertà fondamentali furono catalizzati dall’esperienza personale del 1958, quando fu una delle ultime persone imprigionate per aver sfidato lo HUAC [ House Un-American Activities Committee]. Dopo la prigione, formò quello che poi divenne il National Committee Against Repressive Legislation, e sino alla morte dedicò le proprie energie e acume ai nostri diritti fondamentali.

Perdiamo un campione proprio al momento in cui l’assalto alle nostre libertà civili si sta intensificando: Patriot Act, spionaggio della National Security Administration, sono solo i più evidenti tentativi dell’attuale Amministrazione di distruggere ciò che Frank aveva difeso.

La dedizione di Frank alle libertà civili varrebbe da sola un intero libro di memorie. Comunque, dobbiamo ricordarci che cominciò la sua carriera come attivista per le case popolari. La sua crociata per il primo emendamento in realtà iniziò quando fu licenziato dalla Los Angeles Housing Authority per le sue scelte politiche radicali.

Per la generazione di idealisti a cui appartiene Wilkinson – maturata durante la Depressione degli anni ’30 – l’abitazione pubblica fu parte di un vasto movimento per le riforme sociali e la giustizia economica. Il fatto che la casa popolare oggi porti impressi i segni del fallimento, non si deve certo ai valori di progresso che ispirarono Wilkinson e altri, ma all’influenza politica delle forze di destra che lottarono si dall’inizio per indebolire l’abitazione pubblica.

Los Angeles e altre città si trovano ora di fronte a gravi carenze di case a prezzi accessibili. Molte delle stesse battaglie combattute da Wilkinson 50 anni fa – per l’urbanistica, i sussidi governativi ai bassi redditi, l’integrazione razziale, contro l’opposizione “ not in my backyard” alle case economiche – sono ora quelle dell’attuale generazione di funzionari pubblici ed esponenti della società civile.

Frank Wilkinson era cresciuto a Beverly Hills, era un Repubblicano da studente alla UCLA, e pensava seriamente di diventare pastore metodista. Entrò nella nuova Los Angeles Housing Authority nel 1942, quando era un ufficio indipendente con la missione di porre fine all’esistenza degli slums in città. Sotto il sindaco dell’epoca Fletcher Bowron, riformista liberale Repubblicano eletto nel 1938, la LA Housing Authority sosteneva l’idea di costruire case dignitose per poveri e famiglie a basso reddito, e credeva nell’integrazione razziale per lo sviluppo urbano.

Dopo la seconda guerra mondiale, Bowron tentò di ampliare il programma, in particolare per i molti veterani che si trovavano di fronte una disperata carenza di alloggi. Sostenne un piano per radere al suolo alcune case nella zona di Chavez Ravine e sostituirle con un grande intervento di edilizia pubblica progettato dall’architetto di fama mondiale Richard Neutra, con due dozzine di edifici da 13 piani e oltre 160 case a due piani, oltre a campi da gioco e scuole. Bowron, Wilkinson e altri riformatori vedevano nel piano per Chavez Ravine un modo di migliorare le condizioni di vita dei poveri losangelini. L’opposizione al progetto venne dagli immigrati che abitavano nell’area, allora essenzialmente una zona rurale con un insediamento di baracche, strade sterrate e priva di fogne. Questa opposizione era comprensibile, dato che nonostante le condizioni la gente considerava queste alture come la propria casa. Uno degli incentivi offerti ai residenti fu la promessa assoluta che sarebbero stati i primi a trasferirsi nelle nuove abitazioni. Nel 1950, fu presentato loro il progetto.

Se Frank e la Housing Authority volevano ricostruire la zona per chi ci abitava, altri in città – imprenditori e politici di destra – erano d’accordo sulle demolizioni ma per altri motivi. Terreni tanto vicini al centro valevano molto più per la rendita dell’offerta di case popolari. Utilizzando le tattiche maccartiste del “ Pericolo Rosso”, queste forze si unirono per bollare la proposta di Chavez Ravine – e in generale le case popolari – come pianificazione socialista. L’attacco si concentrò sul sostenitore principale – Frank Wilkinson – dipingendolo come pericoloso comunista. Condotto di fronte allo House Un-American Activities Committee, rifiutò di ripondere alle domande in base al Primo Emendamento, e fu licenziato dal suo lavoro, processato e messo in una prigione federale.

