A un anno dalla rivolta popolare contro l’inceneritore di Acerra, guidata congiuntamente dal sindaco comunista e dal vescovo, nella cittadina ai piedi del Vesuvio le ruspe si sono fermate perché - a forza di scavare nel terreno - una falda freatica ha allagato il cantiere. Tra la Campania e la Puglia, intanto, è in corso una disputa sulla collocazione di un nuovo impianto di smaltimento al confine tra le due regioni che è arrivata a contrapporre i rispettivi governatori di centrosinistra, Antonio Bassolino e Nichi Vendola. E in Sicilia, il progetto della Regione per la costruzione di quattro termovalorizzatori, bloccato da un ricorso al Tar e sospeso all’unanimità dalla stessa assemblea regionale fino al 30 settembre, ha appena ricevuto un via libera dal Consiglio di Stato: il "valore politico" di quella decisione, secondo l’ordinanza, "non incide direttamente sugli atti amministrativi e sulla loro efficacia".
Sullo sfondo di un Sud che aggiunge ai suoi mali storici la malagestione dei rifiuti, sotto la minaccia delle discariche abusive e l’ombra della criminalità organizzata che si allunga su quest’ultimo business, il caso siciliano rischia di diventare un paradigma nazionale. Con buona pace del glorioso generale Garibaldi, le due Italie continuano a dividersi perfino sulla spazzatura. E il nostro povero Mezzogiorno, in ritardo anche sulla raccolta differenziata rispetto al resto del Paese, rimane pericolosamente in bilico tra un degrado urbano e ambientale che è sotto gli occhi di tutti e una possibile modernizzazione civile, irta però di ostacoli e ambiguità.
Da quando nel ‘99 fu dichiarata l’emergenza rifiuti nell’isola, la Regione Sicilia ha avviato un piano d’intervento ispirato, almeno sulla carta, ai principi della sostenibilità. Il ciclo completo - come si fa già altrove - prevede innanzitutto la raccolta differenziata, presupposto indispensabile per separare il secco dall’umido, la carta, la plastica, il legno, il vetro e i metalli; poi la produzione di compost, un fertilizzante per usi agricoli; quindi la selezione e il riutilizzo dei rifiuti non riciclabili; e infine la produzione di energia attraverso una rete di termovalorizzatori, gli impianti nei quali si bruciano ad altissime temperature i materiali dotati di sufficiente potere calorifico.
In questi cinque anni, dopo la nomina dello stesso presidente della Regione Salvatore Cuffaro a Commissario straordinario per l’emergenza, la situazione è andata gradatamente migliorando con una tendenza verso gli standard nazionali: la raccolta differenziata è aumentata, mentre le discariche su tutto il territorio regionale si sono ridotte dalle 357 iniziali a 114. Ma c’è ancora molto da fare per allineare la Sicilia agli obiettivi del "decreto Ronchi" che nel ‘97 fissò il tasso di raccolta differenziata al 35% sul totale della produzione di rifiuti urbani: tanto più che il Nord ha già superato il 30%, il Centro è intorno al 15, mentre il Sud e le isole sono ancora sotto il 6.
Il piano della Regione Sicilia prevede la realizzazione di quattro termovalorizzatori: uno a Bellolampo, alle porte di Palermo; gli altri ad Augusta (Siracusa), Casteltermini (Agrigento) e Paternò (Catania), per servire altrettante aree omogenee a cavallo di nove province. I primi tre impianti sono stati appaltati al gruppo Falck con alcuni partner locali, il quarto sarà realizzato da un altro gruppo. L’investimento complessivo ammonta a circa un miliardo di euro, con 1.500 occupati nella fase di costruzione e altrettanti in quella di gestione.
Ma è soprattutto sul doppio vantaggio, ambientale ed energetico, che punta il consorzio Actelios per superare le resistenze delle popolazioni locali e del fronte ecologista che hanno prodotto lo stop bipartisan dell’assemblea regionale contro il piano del presidente-commissario. Con l’installazione dei termovalorizzatori, da una parte verrebbe trattato e smaltito circa il 70% dell’attuale produzione regionale di rifiuti; dall’altra, verrebbe installata una potenza di 150 megawatt per una produzione di energia elettrica sufficiente a soddisfare il 20% del fabbisogno della popolazione siciliana. E così le discariche si ridurrebbero a 8 in tutta l’isola, con una diminuzione della massa dei rifiuti pari all’80%.
Per sostenere il piano, e difendere naturalmente i propri interessi aziendali, il gruppo Falck ha affidato il progetto degli impianti allo studio dell’architetto giapponese Kenzo Tange (scomparso recentemente), con l’intento dichiarato di trasformarli in altrettanti monumenti industriali e renderli così esteticamente più accettabili. Ma, per vincere l’ostilità degli ambientalisti, è soprattutto sul nome di Umberto Veronesi che il consorzio fa ora affidamento: l’ex ministro della Sanità ha accettato la presidenza di un comitato a cui spetterà il compito di monitorare la salubrità dei territori dove verranno installati i termovalorizzatori. Un oncologo di fama mondiale, insomma, come testimonial di tutta l’operazione.
Al di là delle motivazioni ideologiche e politiche, dunque, il caso siciliano riassume emblematicamente tutte le contraddizioni che qui o altrove alimentano la "guerra dei rifiuti". Gli ambientalisti hanno senz’altro ragione a insistere sull’esigenza prioritaria di ridurne innanzitutto il volume complessivo, con l’uso di materiali biodegradabili al posto delle buste o bottiglie di plastica e delle lattine, per incrementare quindi la raccolta differenziata ed evitare il sovradimensionamento degli impianti. Sta di fatto però che in tutto il Sud (e a dirlo qui è un meridionale, immune da qualsiasi tentazione di razzismo) la spazzatura è ancora una questione di abitudini o di cattive abitudini, di educazione o maleducazione civica, di igiene pubblica che spesso diventa emergenza sanitaria, diciamo pure di cultura: basta osservare le montagne di sacchetti, scatole e scatoloni ammassati abitualmente intorno ai cassonetti o agli angoli delle strade, per rendersene conto. E allora, proprio in difesa delle popolazioni interessate e dell’ambiente in cui vivono, occorre procedere realisticamente per fermare il degrado e impedire guasti maggiori.
In Sicilia, come in Campania, in Puglia o altrove, tutti abbiamo il problema dei rifiuti da smaltire, ma nessuno vorrebbe farlo nel proprio paese, nella propria città, provincia o regione. Gli inglesi, cultori del pragmatismo, la chiamano con un acronimo "sindrome Nimby": not in my backyard, non nel mio cortile ovvero nel mio giardino, insomma non a casa mia. Con tutte le garanzie necessarie, a cominciare da quelle sulla separazione dei materiali per finire al controllo delle emissioni, si tratta perciò di decidere la collocazione degli impianti di smaltimento nel modo più trasparente possibile, sulla base di valutazioni oggettive e ragionevoli.
Il termovalorizzatore, come raccontammo un anno fa da Brescia in un’inchiesta sull’Italia dei rifiuti, può rappresentare una risposta moderna a un problema antico e sempre più grave. Non è un mostro e non deve diventare un tabù. Sono oltre trecento, del resto, gli impianti di questo genere già attivi nel resto d’Europa. E se in un’ottica di "ambientalismo sostenibile", compatibile cioè con lo sviluppo e con la tutela della salute, si riesce a smaltire i rifiuti, a ricavarne energia e a ridurre l’inquinamento, vuol dire che avremo trovato la quadratura del cerchio.