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Abu Salam Al Kubaisi
«Le ragazze avevano ricevuto minacce»
17 Agosto 2005
Articoli del 2004
Intervistato da Ugo Cubeddu su il Messaggero del 14 settembre 2004, l’autorevole leader dei sunniti spiega perché è convincente l’ipotesi dello zampino dei servizi segreti nel rapimento delle due Simone. Anche per l’assassinio di Enzo Baldoni ci fu chi avanzo la stessa ipotesi. Terroristi, guerriglieri, resistenti, soldati invasori e adesso anche barbefinte: sono davvero molti i protagonisti del terrore.

«Le ragazze avevano ricevuto minacce»

Abu Salam Al Kubaisi

Intervistato da Ugo Cubeddu su il Messaggero del 14 settembre 2004, l’autorevole leader dei sunniti spiega perché è convincente l’ipotesi dello zampino dei servizi segreti nel rapimento delle due Simone. Anche per l’assassinio di Enzo Baldoni ci fu chi avanzo la stessa ipotesi. Terroristi, guerriglieri, resistenti, soldati invasori e adesso anche barbefinte: sono davvero molti i protagonisti del terrore.

BAGDAD - Sono tutti d'accordo: questo delle due Simone è un sequestro ”strano”, ”diverso”: spezza regole non scritte, spezza consuetudini che da cinque mesi qui in Iraq sono diventate norme di comportamento ormai quotidiane. Prima bastava tendere un agguato per strada (magari con qualche soffiata precisa) e poi negoziare, all'interno delle tante organizzazioni - banditi inclusi - il valore degli ostaggi e cominciare il balletto della morte, eseguita o negoziabile. Poi - con le due Simone, ma per ora solo con loro - le regole sono cambiate e proprio i sunniti, che hanno forti legami con la guerriglia in tutte le città irachene, sono i primi a essere incerti. Ecco allora Al Kubaisi, numero due del Consiglio degli Ulema, il massimo organismo sunnita (vuol dire il 45 per cento della popolazione irachena), che racconta la sua valutazione del sequestro, i suoi contatti con le due Simone, la sua “storia” di questo sequestro.

Dottor Al Kubaisi, quando ha incontrato le due ragazze di “Un ponte per Bagdad”?

«Lunedì, il giorno prima del sequestro. Sono venute da me, abbiamo parlato insieme per un'ora e un quarto. Prima mi hanno spiegato quello che stanno facendo per l'Iraq, il loro lavoro per la Ong. In un primo momento non riuscivo a capire perché mi raccontassero queste cose, poi tutto è stato più chiaro. Abbiamo paura, mi hanno detto, c'è chi ci sta spingendo in una direzione diversa da quello che è il nostro lavoro. Abbiamo ricevuto molte telefonate di minacce in questi ultimi tempi e quindi vorremmo andare a Falluja per aiutare la gente di lì, mi hanno spiegato, ma ovviamente abbiamo bisogno del vostro appoggio».

Lei cosa ha risposto?

«Che non c'era nessun problema, che potevano contare su di noi. Anzi, ci siamo messi d'accordo che ci saremmo rivisti mercoledì a pranzo per discutere il programma che avrebbero portato, dopodiché ci siamo salutati. Martedì le hanno sequestrate e mercoledì un iracheno è venuto a portarmi il loro programma. Eccolo, vede? Pensavano di cambiare anche il nome della loro organizzazione chiamandola, per il periodo di permanenza a Falluja, “Un ponte per l'emergenza”. Poi, prima di andare via, mi hanno anche chiesto dove potevano fare qualche corso per donne per imparare meglio la religione islamica. Mi hanno fatto una impressione molto buona, erano anche molto rispettose nel modo di vestirsi e, secondo me, molto brave in quello che facevano».

Lei cosa sa del sequestro?

«Abbiamo raccolto delle testimonianze e ci siamo fatti un quadro di quello che è successo. Il gruppo era costituito da venti persone, vestite in modo quasi uguale, all'occidentale. Avevano tutti quei gilet pieni di tasche che portate voi giornalisti con, sotto, dei giubbotti antiproiettile e tutti erano armati con quelle mitraggliette che usano i ”contractors” che lavorano per gli americani. Dieci sono entrati, altri dieci sono rimasti a sorvegliare la strada. Sono arrivati su 3 pick-up, più una Peugeot station wagon e due Toyota Land Cruiser e hanno fatto tutto con molta calma, come se avessero le spalle coperte. I dieci che sono entrati obbedivano a un uomo con il pizzetto che chiamavano “Stath”, signore, e all'interno non c'è stata agitazione, né fretta. Hanno chiamato le due donne per nome, poi i due collaboratori iracheni, li hanno portati sulle macchine e sono andati via».

Chi pensa possano essere?

«Non ho molti dubbi: direi uomini di qualche servizio segreto straniero. Per la loro organizzazione, per la sicurezza e la tranquillità con cui si sono mossi, per le armi che avevano. Certamente diversi dai vari gruppi che sequestrano gente per strada, stranieri e iracheni».

Crede alla rivendicazione di “Jihad al Islam per l'Iraq” che si dice legata ad Al Zarkawi, il numero due di Al Qaeda secondo gli americani?

«No, francamente no. Anzi, penso che in realtà che il nome di Al Zarkawi sia invece usato dagli americani come copertura per quello che stanno facendo in molte città dell'Iraq e so anche che in suo nome sono usciti su Internet attacchi molto forti contro di noi».

Avete avuto incarichi di mediazione dagli italiani?

«No, nessuno. Il vostro ambasciatore è venuto qui, alla moschea di Umm Al Khura, per una riunione di capi tribù, ma non ci è stato dato alcun incarico. Noi però rivolgeremo un appello per la liberazione degli ostaggi, cercando di fare leva sulla religione dei rapitori e non sui giochi politici. Che sono tanti e molto pericolosi».

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