Poi gli stessi interessi che si erano opposti a Wilkinson e alle case popolari misero fine alla carriera politica di Bowron. Scelsero il rappresentante al Congresso Norris Poulson per candidarlo contro Bowron e ne orchestrarono l’elezione a sindaco nel 1953. Durante la campagna, Poulson si impegnò a fermare il piano per Chavez Ravine e altri esempi di spesa “antiamericana”. Con Poulson, la municipalità ricomprò l’area di Chavez Ravine dal governo federale a prezzo di favore.

Los Angeles lasciò Chavez Ravine a laguire nel suo stato di slum e semiabbandono sino alla metà degli anni ‘50, quando il consigliere municipale Kenneth Hahn face fare al proprietario dei Brooklyn Dodgers, Walter O’Malley, un giro in elicottero, indicandogli la vicinanza dell’area alle freeways e al centro. Per far sì che O’Malley portasse la sua squadra a Los Angeles, la città fece radere al suolo dalle ruspe le case restanti, evacuando con la forza gli ultimi abitanti. Nessuno venne ricollocato in abitazioni migliori, non si realizzò nessuna casa dignitosa per i poveri che abitavano lì. I profondi avvallamenti furono colmati per realizzare il piatto campo da gioco del Dodger Stadium.

La “ battaglia di Chavez Ravine” è diventata una leggenda dell’urbanistica, ha ispirato un lavoro teatrale del gruppo Culture Clash, un recente album del chitarrista Ry Cooder, e molti libri e studi accademici.

L’attacco a Frank Wilkinson in quanto sostenitore dell’edilizia pubblica per i meno abbienti fu solo uno dei molti, replicati in molti modi in tutto il paese.

Fino alla Depressione, la maggior parte dei leaders d’opinione americani riteneva che le forze private di mercato, sostenute dalla mano della filantropia, potessero rispondere ai bisogni nazionali della casa. Nei primi tre decenni del XX secolo, alcuni sindacati e riformatori per la casa realizzarono interventi modello per le famiglie della classe lavoratrice, ma senza sussidi governativi. Il collasso economico offrì ai riformatori lo spiraglio politico per far avanzare le proprie idee “radicali” secondo cui il governo federale avrebbe dovuto sostenere “case sociali” e aiutare a creare un settore non commerciale, libero dal profitto e dalla speculazione. Come i loro corrispondenti europei, essi pensavano anche ai ceti medi oltre che ai poveri.

Questi riformatori – attivisti sindacali, economisti, urbanisti, architetti, operatori sociali e giornalisti – avevano fiducia nel ruolo propositivo del governo riguardo alla società e alle città. Credevano che abitazioni ben concepite con servizi adeguati potessero elevare i poveri. Volevano progetti di abitazioni destinati a ceti a vario reddito, non commerciali, sussidiati dal governo, sostenuti dai sindacati, dalle associazioni religiose, da altre strutture non-profit, dagli uffici pubblici. Nei primissimi anni, il New Deal realizzò alcuni insediamenti modello che riflettevano questa visione. Comprendevano centri day care e campi da gioco, coinvolgevano gli abitanti in attività culturali e di istruzione, erano formalmente belli e attraenti anche perché ci abitassero le famiglie del ceto medio.

Ma sui riformatori ebbe presto la meglio il settore immobiliare. Preoccupati che abitazioni ben concepite, a buon mercato e sostenute dal governo potessero competere coi privati nell’offerta ai consumatori della middle-class, questi sventolarono lo spettro del “ socialismo”. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’impennata della domanda e il timore per la concorrenza delle abitazioni pubbliche, il settore mobilizzò una grossa campagna contro questi programmi. Specialmente nel caso dello housing act del 1949, i privati sabotarono il programma esercitando pressioni sul Congresso perché tagliasse i finanziamenti, lasciasse alla discrezionalità degli enti locali se e dove realizzare gli interventi, li limitasse ai ceti più poveri. I Senatori degli stati del Sud fecero sì che le amministrazioni locali avessero la possibilità di mantenere la segregazione razziale nell’edilizia pubblica.

Con un bilancio limitato, molti progetti furono mal realizzati e/o mal concepiti: brutti contenitori per poveri, col termine “ case pubbliche” a stigmatizzare un’abitazione di livello infimo. Le autorità locali per la casa – generalmente dominate dai rappresentanti delle imprese e del settore immobiliare – spesso collocavano gli interventi in aree senza servizi adeguati di negozi, trasporti, scuole, isolati dai quartieri della middle-class, contribuendo alla concentrazione dei poveri all’interno delle città. I problemi che ora associamo alle case pubbliche non erano inevitabili. Furono il risultato di scelte fatte dal Congresso e a livello locale.

