Una volta, all’inizio, la città era un dispositivo simbolico che serviva a tenere insieme il cielo e la terra, a proiettare la regola celeste su quella terrestre, e i suoi abitanti potevano sentirsi intimamente inseriti nel cosmo, perché sempre in grado di decifrarne il significato: gli antichi latini ancora orientavano ad esempio le due principali vie urbane, fra loro ortogonali, in modo da essere parallele l’una all’asse intorno a cui ruotava il sole e l’altra al cammino di quest’ultimo, sicché passeggiando ne seguivano il corso, ne riprendevano consapevolmente il moto. Così la città, prodotto del rito, traduceva il metafisico in fisico, e poiché la sua struttura era il riflesso di qualcosa che la sovrastava, la distinzione tra centro e periferia era assolutamente secondaria e riguardava il suo funzionamento, non la coscienza di chi la popolava. La religione (che appunto significa tenere insieme) agiva in senso orizzontale oltre che verticale, assicurando solidarietà all’intero corpo urbano. Tale città non esiste più da un pezzo, e proprio mentre nei giorni scorsi Parigi andava a fuoco, a Ginevra (e non si tratta di un caso) l’Unione Internazionale delle Comunicazioni discuteva se voltare definitivamente le spalle al cosmo e al suo ordine, se passare dal tempo astronomico a quello atomico, se cioè continuare a scandire il tempo in base alla rotazione terrestre oppure in base alle più precise ma molto più astratte frenetiche vibrazioni degli atomi del cesio, seguendo le quali tra due o tre migliaia d’anni potremmo vedere il sole tramontare quando adesso è mezzogiorno. Difficile immaginare un cambiamento più letteralmente epocale di quello appena richiamato. Per chi (come i giovani delle banlieues) non è direttamente coinvolto nello sviluppo delle telecomunicazioni e dei satelliti, nella crescita delle transazioni finanziarie e delle reti energetiche, esso si configura come un autentico esproprio del tempo e del fondamentale rapporto con tutto quel che ci circonda: una sorta di alienazione antropologica primaria, sulle cui conseguenze nessuno è in grado di avanzare previsioni, ma il cui inconsapevole riflesso è forse già presente in quel che sta accadendo, nella violenza di cui le città sono attualmente teatro.
Alla città del sole succede quella degli uomini, che dal VI secolo a. C. in poi inizia ad organizzarsi secondo la geometria, in funzione di un’unica interna misura, al cui orizzonte si staglia l’equivalenza tra città e immagine cartografica della città. Per Platone la città giusta è quella che realizza il modello dell’uguaglianza geometrica, in cui le abitazioni e i campi di ogni singolo cittadino sono complessivamente disposti in maniera da trovarsi esattamente alla stessa distanza media dal centro rispetto a quella delle abitazioni e dei campi di tutti gli altri. Attenti: la giustizia qui ha un significato politico, non sociale. La società, con tutte le due diseguaglianze, restava quella che era: le donne, gli schiavi, gli stranieri erano esclusi dall’assemblea degli uguali, dei detentori dei diritti politici. Ma accanto alla società nasceva un altro livello, ad essa sovrapposto, al cui interno la dipendenza dai vincoli sociali era eliminata, e i nobili e i semplici cittadini (maschi ed abbienti) erano per la prima volta tutti uguali, a dispetto della loro diseguaglianza. Come ha spiegato Hannah Arendt, nel recarsi dalla propria abitazione alla piazza, luogo dell’esercizio dei diritti connessi alla cittadinanza, gli ateniesi dovevano ogni volta valicare un abisso, sebbene il cammino fosse assolutamente piano: essi dovevano in realtà salire e ridiscendere, pur restando la stessa persona, l’incolmabile dislivello tra differenza sociale e uguaglianza politica. Da Aristotele, allievo di Platone, fino a Giovanni Botero che nel 1588 avvia la moderna riflessione teorica sulla natura urbana, la città resta comunque, con le parole di quest’ultimo, «una ragunanza di huomini, ridotti insieme per vivere felicemente»: essa non è mai considerata una cosa ma un complesso di relazioni interpersonali indirizzate verso un fine collettivamente condiviso, ed è proprio tale generale condivisione a garantirne l’omogeneità.
Tra Sei e Settecento il senso dell’apparato cittadino però cambia, e alla città degli uomini succede fino in fondo quella della mappa. Si apra l’ Encyclopédie degli illuministi: la città è definita come un «insieme di più case disposte lungo le strade e circondate da un elemento comune che di norma sono mura e fossati», anzi essa è, più precisamente, «una cinta muraria che racchiude quartieri, strade, piazze pubbliche e altri edifici». Per la prima volta la città diventa per tal verso una cosa, composta da un complesso di oggetti: gli abitanti spariscono, come se evacuati, ed essa si riduce soltanto a quel che di essa può rappresentarsi su una carta geografica, a ciò che di essa resta come immagine topografica. Ne consegue che il principio dell’uguaglianza geometrica diventa al suo interno onnipervasivo, sicché non riguarda più soltanto il piano politico, come già nella polis classica, ma si estende (in forma di rivoluzione) anche a quello sociale. Insomma: l’ egalité dei cittadini rivendicata a suo tempo con la presa della Bastiglia è esattamente quella dei punti all’interno di una estensione geometrica, deriva da essa.
È proprio la rivendicazione di tale uguaglianza ad infiammare adesso i sobborghi delle città francesi, assumendo la forma geometrica dell’opposizione tra centro e periferia, la stessa indotta dalla moderna riduzione della formazione urbana (e del suo concetto) a puro meccanismo spaziale, regolato cioè soltanto da una logica metrica lineare standard. Già Gramsci spiegava, dal carcere, come il fordismo si fondasse sull’inclusione della città, e in particolare del suo sistema di trasporti, all’interno della produzione stessa. E più di recente David Harvey ha mostrato come difficilmente nel dopoguerra il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere senza l’intervento dello stato nella gestione delle politiche fiscali e monetarie in grado di incentivare l’urbanizzazione dal lato della domanda, e risolvere così il problema della disoccupazione. Di qui la smisurata crescita delle periferie, che ha trasformato la costruzione della città in un gigantesco artefatto per la redistribuzione dei redditi. A farvi caso spazio e moneta agiscono alla stessa maniera: ambedue funzionano come un’astrazione concreta, impongono esterne e omogenee misure di valore su tutti gli aspetti della vita umana, riducono l’infinita diversità del reale ad un’unica comparabile dimensione e mascherano la natura soggettiva delle relazioni umane con l’oggettività delle leggi (di mercato la moneta, geometriche lo spazio). Lo spazio è perciò la forma territoriale della moneta, e i recentissimi tumulti francesi proprio questo alla fine segnalano: la crisi della spazializzazione del territorio, delle politiche di gestione fondate sulla riduzione dei valori locali sotto il segno dell’equivalenza generale. È esattamente questo, a farvi caso, il significato autentico dell’utopia di Moro: il sogno di un paese in cui tra luogo e spazio sia possibile la conciliazione, la coesistenza, e in cui perciò il contrasto tra periferia e centro non si conosce.
Utopia è rimasta un sogno ma, come su questo giornale l’altro giorno spiegava Peter Hall, le periferie non sono tutte uguali. Cominciamo dunque a riconoscerle, a tentare di spiegarne le differenze, a distinguerle e a dar loro un senso autentico, come verso la fine della sua vita Foucault voleva. Trent’anni fa Henri Lefebvre ha spiegato La produzione sociale dello spazio. Si tratta adesso di fare i conti con la produzione spaziale della società.