Le abitazioni pubbliche si identificarono con la guerra della droga e il crimine, posti dove i bambini avevano paura a camminare sino a scuola, dove per gli anziani androni e ascensori erano pericolosi quanto le strade, e avevano paura a uscire dai propri appartamenti, posti dipinti come una trappola anziché uno strumento di elevazione sociale. Alla fine, furono costruiti soltanto 1,3 milioni di alloggi pubblici – meno dell’1% delle abitazioni a livello nazionale – e le realizzazioni terminarono nell’era Nixon. Poi sono stati attuati altri programmi – buoni casa per gli inquilini poveri e finanziamenti per alcune piccole realizzazioni – ma di fatto gli Stati Uniti si allontanarono dalla responsabilità di dare alloggio a tutti – compresi i più poveri nel momento in cui abbandonammo l’edilizia pubblica.

Oggi, Washington fornisce qualche tipo di sostegno all’abitazione per meno di un quarto dei poveri a livello nazionale. E anche se questo numero di poveri è aumentato da quando è entrato in carica il Presidente George W. Bush, la sua amministrazione ha tagliato i sussidi per la casa alle famiglie a basso reddito.

Si utilizzano ancora alcuni fondi federali per costruire nuove case per poveri. Ironicamente, la maggior parte delle abitazioni con sussidio governativo di oggi è costruita da organizzazioni locali non-profit. Generalmente sono ben progettate per inserirsi all’interno dei quartieri, e di piccole dimensioni paragonate ai massicci progetti residenziali costruiti negli anni ’50 e ‘60. un numero crescente di questi complessi è per redditi misti, e comprende asili nido, formazione professionale, programmi di educazione e animazione. In altre parole, assomigliano al tipo di progetti che i primi riformatori per la casa e i loro discendenti politici, come Frank Wilkinson, avevano ideato. Ma senza sufficienti sussidi federali, queste organizzazioni locali mancano delle risorse per rispondere seriamente alle carenze per i poveri.

E ancora oggi, i politici di destra usano lo stereotipo delle case pubbliche per attaccare la stessa idea di intervento governativo. Durante la sua campagna del 1996, il candidato alla nomination Repubblicana Bob Dole disse che l’abitazione pubblica è “uno degli ultimi baluardi del socialismo nel mondo”, definendo gli uffici responsabili “padroni di casa della miseria”. Più di recente, dopo l’uragano Katrina, il rappresentante al Congresso Richard Baker (repubblicano della Louisiana) è stato ascoltato mentre diceva ai lobbisti, “Abbiamo finalmente fatto piazza pulita delle case popolari di New Orleans. Noi non ci eravamo riusciti, ma Dio sì”.

Il fatto che il governo federale abbia girato le spalle all’idea della casa per tutti non ha posto fine alla crisi. Le città del paese affrontano sempre una seria crisi delle abitazioni, e senza avere a fianco le autorità federali. A Los Angeles, dove Frank trascorse l’intera esistenza, consiglieri eletti e attivisti stanno tentando di misurarsi coi risultati dell’assenza governativa, compresi gli 80.000 homeless e un mercato immobiliare dove anche le famiglie di ceto medio non possono permettersi l’acquisto di una casa. Ora il sindaco progressista Antonio Villaraigosa si rivolge ai sostenitori cittadini dell’edilizia pubblica – e allo spirito di Frank Wilkinson – per trovare soluzioni alla soverchiante crisi, trovare risorse per un trust fund locale, sperimentare politiche come lo housing inclusivo, “appartamenti dei nonni” e maggiori densità, oltre a spingere i proprietari a riparare gli edifici dei quartieri degradati.

Dopo che Wilkerson uscì di prigione, non gli venne consentito più di lavorare per l’edilizia pubblica. Continuò invece fino a diventare uno dei principali esponenti nazionali dei diritti civili. Come nel caso della sua battaglia per le garanzie del Primo Emendamento di libertà di parola, Frank Wilkinson vedeva nell’abitazione dignitosa, sicura e a buon mercato un diritto fondamentale. Fu di ispirazione per decine di migliaia di attivisti di questo paese. In sua memoria, rinnoviamo il nostro impegno allo smantellamento del Patriot Act, nello stesso modo in cui lui lottò per quello della HUAC. E in sua memoria lottiamo per un luogo sicuro, dignitoso e alla portata di tutti, da chiamare casa.

Nota: anche in Italia, il quotidiano Il manifesto ha ricordato la figura di Wilkinson in questo articolo di Luca Celada (f.b.)

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